La morte buddhista in Sri Lanka


Cari amici, il silenzio delle ultime settimane è dovuto a un interessante viaggio che ho fatto in Sri Lanka, lussureggiante e affascinante isola a sud est dell’India, con una popolazione a maggioranza buddhista (di tradizione Theravada, la più antica, risalente all’insegnamento del Budda), e con meravigliosi siti archeologici e templi.

Siccome mi è parso che apprezziate le descrizioni dei modi di celebrare la morte diversi dai nostri, vi racconto quel poco che ho potuto vedere e capire in questo primo viaggio singalese, accompagnato dagli scatti che è stato possibile fare. Procedendo faticosamente con uno sgangherato pulmino per le strade dell’isola, scorgevo lungo il tragitto diversi gruppi di semplici tombe, a volte simili, a volte diverse l’una dall’altra. Ho scoperto che in Sri Lanka, nei villaggi, si seppellisce vicino alla propria casa, o in zone identificate come cimiteriali da piccole comunità, senza particolari vincoli. Solo nelle città di maggiori dimensioni ci sono veri e propri cimiteri. In genere, i gruppi religiosi separano le proprie aree da quelle appartenenti a altre confessioni, ma non è raro vedere accostate tombe di defunti di credo differenti.
I cristiani raggruppano le loro semplici croci intorno alle chiese, i buddhisti ornano di drappi bianchi i mucchi di terra fresca che ricopre il corpo dei loro morti. Non tutti i buddhisti, infatti, cremano. La cremazione è costosa e sovente il corpo morto è semplicemente inumato; altre volte, invece, sono le ceneri a essere sepolte e non disperse (nei fiumi, o nella foresta, o nel mare).

E il funerale? Sono riuscita a vederne due di sfuggita, affollati, entrambi buddhisti, che si svolgevano nella casa del defunto, addobbata con bianchi paramenti a lutto. Alcune letture sul buddhismo in Sri Lanka e qualche parola con la nostra guida (un cristiano sposato con una donna buddhista) mi hanno dato qualche elemento in più per comprendere quello che avevo visto. Quando qualcuno muore, la famiglia si reca nel tempio e informa i monaci, invitandoli al funerale. Il corpo resta in casa per un paio di giorni, perché parenti e compaesani possano far visita al defunto. Sri Lanka è un paese prevalentemente rurale, e ha mantenuto tradizioni comuni a molte culture, non ultima anche la nostra in epoca moderna. La famiglia è sostenuta dai vicini, che portano cibo, caffè e the non solo per i familiari, ma anche per i visitatori. Né il defunto né la famiglia vengono lasciati soli. La strada verso il crematorio o il luogo di sepoltura, percorsa a piedi con la bara in spalla, è decorata con foglie di palma da cocco. La cerimonia funebre si svolge prima, in casa.

Dopo la cremazione comincia il periodo del lutto, durante il quale i membri della famiglia indossano semplici abiti bianchi (il colore preposto al cordoglio), non guardano la televisione né ascoltano la radio.
Sette giorni dopo la morte, ci si riunisce nuovamente tutti nella casa del defunto, dove un monaco pronuncia un sermone sul tema buddhista dell’”impermanenza” (il flusso continuo e il cambiamento di tutte le cose) e della morte. Descrive che cosa accade dopo la morte e perché è importante prestare ascolto all’insegnamento del Buddha ed essere generosi in memoria del defunto. I buddhisti ritengono che morire con pensieri sereni crei un’energia positiva che accompagna il defunto nella reincarnazione successiva. Anche la liberalità della famiglia verso gli altri aiuta il defunto a non mancare del necessario nella sua vita futura.

Ciò che caratterizza l’approccio buddhista alla morte è inoltre la pratica della piena consapevolezza di cosa sia veramente la vita, cui ci si allena fin da bambini mediante l’educazione e la meditazione. Buddha ha insegnato la dottrina delle quattro nobili verità. La prima è la constatazione che l’esistenza umana è segnata da insoddisfazione, disagio, dolore: “Questa, monaci, è la nobile verità del dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non è caro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, non ottenere ciò che si desidera è dolore”. La seconda nobile verità individua la causa della sofferenza: l’attaccamento, il desiderio. La sofferenza è provocata dalla brama di godere degli oggetti dei sensi, dalla brama di esistere, o anche dalla brama di cessare di esistere. La terza nobile verità descrive la cura contro il dolore: l’estinzione di questa stessa brama, l’abbandono e il distacco dal desiderio e dall’attaccamento. La quarta verità illustra il sentiero impervio per raggiungere la cessazione della sofferenza: mantenere la giusta visione, la retta intenzione, la retta parola, l’azione giusta, perseguire i corretti mezzi di vita, adottare il retto sforzo, la giusta attenzione e la giusta concentrazione.
La morte, quindi, nella dottrina buddhista, è la più evidente prova dell’impermanenza delle cose e dell’uomo stesso: la migliore medicina contro il dolore che essa provoca è la piena consapevolezza della sua ineluttabilità. Non esiste, infatti, nel buddhismo, un principio personale che persista oltre il cambiamento incessante: nessuna sostanza, nessun io immutabile. L’io dell’uomo è soltanto un’identità convenzionale per attraversare l’esistenza, ma, di fatto, è totalmente mutevole. La saggezza consiste nel “lasciar andare” ciò che è sottoposto alla legge eterna del cambiamento.
Credete che possiamo trarre spunti, noi occidentali, da questa prospettiva? La consapevolezza del continuo mutare di tutti gli esseri possono aiutare, nel tempo del dolore, a non fuggire, e ad accogliere la morte con maggiore naturalezza?

10 commenti
  1. Paola
    Paola dice:

    In effetti cominciava a mancarmi questo forum! Io credo che ci siano elementi da imparare dalla civiltà singalese, specie il “lasciar andare” e lo stare vicino ai congiunti del defunto. Paola

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  2. sipuodiremorte
    sipuodiremorte dice:

    Anche io ritengo particolarmente prezioso l’allenamento a “lasciar andare”. Cose, sensazioni, emozioni, dolore, gioia: lasciarci attraversare dalla consapevolezza dell’impermanenza può far bene. E può aiutarci a lasciar andare, quando si deve, anche le persone che ci sono care. E noi stessi…

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  3. Andrea. Fi
    Andrea. Fi dice:

    Personalmente, pur essendo agnostico, è da molto tempo che mi interesso della “dottrina” buddista, mi piace molto la loro filosofia di vita, nella quale si afferma che la felicità si deve cercarla in vita e non aspettarsela post mortem. L’attaccamento alle persone è di difficile gestione in quanto coinvolti emotivamente con i propri cari, ma la liberazione dall’attaccamento alle cose mi risulta più facile da gestire.
    Sarà che non sono ricco e possiedo solo una utilitaria, ma sono sereno e non sono assolutamente geloso delle cose che mi appartengono, oggetti che mi semplificano (forse o apparentemente ) il quotidiano. Quindi penso spesso alla mia morte domandandomi come avverrà, quando avverrà, e alla fine concludo che la morte mi deve trovare vivo, e felice di essere vissuto fino a quel momento, possibilmente senza essere stato di peso x nessuno.
    Il resto non mi riguarderà più. Quindi suggerisco a tutti di iniziare un processo interiore x liberarsi almeno dalla dipendenza delle cose materiali, inizierete subito a vivere meglio. Garantito.
    Andrea – Firenze

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  4. PAOLA
    PAOLA dice:

    Se a qualcuno interessa vi segnalo un seminario che si terrà a Torino il 7/8/9/ giugno organizzato dall’associazione Tonglen tenuto dal medico tibetano Thubten Tenzine via Massena 82 Torino. Medico laureato in Tibet e da noi a Bologna. E’ un seminario molto intenso che parla del processo della morte nella visione Tibetana: la dissoluzione degli elementi e la dissoluzione interna. La morte come opportunità. e mail: tonglen@libero.it.

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  5. PAOLA
    PAOLA dice:

    aggiungo ancora due cose importanti. Io ho già fatto i seminari con Thubten e vi dico che è da non perdere, è condotto con estrema chiarezza e competenza…sono un medico vi posso assicurare che c’è molto da imparare anche ogni volta che si rifà

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  6. laura
    laura dice:

    Che bel viaggio!! Culture lontane che risuonano vicine, grazie anche per la fotografie!! Racconti una “naturalezza” che mi piacerebbe tanto respirare e chissà prima o poi, nella valigia di qualcuno, mi infiltrerò verso est. Ho ancora però una questione irrisolta ed “incomoda”, che forse si lega anche al rapporto con il vivere ed il morire, e con il lasciare andare … e che sta nel differente potere economico che si ha a seconda del dove si nasce e dal chi si nasce. Forse è tutto collegato, chissà? Un abbraccio, ciao!

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  7. sipuodiremorte
    sipuodiremorte dice:

    Quel che dici è importante, Laura. In questa partita, essere avvantaggiati non ci aiuta poi così tanto, a mio parere.

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  8. Giovanni
    Giovanni dice:

    Cara Marina, bella la tua descrizione, e precisa la domanda. Ho viaggiato in molti paesi buddisti (che sono per me quelli più affascinanti), e la religione buddista mi è sempre sembrata quella più accettabile. Non ipotizza un’idea ardita di un Dio, che non fa che spostare il problema dell’origine del male. Ridimensiona il nostro Io che in Occidente appare davvero ipertrofico. “Panta rei” (tutto scorre) l’ha detto anche Eraclito. Ho già scritto che in un’altra “finestra” che però il distacco mi pare in opposizione alla compassione, che è un altro cardine del Buddismo. Può l’empatia, ma anche l’amore, essere compatibile col distacco? Bella domanda. Forse, in questo senso, il Buddismo dovrebbe “mescolarsi” all’amore predicato dal Cristianesimo. Ma come? Non v’è dubbio comunque che, con questa ridimensionamento dell’Io, nella continua consapevolezza dell’impermanenza, porta a un maggior tasso di accettazione della morte, che non è più un buco nero, ma rientra nell’ordine delle cose, La tua domanda, precisa, è se potrebbe essere praticabile da noi, in Occidente. Ci ho pensato su per anni, e alla fine credo che no, non sia possibile nell’esistenza quotidiana che conduciamo qui, a meno di improbabili “conversioni”. Possiamo farlo, se il destino ce ne dà l’opportunità evitandoci una morte fulminea, preparandoci quando la morte si affaccia sul nostro orizzonte. Allora possiamo avere l’opportunità di accettare e “abbracciare” tutta la nostra vita e dire che sì – se siamo stati fortunati – è stata piena, o anche no, ma comunque l’abbiamo attraversata e siamo arrivati fin lì, fino a quel punto. E’ un lungo lavoro di rielaborazione e accettazione, ma – per non morire terrorizzati o incazzati il che è molto peggio per noi e per chi resta – forse allora potremo dire davvero “let it be”, e così sia.

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