La legge 219 parte seconda / le DAT, di Marina Sozzi

Speaker at Business Conference and Presentation. Audience at the conference hall.Continuo il ragionamento sulla legge 219/2017. Non è un caso che il tema del consenso informato e quello delle dichiarazioni anticipate di trattamento siano stati riuniti in un’unica disposizione di legge. L’idea del testamento biologico (decidere cioè, ora per allora, a quali trattamenti vorrei o non vorrei essere sottoposto qualora dovessi perdere la lucidità e la coscienza) non avrebbe potuto emergere se non fosse stato messo in dubbio il paternalismo medico. Nel contesto di una cultura che pratica il paternalismo medico, una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento sarebbe priva di senso. Infatti, se si dà per scontato che sia il medico a dover prendere le decisioni sulla salute del suo paziente quando quest’ultimo è vigile e lucido, a maggior ragione sarà il medico a stabilire il da farsi se il paziente non è cosciente. I primi articoli della legge sono così un’imprescindibile premessa per l’art. 4 e seguenti. E’ stato lungo e difficile ottenere questa legge, proprio perché di fatto la nostra cultura medica, ma anche la nostra cultura in generale, sono ancora impregnate dal paternalismo.

In Italia, solo nel 1992 la Consulta di Bioetica aveva approvato una Carta dell’Autodeterminazione, che affermava il diritto dei pazienti a prendere decisioni sanitarie sul proprio corpo. Il testamento biologico, living will, o dichiarazioni anticipate di trattamento prendono forma come idea solo alla fine del secolo scorso, e sono tema ricorrente nel nuovo millennio.
In Italia ha contato molto la battaglia di Beppino Englaro per la figlia Eluana, che ha smosso le coscienze su quei casi, creati dalla medicina contemporanea (nel caso di Eluana lo stato vegetativo permanente), di persone tenute sospese tra la vita e la morte, perché qualcosa era andato male in una rianimazione, e non si poteva più tornare indietro e lasciar scivolare nella morte il malcapitato. Con questa legge, se Eluana avesse lasciato le sue disposizioni anticipate, non si sarebbero dovuti attendere diciassette anni prima di poterle sospendere l’alimentazione artificiale.

La legge 219 è dunque indubbiamente un considerevole passo avanti: la legge permette, oltre che la stesura delle proprie dichiarazioni anticipate, anche la nomina di una persona di fiducia, il cosiddetto fiduciario, che faccia le veci del paziente privo della capacità di autodeterminarsi e lo rappresenti nelle relazioni con i medici e le strutture sanitarie.
Tuttavia, anche in questa seconda parte della legge vi sono lacune che rischiano di inficiarne l’efficacia, e prima tra tutte l’assenza di ogni stanziamento in denaro per raccogliere adeguatamente i testamenti, far conoscere la legge e facilitare i cittadini che vogliono testare.

Diamo un’occhiata al resto del mondo, dove le Dat erano già legge diversi anni o decenni prima che in Italia. I dati non sono molto numerosi, né facili da reperire. Tuttavia, una ricerca in questo senso è stata condotta dall’Istituto di etica biomedica dell’Università di Zurigo nel 2008.
In Olanda, paese considerato molto avanzato per la legislazione sul fine vita, è presente una legge sulle Dat dal 1995. Nel 2008, cioè circa due decenni dopo la promulgazione della legge, testavano il 10% degli anziani tra 61 e 90 anni; mentre il resto della popolazione tra i 20 e i 60 anni ha lasciato disposizioni anticipate nel 3% dei casi. Solo il 7% delle persone con demenza aveva steso un testamento biologico. Se questi dati vi sembrano deludenti, sentite questi altri. In Austria la legge è presente dal 2006. Due anni dopo, dice la ricerca, avevano testato 3000 persone, meno dell’1% della popolazione, e si trattava di persone con malattie terminali, persone che rifiutano alcuni trattamenti per ragioni religiose, come i Testimoni di Geova, e alcuni anziani.
In Belgio la legge è stata promulgata nel 2002. Nel 2008 non esisteva un registro nazionale, e meno del 5% dei pazienti ricoverati in ospedale (non dei cittadini) aveva testato. Dati analoghi abbiamo per la Finlandia.
Per quanto riguarda la Spagna, possediamo dati più recenti grazie a un articolo scientifico di Pablo Simon Lorda, bioeticista spagnolo che collabora anche col Pais. I cittadini spagnoli vedono la legge (del 2008) di buon occhio, ma solo 23.000 hanno lasciato dichiarazioni anticipate, una percentuale di cittadini inferiore all’1%.
Non faccio altri esempi per quanto riguarda l’Europa. E’ evidente che in mancanza di un investimento rilevante in termini di informazione della popolazione e di supporto ai cittadini che desidererebbero lasciare le loro dichiarazioni anticipate, nulla si muove.

Interessanti, da questo punto di vista, i dati che riguardano il Canada. Nel paese ci sono state moltissime iniziative pubbliche per promuovere la pianificazione delle cure e la nomina di un amministratore di sostegno. Nel 2008 è anche stato fondato anche il National Framework and Implementation Project, al fine di fare educazione su questo tema sia per gli operatori sanitari sia per i cittadini. Risultato: il 96% dei cittadini ritiene che sia importante parlare con i propri cari di questa pianificazione, ma solo il 13% ha testato. E’ una percentuale comunque diversa dai paesi citati prima, ma che ci indica quanto lungo e paziente debba essere il lavoro culturale per arrivare a un cambiamento concreto di mentalità e quindi di prassi.

Un caso a sé, che andrebbe meglio indagato, è rappresentato dagli Stati Uniti, dove ha testato il 26% della popolazione (dati raccolti nel 2014 dall’American Journal of preventive Medicine). La legge è presente dagli anni Novanta nella maggior parte degli Stati. Testare è reso facile in quasi tutti gli USA, perché è possibile prendere un appuntamento per lasciare, in presenza di due testimoni, le proprie volontà. Questo 26% è formato da pazienti anziani, con uno status sociale tendenzialmente alto e con un rapporto continuativo con un medico di “primary care”, l’equivalente del nostro medico di famiglia.

Due considerazioni su questi ultimi dati. La prima: ritengo che sia stato un errore non dare ai medici di famiglia la responsabilità di raccogliere le Dichiarazioni anticipate. Sarebbe stato un modo per farli riflettere (anche sul consenso informato), e si sarebbero evitati i numerosi casi che mi sono stati raccontati, di pazienti che chiedono consiglio al loro medico per la compilazione delle Dat e si sentono rispondere che non è compito suo. Inoltre, si sarebbe evitata la situazione dell’Italia a macchia di leopardo, dove alcuni Comuni si sono attivati per raccogliere i testamenti e altri no. Infine, si sarebbero resi i testamenti più facilmente reperibili. Vi immaginate una realtà ospedaliera che deve ricuperare le vostre Dat negli uffici del vostro Comune, magari in una situazione di relativa urgenza?

La seconda considerazione. E’ noto che compilare le proprie dichiarazioni anticipate comporta andare con il pensiero a un futuro nel quale non vorremmo mai trovarci: una situazione eventuale in cui avremo perso la lucidità e la capacità di autodeterminarci, e saremo massimamente vulnerabili ed esposti all’ubris della biomedicina, per quanto benintenzionata. Lasciare il proprio testamento biologico è pertanto operazione anche emotivamente non facile, in cui i cittadini andrebbero accompagnati. Altrimenti la legge servirà a pochi privilegiati, a una élite culturale e sociale, mentre la grande maggioranza della popolazione resterà subordinata al volere altrui. Qualcuno penserà forse che la correttezza di un diritto, come quello stabilito da questa legge, non si misuri dal numero di persone che decidono di esercitarlo. E siamo d’accordo.

Tuttavia, ritengo che una legge come la 219/2017 contenga in sé eccellenti potenzialità per il cambiamento della prassi medica e della relazione medico/paziente, per la riduzione degli sprechi in sanità determinati dalle ultime inutili indagini diagnostiche, dagli ultimi interventi, dall’accanimento terapeutico che rifiuta di vedere nel malato non più un paziente grave ma un uomo che muore. Sarebbe valsa la pena di fare un investimento su questa legge.

Voi come la vedete?

9 commenti
  1. Maria Laura Cattinari
    Maria Laura Cattinari dice:

    Davvero interessante e mi riprometto di reintervenire ma ci tengo a dir subito che mi risulta che la Legge di Bilancio Pluriennale (2018-2020) abbia finanziato con due milioni di euro l’istituzione del Registro Nazionale dei Testamenti Biologici. Si prevede che il Ministro della Salute entro 180 giorni dal 31 Gennaio 2018, data di entrata in vigore della legge, dovrà emanare un Decreto per stabilire le modalità di registrazione delle DAT nel RN. Ovviamente il Decreto sarà emesso dopo intesa in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni e Provincie Autonome. Insomma non è proprio dietro l’angolo ma è previsto un Registro Nazionale telematico accessibile a tutte le strutture sanitarie.

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    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:

      Sì hai ragione Maria Laura, così era previsto…dubito che si realizzerà mai. Anche perché nelle norme applicative della legge mi pare fosse scomparso il riferimento a questo registro, mentre venissero indicati i Comuni, e non meglio identificati enti sanitari come possibili depositari. Ma vedremo.

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  2. mischa ckervilku
    mischa ckervilku dice:

    Se mi dovessero scoprire un tumore, non mi devono toccare, niente interventi, vorrei solo cure per i dolori.. Niente chiemoterapia o alro.

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  3. massimiliano cruciani
    massimiliano cruciani dice:

    Ritengo di fondamentale importanza l’evoluzione delle Cure Palliative come modello culturale e di filosofia di vita. La legge 219 potrà acquisire sostanza nel momento in cui la persona diventa realmente consapevole dei propri diritti ( legge 38/2020) ed allo stesso tempo avrà possibilità di scelta. In un paese civile e culturalmente evoluto le cure palliative dovrebbero essere trasferite verso la guaribilita’ (che ideologicamente spesso è solo nella testa degli operatori). Tutto avrebbe un senso se l’obiettivo diventa la precocità. Probabilmente la realtà è che in un futuro prossimo le persone saranno pronte per questo tipo di scelte, e davanti potrebbero trovarsi professionisti non adeguatamente preparati e che continueranno a trincerarsi dietro ad un camice per le loro paure sull’accettazione della morte.

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      • sipuodiremorte
        sipuodiremorte dice:

        Sono totalmente d’accordo Massimiliano, purtroppo anche con la legge 38 siamo in alto mare…se non fosse per l’impegno del non profit saremmo vicini a zero.

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  4. ferdinando Garetto
    ferdinando Garetto dice:

    Grazie per aver sollecitato con queste (prime?) due parti la ripresa di una riflessione molto concreta sulla legge 219. Vedo almeno un aspetto positivo in questi mesi: dopo l’onda mediatica (che mi sembra in parte già passata) è rimasto un desiderio di approfondimento sui temi di “fine vita” e “cure palliative” che nasce da comunità civili che si interrogano sui valori e sui significati. Come credo a molti altri dei frequentatori di questo blog, mi sono capitate di recente diverse occasioni: un ciclo di incontri a cui hanno partecipato un centinaio di persone a Mondovì, una stimolante serata con 80 persone a Brossasco vicino a Saluzzo, due incontri con studenti di Scienze dell’Educazione (corso della prof.ssa Marchisio) a Savigliano e a Torino, e mercoledì 23 maggio una bella serata, sempre a Torino, aperta alla cittadinanza e organizzata da studenti di medicina del 4° anno con cui spero continueremo a incontrarci . Temi ampi, dialoghi profondi, espressione di un bisogno che c’è ed è molto fondato. Tutto nasce “dal basso” e tutto è come sempre “gratuito” ed “extra”, ma questo sembra un po’ la caratteristica del lungo cammino delle cure palliative. In questo senso la legge ha stimolato e speriamo continui a farlo, prima o poi offrendo strumenti più concreti per la formazione. Sulle percentuali di chi in effetti redige le DAT nei diversi Paesi, credo che sarebbe da ampliare la riflessione sul tema dell’ “Ora” per “Allora”. Se non ricordo male è Natoli che dice che l’Uomo è l’unico essere vivente che riesce ad immaginare l’alba del giorno dopo del suo funerale; Roberto Vecchioni ci ricorda che “la vita è così vera/ che sembra impossibile doverla lasciare/ la vita è così grande/ che quando sarai sul punto di morire, /pianterai un ulivo, convinto ancora di vederlo fiorire”… Proprio nei Paesi dove da più anni il “fine vita” prevede percorsi sanitari e assistenziali specifici e strutturati emerge un bisogno di allargare l’orizzonte culturale fino a ipotizzare come Leget (2017) la necessità di una “nuova ars moriendi”. Insomma: i numeri vanno interpretati per quello che dicono, esprimono il “sentire” di una popolazione. Da questo bisogna partire, crescere, senza pretendere un cambiamento a “tappe forzate”.

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