Durante il periodo primaverile di lockdown in tanti abbiamo sperato nell’acquisizione inedita da parte dei cittadini italiani di una maggiore consapevolezza nei confronti del proprio essere mortale. L’improvviso pericolo quotidiano, accompagnato dalle ricorrenti immagini dei morti e dei morenti sui social network e nelle trasmissioni televisive, ha spinto addirittura a credere che col passare del tempo si sarebbe probabilmente prestata molta più attenzione collettiva nei confronti dei percorsi di Death Education, solitamente messi da parte – tanto dalle istituzioni pubbliche quanto dai privati cittadini – a causa della decennale rimozione della morte dallo spazio pubblico.
Ora, giunti alla fine dell’estate, l’impressione che si ricava dai primi mesi post-lockdown è quella di una problematica confusione generale: da una parte, sono numerosi i casi di coloro che hanno preferito rimanere reclusi nei propri spazi abitativi per evitare qualsivoglia rischio sanitario, ponendo di fatto sotto vetro la propria vita quotidiana e convivendo con incipienti patologie di natura psicologica. I dati che arrivano da Telefono Amico Italia sono, per esempio, allarmanti: “quasi duemila le richieste di aiuto ricevute da Telefono Amico Italia, una cifra raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2019”, leggiamo il 4 settembre su Tgcom 24. Dall’altra, un numero sostanzioso di cittadini ha affrontato il periodo estivo come se nulla fosse successo: cancellata rapidamente ogni traccia delle difficoltà psicofisiche vissute nei mesi precedenti, costoro hanno trascorso le vacanze con la solita spensieratezza, non prestando particolare attenzione alle regole stabilite dallo Stato e facilitando – di conseguenza – una recrudescenza del virus. Lungi da me colpevolizzare specifiche categorie di persone, come troppo spesso viene fatto in modo erroneo sui quotidiani d’informazione; tuttavia è evidente che non è risultato armonico – almeno in linea generale – il rapporto tra il sacrosanto bisogno di ritrovare un po’ di tranquillità personale e familiare e la matura consapevolezza relativa alla delicatezza del periodo attuale.
Al tempo stesso, è scomparso dal discorso pubblico qualsivoglia riferimento all’utilità dei percorsi di Death Education per affrontare meglio le sofferenze cagionate dalla pandemia. Mentre negli Stati Uniti sembrerebbe che siano attualmente molto popolari i cosiddetti Death Positive Movement e i Death Doulas, i quali utilizzano ogni strumento comunicativo e sociale a disposizione per affrontare il tema della morte (si veda questo interessantissimo articolo), in Italia rimaniamo in balia della nostra tradizionale ritrosia per ogni discorso pubblico che menzioni il termine “morte”. Ne deriva un mix micidiale tra la consueta rimozione della morte e gli effetti collaterali della pandemia e della quarantena.
Sia coloro che hanno optato per una prudenza patologica sia coloro che hanno invece scelto la spensieratezza radicale portano chiaramente alla luce le problematicità di una vita quotidianamente vissuta senza la consapevolezza della sua fine. I primi, infatti, sembrano aver di colpo riscoperto la propria fragilità esistenziale al punto di decidere di non correre più alcun rischio mortale, rimanendo reclusi in casa. Quasi come se fosse totalmente privo di pericoli uscire dalle proprie mura domestiche nel periodo precedente la pandemia. I secondi, invece, riproducono i soliti superficiali modi di affrontare la quotidianità, ritenendo di essere immuni a qualsivoglia rischio esistenziale e – nel caso specifico – ignorando che la propria libera scelta produce inevitabilmente effetti nefasti nella vita altrui.
A mio avviso, questi due differenti comportamenti, il cui comun denominatore è la scarsa dimestichezza con il pensiero della finitezza e della mortalità, testimoniano in maniera limpida l’assoluta necessità di percorsi di Death Education all’interno delle nostre società. Senza riflessioni metodiche, attente e continuative nel tempo, riguardo al rapporto tra un’emergenza sanitaria e l’innata mortalità che caratterizza ogni essere venuto al mondo, risulta assai difficile barcamenarsi tra le mille difficoltà psicologiche, esistenziali e sociali prodotte da situazioni particolari come quella appena vissuta.
Ora, vi chiedo di raccontare come avete vissuto il periodo estivo e quali sono state le vostre percezioni relative al comportamento collettivo nella cosiddetta “Fase 2”. Anche voi ritenete che sia mancata e continui a mancare una consapevolezza della propria innata mortalità? Attendiamo con curiosità i vostri commenti.
Rispondo sinteticamente alla domanda: manca e continua a mancare la consapevolezza della propria innata mortalità. il Covid 19 ha generato un vero e proprio panico nei confronti di una catastrofe, o almeno di qualcosa vissuto come tale, a combattere il quale ogni mezzo è accettabile
più che altro la catastrofe, nel generare ovviamente paura o spaesamento, dovrebbe essere inserita all’interno di un quadro esistenziale in cui si è consapevoli che ogni minuto di vita è guadagnato, non ci è dovuto. Questo, a mio avviso, è un buon punto di partenza per maturare quella razionalità che ci permette di continuare a vivere, senza frenarci o sottovalutare il pericolo.
Un pò di Death Education per tutti non sarebbe male, anche se oggi mi sembra manchi molta educazione civica, che fino a qualche decennio fa si insegnava nelle scuole. La mia estate è stata molto tranquilla, per me è strano, in quanto sono un’accanita viaggiatrice. Non per timore, ma proprio sentivo l’esigenza di rimanere “intorno a casa”!
Capisco che siamo stati chiusi per diverso tempo, ma un minimo di attenzioni le reputo indispensabili. Ci vuole più consapevolezza per tutto il ciclo della vita e comunque la morte fa paura a molti. Ho fatto un percorso di volontariato in Hospice e quando raccontavo qualcosa gli amici sgranavano gli occhi e dicevano: “Niente di più allegro?”
Ci arriviamo tutti prima o poi! Durante il Covid ne abbiamo sentito parlare tanto, purtroppo, forse è più facile dimenticare e non affrontare le situazioni.
concordo con la sua riflessione!
Convinta che vivere senza la consapevolezza piena del nostro ineluttabile destino di morte sia, non vivere, bensì sopravvivere, mi chiedo e chiedo: la mancanza , che pare assodata, di questa consapevolezza, se tale è, come si concilia con quel circa 90% che ci dicono essere le persone in Italia favorevoli all’eutanasi attiva volontaria?
Da quasi vent’anni mi occupo di “problematiche di fine vita” nell’Associazione Libera-Uscita (www.associazioneliberaustia.it ) e, alla luce della mia esperienza, davanti alle tante richieste di aiuto al suicidio, soprattutto provenienti per lo più da persone molto giovani con problemi di depressione o altri disturbi psichici, sono stata attraversata dal pensiero che la ricerca di una morte rapida ed indolore possa quasi adombrare il rifiuto di confrontarsi davvero con la morte che tutt* ci attende. Possibile mai?
Certo il morire è vita, vita preziosa quanto quella che la precede e poterla vivere nel miglior modo possibile è un traguardo importante di civiltà. Anche un solo attimo può illuminare un’ intera vita. La morte volontaria è una cosa serissima e importante che si nutre di consapevolezza, di libertà, di dignità, di responsabilità verso sè stessi e verso le altre Persone.
Grazie per l’attenzione
La ringrazio molto per la sua riflessione, che ci porta ad affrontare un tema molto delicato e che richiede un’attenta riflessione. Personalmente, lego alla scelta di vivere e di morire la piena autonomia individuale, se si tratta di un’autonomia lucida e non condizionata dal sentirsi abbandonati a sé stessi (in tal caso, servirebbe un supporto sostanzioso dello spazio pubblico, che troppo spesso latita). La vita è terribilmente dura, ingiusta (pensiamo anche solo a tutte le terribili notizie di cronaca che ogni giorno leggiamo). Il suo peso implica un grande coraggio e una enorme forza nell’affrontarla. Potrei aggiungere molte altre riflessioni personali, ma preferisco fermarmi e magari parlarne più ampiamente in qualche altro articolo del blog. Grazie ancora per il suo contributo.
Cara Maria Laura, l’alta percentuale di persone che si dicono favorevoli all’eutanasia (non il 90%) non sempre è informata sull’opzione delle cure palliative e della sedazione palliativa, che sono entrambe legge in Italia. Due italiani su tre non ne sanno nulla.
Per questo il tema è delicato, richiede un esame approfondito caso per caso. La cosa più errata, a mio modo di vedere, è generalizzare su questi argomenti. Troppo spesso la generalizzazione risponde ad esigenze politiche e propagandistiche, con scarsa attenzione al benessere delle persone. Grazie per aver sollevato il problema. Come scrive Davide, torneremo a parlare di questi temi sul blog. (un saluto affettuoso, Marina)
La rimozione della mortalità e l’assenza di un’educazione in tal senso penso che sia una grandissima mancanza nella nostra società.
Dopo quaranta anni di lavoro in ospedale posso dire che pochissime persone che io abbia conosciuto hanno affrontato l’ultima parte della vita consapevolmente con le cure palliative, anche se poi di fatto è stato così perché il sopraggiungere del dolore richiedeva la sedazione.
Quasi tutti, anche i famigliari, invece chiedevano di proseguire chemioterapie devastanti, esami diagnostici invasivi e magari interventi chirurgici ormai senza senso.
Penso che l’educazione alla mortalità inizi molto tempo prima degli ultimi giorni di vita.
Dopo una vita vissuta nella rimozione, è normale che sia così….
Grazie per il vostro lavoro, vi seguo da sempre.
Mi avete insegnato tanto.
Grazie mille Maria Angela, noi ci mettiamo molto impegno, ed è gratificante che il nostro sforzo venga riconosciuto!
Apprezzo molto la vostra rubrica. Grazie