Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi
Per molto tempo abbiamo detto (io stessa l’ho fatto, con una certa leggerezza) che l’uso di eufemismi fosse uno dei sintomi della perniciosa negazione della morte della nostra cultura. In altri articoli di questo blog ho già cercato di spiegare perché non condivido più la tesi della negazione della morte.
Ora, a proposito di eufemismi, se si approfondisce un po’ la questione, risulta chiaro che quasi tutte le culture, in modi loro propri, hanno considerato la morte un tabù, e hanno utilizzato eufemismi per parlarne.
Innanzitutto: cos’è un eufemismo? La Treccani ci dice che l’eufemismo “consiste nell’attenuare un’espressione che potrebbe risultare troppo cruda o sconveniente, sostituendo una parola o una locuzione con un’altra meno forte o addirittura contraria.” La morte è una realtà misteriosa e molto dura da accettare per gli esseri umani, e questa è la ragione per cui vengono usati eufemismi. Contrariamente a quello che abbiamo creduto negli scorsi decenni, usare eufemismi per parlare della morte non è certo appannaggio della nostra cultura. Se si studiano i necrologi del XIX secolo, emerge che in un’epoca in cui l’attenzione per la morte e il lutto era molto forte, si parlava comunque della morte per eufemismi: alcune esperienze sono troppo intime e rendono gli uomini troppo vulnerabili per essere menzionate senza una copertura linguistica. Uno studioso di eufemismi, Denis Jamet, li ha definiti come una sorta di “deodorante del linguaggio”.
Quello che è rilevante notare, tuttavia, non è solo che vengano usate espressioni eufemistiche, ma quali metafore siano usate, in ciascuna epoca, per parlare della morte e dei morti.
Ad esempio, in epoca vittoriana predominavano le metafore religiose, orientate a immaginare una vita ulteriore per i defunti: la morte è vista come un evento positivo, un riposo o un premio dopo una vita virtuosa (e sovente faticosa) sulla terra. A proposito della metafora del viaggio (partire, andarsene, tornare alla casa del Padre) è interessante notare che la persona morta è pensata come capace di intraprendere il viaggio. Quindi, negando la totale cessazione del movimento corporeo nella morte, questa metafora nega la stessa morte. Analogamente, nella metafora della morte come riposo, essendo il sonno temporaneo, la morte è vissuta come transitoria (talvolta in attesa della resurrezione dei morti), quindi negata (la persona è solo sprofondata nel sonno).
Se si analizzano i necrologi del nostro tempo, appare evidente che i nostri eufemismi utilizzino prevalentemente la metafora della sparizione.
Notevole è la frequenza, nei necrologi, di espressioni come “è mancato”, o “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “è scomparso”, o “è prematuramente scomparso”. Altra metafora ricorrente, quella dell’abbandono: “ci ha lasciati”, “ha lasciato il mondo”. Meno sovente leggiamo ancora metafore del viaggio, come partire, tornare alla casa del Padre, terminare il proprio cammino terreno, prevalentemente utilizzati dalle persone credenti.
Mi pare interessante l’uso della metafora della sparizione per parlare della morte ai giorni nostri. Mi sembra che indichi l’effetto (la persona defunta non è più nel mondo) e non la causa, astenendosi dall’indicare un luogo dei morti al quale oggi molti nostri contemporanei hanno smesso di credere. E’ come una sospensione del giudizio. Mi sembra anche un modo per accogliere il mistero in tutta la sua portata. Dove sono i morti? Non lo sappiamo, forse da nessuna parte. Spariscono, appunto, dall’unica realtà che conosciamo. Non sono più qui, e ci mancano.
Che ne pensate? Quali metafore usate per parlare della morte? Vi siete mai interrogati sul significato di queste metafore?