Si può dire morte
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Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi

12 Giugno 2025/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Per molto tempo abbiamo detto (io stessa l’ho fatto, con una certa leggerezza) che l’uso di eufemismi fosse uno dei sintomi della perniciosa negazione della morte della nostra cultura. In altri articoli di questo blog ho già cercato di spiegare perché non condivido più la tesi della negazione della morte.
Ora, a proposito di eufemismi, se si approfondisce un po’ la questione, risulta chiaro che quasi tutte le culture, in modi loro propri, hanno considerato la morte un tabù, e hanno utilizzato eufemismi per parlarne.
Innanzitutto: cos’è un eufemismo? La Treccani ci dice che l’eufemismo “consiste nell’attenuare un’espressione che potrebbe risultare troppo cruda o sconveniente, sostituendo una parola o una locuzione con un’altra meno forte o addirittura contraria.” La morte è una realtà misteriosa e molto dura da accettare per gli esseri umani, e questa è la ragione per cui vengono usati eufemismi. Contrariamente a quello che abbiamo creduto negli scorsi decenni, usare eufemismi per parlare della morte non è certo appannaggio della nostra cultura. Se si studiano i necrologi del XIX secolo, emerge che in un’epoca in cui l’attenzione per la morte e il lutto era molto forte, si parlava comunque della morte per eufemismi: alcune esperienze sono troppo intime e rendono gli uomini troppo vulnerabili per essere menzionate senza una copertura linguistica. Uno studioso di eufemismi, Denis Jamet, li ha definiti come una sorta di “deodorante del linguaggio”.
Quello che è rilevante notare, tuttavia, non è solo che vengano usate espressioni eufemistiche, ma quali metafore siano usate, in ciascuna epoca, per parlare della morte e dei morti.
Ad esempio, in epoca vittoriana predominavano le metafore religiose, orientate a immaginare una vita ulteriore per i defunti: la morte è vista come un evento positivo, un riposo o un premio dopo una vita virtuosa (e sovente faticosa) sulla terra. A proposito della metafora del viaggio (partire, andarsene, tornare alla casa del Padre) è interessante notare che la persona morta è pensata come capace di intraprendere il viaggio. Quindi, negando la totale cessazione del movimento corporeo nella morte, questa metafora nega la stessa morte. Analogamente, nella metafora della morte come riposo, essendo il sonno temporaneo, la morte è vissuta come transitoria (talvolta in attesa della resurrezione dei morti), quindi negata (la persona è solo sprofondata nel sonno).
Se si analizzano i necrologi del nostro tempo, appare evidente che i nostri eufemismi utilizzino prevalentemente la metafora della sparizione.
Notevole è la frequenza, nei necrologi, di espressioni come “è mancato”, o “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “è scomparso”, o “è prematuramente scomparso”. Altra metafora ricorrente, quella dell’abbandono: “ci ha lasciati”, “ha lasciato il mondo”. Meno sovente leggiamo ancora metafore del viaggio, come partire, tornare alla casa del Padre, terminare il proprio cammino terreno, prevalentemente utilizzati dalle persone credenti.
Mi pare interessante l’uso della metafora della sparizione per parlare della morte ai giorni nostri. Mi sembra che indichi l’effetto (la persona defunta non è più nel mondo) e non la causa, astenendosi dall’indicare un luogo dei morti al quale oggi molti nostri contemporanei hanno smesso di credere. E’ come una sospensione del giudizio. Mi sembra anche un modo per accogliere il mistero in tutta la sua portata. Dove sono i morti? Non lo sappiamo, forse da nessuna parte. Spariscono, appunto, dall’unica realtà che conosciamo. Non sono più qui, e ci mancano.
Che ne pensate? Quali metafore usate per parlare della morte? Vi siete mai interrogati sul significato di queste metafore?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/06/eufemismi.jpg 265 353 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-06-12 10:01:532025-06-12 10:01:53Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi

Il Network italiano sulla Morte e l’Oblio: un’intervista a Giorgio Scalici, di Cristina Vargas

30 Maggio 2025/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Recentemente ho avuto l’occasione di partecipare al secondo Congresso nazionale di NIMO (Network Italiano sulla Morte e l’Oblio), un’associazione che ha l’obiettivo di creare una rete fra tutti coloro che si occupano di tematiche legate alla morte. Intorno a questa nuova realtà si sta raccogliendo un’interessante rete di ricercatori, professionisti e operatori del settore, ma anche di cittadini che sono interessati al tema per ragioni personali.
Nella bella cornice palermitana, ho avuto l’occasione di dialogare con un gruppo giovane, molto coinvolto e particolarmente attento a quella che potremmo definire una “tanatologia applicata”, che si interroga costantemente sulle ricadute sociali e sull’impatto concreto di ogni progetto.
Per conoscere meglio questa realtà ne abbiamo parlato con Giorgio Scalici, Presidente e fondatore del Network.

Come nasce la vostra iniziativa?

La storia del NIMO si intreccia con la mia storia personale. Qualche anno fa sono tornato in Italia dopo il dottorato con il Professor Douglas Davies a Durham. Il mio campo è quello dell’Antropologia delle religioni, con un’attenzione particolare ai riti funebri religiosi e laici. Ho condotto ricerche sul campo in molti contesti, in particolare in Indonesia, e ho trovato un contesto fertile in Inghilterra, dove esistono, per esempio, diversi corsi di laurea in ambito tanatologico e molte università hanno dei veri e propri centri di ricerca su queste tematiche.
Nei primi tempi le mie aspettative erano alte, ma ho presto realizzato che qui in Italia la situazione è molto diversa.
Nel Regno Unito i Death Studies sono una materia che viene insegnata all’interno di numerosi corsi di Laurea e alcune università offrono Lauree Magistrali o Master specifici sul fine vita. In Italia, invece, questa disciplina non è riconosciuta come settore disciplinare a livello universitario: ci sono antropologi, sociologi, storici, filosofi, pedagogisti, psicologi che si occupano del fine vita, ma nel mondo accademico ci sono ben pochi, forse pochissimi, professori o ricercatori strutturati che vengono considerati studiosi della morte. Questo avviene perché di fatto manca un riconoscimento formale della tanatologia o dei Death Studies come campo autonomo che abbia piena dignità scientifica. Per me questa lacuna non è solo una questione burocratica, ma è una carenza che rende difficile l’attuazione di una vera interdisciplinarità. Lo studio della morte è un sapere per definizione trasversale, che non può esaurirsi nel linguaggio di una singola disciplina. In altri paesi il campo dei Death Studies raccoglie specialisti di molte aree ed è quindi un crocevia di pensieri e di proposte molto arricchente. In Italia forse manca una certa “coscienza di classe” tra chi si occupa di questi temi. Ci si sente prima di tutto architetti, psicologi, antropologi e così via e poi solo dopo studiosi di morte, io vorrei invece invertire la tendenza.
Dopo il mio rientro, i primi tempi sono stati difficili in tutti i sensi, e il Covid non ha aiutato. Poi però ha preso il sopravvento il mio lato più propositivo. Ho cominciato a incontrare persone che condividevano il mio interesse per questi temi, solo che erano un po’ “sparpagliate”. C’erano anche delle realtà consolidate – Centri di ricerca, Fondazioni, Associazioni, Gruppi Universitari – ma lavoravano in modo sostanzialmente indipendente e dialogavano poco le une con le altre. Sentivo la necessità di uno spazio che fosse di tutti; di una rete. Mi sono detto: “se non c’è, allora bisogna crearla”. E così, nel novembre del 2023, è nata l’idea del NIMO, una proposta che è stata recepita molto bene e che poi ho avuto la possibilità di portare avanti grazie ad alcune collaboratrici e collaboratori che hanno creduto in questo progetto. Nel 2024 abbiamo organizzato il nostro primo convegno ed è da poco, nell’aprile del 2025, che ci siamo costituiti formalmente come associazione. Questo ci consentirà di presentare dei progetti e partecipare a bandi, inoltre è un passaggio importante perché ci ha portato a interrogarci su quello che vogliamo fare, a redigere uno Statuto e un Codice Etico.

Che ruolo ha NIMO?

NIMO è uno spazio reale e virtuale per incontrare persone con interessi simili, che magari nemmeno sospettavi che esistessero; è una via per tenerci reciprocamente aggiornati sulle ricerche che sono in corso, sui progetti che stanno sviluppando o sui lavori che stiamo portando avanti. È anche uno strumento per restare agganciati alle reti internazionali, cosa che per me è centrale.
Aggiungo poi che vorrei che NIMO potesse contribuire a creare la “coscienza di classe” di cui si parlava prima, nel senso che mi piacerebbe che, fra le persone che in Italia si occupano di Death Studies, si sviluppasse una riflessione più sistematica sul valore e sulla dignità del nostro ambito di lavoro, che dovrebbe essere maggiormente riconosciuto a livello istituzionale.

Puoi raccontarci qualcosa sui vostri obiettivi e sulle vostre attività?

Partirei dal secondo Congresso, che per scelta abbiamo deciso di riproporre a Palermo, la città in cui vivo e lavoro.
In Italia, quasi tutto ciò che avviene in ambito tanatologico, avviene al Nord. L’unico Master che ad oggi esiste in Italia è quello diretto da Ines Testoni all’Università di Padova e le realtà più attive sui temi del morire, la morte e il lutto sono in città come Torino, Bologna, Parma, Milano e, appunto, Padova. Per noi è importante che anche nel Sud e Isole si sviluppino nuovi poli di aggregazione e si portino avanti delle iniziative di qualità. Per quanto riguarda le attività direi che stiamo facendo molte cose: curiamo molto le attività online, per consentire anche a chi è lontano di partecipare, ma proponiamo anche attività in presenza come presentazioni e Death café. Con cadenza mensile organizziamo dei Death Bar (che sono la nostra versione online dei Death café) e abbiamo in mente diversi percorsi di formazione.

Chi sono i vostri associati?

Sono persone di ogni tipo. Ci sono dei docenti, dei ricercatori e degli studenti che vogliono approfondire questo tema. Ci sono anche molti addetti ai lavori: persone che lavorano nel comparto funerario, operatori sanitari, celebranti laici e altre persone che in vari modi hanno a che fare con la perdita e il lutto. Ci sono degli artisti: c’è chi si occupa di teatro e di danza, di pittura o di marionette. Ci sono anche molte persone che fanno tutt’altro – insegnanti, social media manager, impiegati – che sono qui perché hanno curiosità e interesse per queste tematiche.
Per me questa diversità è una grande ricchezza, credo che sia importante mantenere uno sguardo aperto e ampio: la morte è un tema che riguarda tutti, non solo gli specialisti. A tutti noi capita di vivere dei lutti, di avere vicino persone che soffrono o di ricevere richieste di aiuto.
Secondo me è necessario parlare delle nostre ricerche, ma è anche importante coltivare un “saper fare”. La teoria, da sola, non ci dà gli strumenti per gestire situazioni complesse a livello relazionale.
Immaginiamo, per esempio, uno studente che arriva e ci racconta che si è suicidata sua sorella. Cosa diciamo? Cosa facciamo? Come rispondiamo? Forse la prima risposta che ci viene in mente è “lo invio a uno psicologo”, ma non è necessario essere dei professionisti della salute mentale per avere un contatto umano autentico e consapevole con qualcuno che in quel momento ne ha bisogno.
Rispetto a situazioni di questo tipo credo che per molti di noi sarebbe utile avere degli strumenti in più.
Per me, quindi, è essenziale che ci siano spazi di formazione, di confronto, di dialogo, di reciproco approfondimento: NIMO vuole essere proprio questo.

Vi sembra che questa iniziativa possa essere interessante? Se ne sentiva il bisogno? Ci farà piacere la vostra opinione, come sempre.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/congresso.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-30 09:39:452025-06-04 09:32:41Il Network italiano sulla Morte e l’Oblio: un’intervista a Giorgio Scalici, di Cristina Vargas

Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

16 Maggio 2025/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Si parla moltissimo di Death Education. Alla base del bisogno di “educare alla morte” sta l’idea che la nostra società sia incapace di affrontare il morire e il lutto: quindi si rende necessaria qualche forma di “pedagogia” che insegni a tutti noi come prepararsi alla morte propria e dei propri cari.
Ho già scritto in questo blog che non condivido più l’idea di questa inadeguatezza del nostro tempo. E cito solo un fattore di grande adeguatezza: la nascita e la diffusione delle cure palliative, che hanno saputo elidere la sofferenza che accompagnava il morire. E scusate se è poco…
Peraltro, la discussione sulla possibilità che gli esseri umani hanno di prepararsi alla morte è antica quanto il mondo. Per citare solo i più famosi filosofi che hanno partecipato a un dibattito che si è dipanato nei secoli, ricordiamo Socrate, Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne, Spinoza, Schopenhauer, e, più vicini a noi, Heidegger e Sartre. Per alcuni di questi pensatori riflettere sulla morte significava imparare a vivere una vita più piena e consapevole, attribuendole un senso più profondo.
Altri hanno ritenuto futile ragionare sulla morte e cercare di prepararsi, perché questa ci coglie spesso di sorpresa, e ignoriamo quando e come si verificherà. Siamo vivi e possiamo meditare solo sulla vita, che è l’unica cosa che conosciamo.
Questo dibattito è ancora attuale.

Ora, io non sono certa che si possa insegnare alle persone a prepararsi a morire, malgrado le innumerevoli “Preparazioni alla morte” pubblicate nel medioevo e nel rinascimento. Lo stesso Erasmo da Rotterdam scriveva, proprio nella sua Della preparazione alla morte, che non c’è buona morte senza buona vita.
Ma anche la buona vita non basta. In cure palliative è noto che soltanto poche persone con grandi risorse emotive e culturali riescono a “entrare nella morte ad occhi aperti” (per usare le parole di Marguerite Yourcenar) e con serenità.

Che fare dunque? In primo luogo, non facciamoci troppe illusioni: stiamo cercando di fare i conti con ciò che gli esseri umani sanno essere il pericolo maggiore, e che tutte le culture del mondo hanno considerato un tabù. Non è facile e continuerà a non essere facile.

In secondo luogo, occorre tenere presente una distinzione di cui abbiamo più volte dibattuto, ma che mi sembra utile riassumere. 1) La preparazione alla «morte» è impossibile, se intendiamo la morte come momento del decesso. Infatti, come scriveva Jankélévitch, di fronte al nostro annichilimento il pensiero si azzera: la morte non è pensabile. Jankélévitch affermava che talvolta possiamo sfiorare tangenzialmente la nostra morte, ad esempio quando ci troviamo un capello bianco o una ruga in più. Allora abbiamo una breve rivelazione del fatto che essa giungerà, ma questa intuizione ci fa rimbalzare verso la vita, non possiamo soggiornare nel pensiero della morte. Quando tocchiamo brevemente la fine che verrà, tuttavia, la nostra vita è arricchita dalla consapevolezza del limite comune dell’umano, la mortalità, che ci sospinge verso una dimensione più etica dell’esistere. La preparazione alla mortalità è dunque cosa diversa, i due termini morte e mortalità non sono interscambiabili.

2) La percezione della finitezza, quando è profonda e matura, ci orienta verso la dimensione della cura, del prendersi cura dell’altro, visto nella sua vulnerabilità, uguale alla nostra, e ci allontana dalla violenza, qualunque forma quest’ultima assuma. La tua vulnerabilità è come la mia, io potrei essere al tuo posto.

3) C’è ancora un terzo senso in cui possiamo preparaci alla morte, quando quest’ultima è prossima. Possiamo allora (ma è compito straordinariamente difficile) prepararci a lasciar andare la propria vita, ad accettare che possa concludersi, ed è cosa che si può fare soltanto sul letto di morte.

Ma come si raggiunge la consapevolezza della mortalità, l’unica che possiamo coltivare quando stiamo bene? Attraverso la pedagogia? Non credo. E’ soprattutto nel corso della vita, grazie all’esperienza inevitabile delle perdite, della malattia, della frustrazione. Anche se non sempre queste esperienze fanno crescere la consapevolezza, perché siamo umani e talvolta non riusciamo a orientare gli eventi della nostra biografia in una direzione progressiva, e magari accumuliamo rabbia o rancore. Ma coloro che riescono a far tesoro delle esperienze dolorose o difficili acquisiscono una più alta umanità.

Che ruolo hanno dunque gli studi sul morire e sul lutto? Non ci proteggono dall’angoscia di morte, non sono “preparazione” alla morte.
Sono fondamentali perché arricchiscono il nostro sapere e la nostra capacità di gestire la fine della vita, di garantire la migliore qualità della vita di chi muore, e di sostenere coloro che affrontano la morte altrui. In parte parliamo di studi scientifici (includendo in questa espressione anche quelli umanistici, a scanso di equivoci) rivolti ai professionisti. In parte parliamo di una buona e seria divulgazione, rivolta a tutti i cittadini. Non chiamerei tutto questo Death Education, perché mi pare presuntuoso pensare di educare qualcun altro a fare i conti con il limite e la mortalità. Come tutti gli altri studi, accrescono il nostro bagaglio di conoscenza.

Cosa ne pensate? Avete acquisito questa consapevolezza della mortalità? E se sì, come l’avete raggiunta? Grazie, come sempre, per i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/clessidra.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-16 10:59:552025-05-16 10:59:55Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

La legge toscana sul suicidio assistito. Intervista a Francesca Re, di Marina Sozzi

17 Febbraio 2025/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Lunedì 11 febbraio il Consiglio regionale della Toscana ha approvato (27 voti favorevoli, 13 contrari, 1 astenuto) una proposta di legge che regolamenta a livello regionale il suicidio assistito. Abbiamo chiesto a Francesca Re, avvocata dell’Associazione Luca Coscioni, che si è molto occupata di questo tema, di chiarirci bene questa legge regionale. Saremmo molto lieti se questo articolo potesse aprire un dibattito profondo e rispettoso tra i lettori di questo blog. Cosa ne pensate dunque di questo orientamento della legislazione?

 

Grazie Francesca per aver accettato di aiutarci a capire meglio. Che cosa prevede esattamente questa legge regionale?

La legge regionale approvata in Toscana introduce procedure e tempi certi per accedere alla morte volontaria con autosomministrazione di un farmaco letale (suicidio assistito). In particolare, la legge prevede che a partire dalla richiesta di verifica delle condizioni all’azienda sanitaria, da parte della persona malata, entro 30 giorni l’azienda sanitaria deve procedere alla verifica delle condizioni, delle modalità di autosomministrazione (quindi individuare farmaco e procedura più idonea) e acquisire il parere del comitato etico. Prevede anche l’istituzione di una commissione permanente composta da medici specialisti come internisti, palliativisti, anestesisti, neurologi, psicologi, infermieri.

 

Che cosa cambia per il cittadino rispetto alle sentenze della Corte costituzionale del 2019 e del 2024?

La sentenza costituzionale 242/2019 introduce per la prima volta nel nostro ordinamento il diritto di accedere al fine vita anche tramite autosomministrazione di un farmaco letale. Trattandosi però di una sentenza, seppur con valore di legge, questa non regolamenta tutti gli aspetti relativi all’attuazione di tale diritto: prevede infatti che sia una struttura pubblica del SSN a occuparsi delle verifiche e delle modalità di autosomministrazione con relativo parere del comitato etico ma non stabilisce tempi e procedure precise per l’accesso a tale diritto. La presenza di tempi certi eviterà a molte persone malate di aspettare mesi, spesso anni o di doversi rivolgere ai tribunali per vedersi riconosciuto un diritto esistente. A causa dei tempi dilatati o di incapacità delle aziende sanitarie, molte persone, come Gloria proprio in Toscana – sono morte come non avrebbero voluto e molte aziende sanitarie sono state condannate, con evidenti danni anche sulla collettività.

 

Come valuti la legge approvata?

E’ sicuramente un ottimo risultato, prevedere procedure certe e soprattutto tempi ragionevoli di risposta a persone affette da patologie irreversibili e sofferenze intollerabili significa mettere al centro le esigenze delle persone malate, che spesso non hanno il tempo di attendere mesi o addirittura anni per vedersi riconosciuto un diritto fondamentale come quello di scegliere come congedarsi dalla vita. Auspico che sulla scorta dell’esempio toscano anche altre regioni si attivino per regolamentare tale diritto, nel rispetto dell’autodeterminazione di ogni persona.

 

Quali sono i luoghi in cui sarà possibile accedere al suicidio assistito?

In caso di esito positivo della verifica dei requisiti, la Commissione medica definisce le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito. La persona interessata può anche chiedere alla Commissione l’approvazione di un protocollo redatto dal medico di fiducia e recante le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito. Le modalità di attuazione devono prevedere l’assistenza del medico e devono essere tali da evitare abusi in danno delle persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze. Il protocollo indicherà, sempre in accordo con la persona interessata, anche il luogo in cui avverrà l’autosomministrazione, inclusa l’abitazione stessa della persona.

 

E’ possibile per il cittadino accedere alle cure palliative e poi optare per il suicidio assistito, senza rinunciare al percorso di palliazione?

In generale la richiesta di verifica delle condizioni per accedere al suicidio assistito non è una scelta che preclude il diritto di avvalersi delle cure palliative, che devono essere sempre assicurate a tutte le persone malate che ne abbiano bisogno, per un accompagnamento al fine vita, che, in base alla decisione della persona stessa può avvenire anche tramite autosomministrazione di un farmaco letale. Questo sempre che le condizioni siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale e dunque siano conformi a quanto previsto dalla sentenza costituzionale n. 242/2019. Nel caso specifico, inoltre, nel preambolo della legge,  la Regione Toscana ribadisce che la stessa “tutela la dignità della vita della persona nel rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana e in conformità alle leggi dello Stato, garantendo anche nella fase terminale della vita, l’assistenza sanitaria necessaria nel rispetto della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), nonché, all’interno delle strutture pubbliche, il sostegno psicologico e, quando richieste, l’assistenza spirituale o laica”.

 

Ritieni che ci siano altre regioni che possono seguire l’esempio della Toscana? E’ un ulteriore passo verso una legge nazionale?

 In assenza di una legge organica del Parlamento, nonostante i ripetuti richiami e l’evidente necessità di dare uniformità anche applicativa a tale diritto, le Regioni, nell’ambito delle competenze in materia di salute che la Costituzione assegna loro, possono intervenire per assicurare un accesso non discriminatorio al fine vita. L’auspicio è che altre Regioni si attivino sulla scorta della Toscana. L’Associazione Coscioni è pronta a supportare sotto ogni profilo iniziative popolari o di consiglieri regionali per portare avanti queste leggi in tutte le regioni.

 

C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che vorresti aggiungere?

Mi piacerebbe ricordare come siamo arrivati a questa legge, che rappresenta un traguardo importante nel quadro dei diritti di fine vita. Siamo partiti circa dieci anni fa con le prime disobbedienze civili di Marco Cappato, come quella per aiutare Dominique Velati, malata terminale che Marco aiutò a raggiungere la Svizzera. Fu però con Fabiano Antoniani che si arrivò a un processo e poi in Corte costituzionale, quando con la sentenza 242/2019 la Corte dichiarò parzialmente incostituzionale il divieto assoluto di essere aiutati a morire, prevedendo le condizioni in presenza delle quali una persona può accedere al suicidio assistito. Sono servite poi altre disobbedienze civili per ampliare la platea delle persone malate che possono accedere al suicidio assistito, che oggi è consentito anche alle persone tenute in vita da forme di assistenza e non solo da macchinari. Fondamentale anche la legge sulle DAT che consente alle persone di poter disporre le proprie volontà anche per un momento in cui non dovessero essere in grado di farlo. Da qui è partita la campagna nazionale su base regionale Liberi Subito, che prevede una mobilitazione con raccolta firme per presentare eleggi regionali, come successo in Toscana, per organizzare procedure e tempi di accesso al suicidio assistito. Mi piacerebbe inoltre dedicare questa conquista di libertà a Daniela, Fabio, Sibilla, Gloria persone malate con tutti i requisiti indicati dalla Corte che a causa dei ritardi e dinieghi delle aziende sanitarie a Roma, nelle Marche, in Toscana non hanno potuto morire come avrebbero voluto.

 

 

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Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

4 Febbraio 2025/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Noi tutti abbiamo, in dosi variabili, paura della morte. Non voglio parlare della tanatofobia, che comporta sintomi paralizzanti e un terrore ossessivo. Vorrei parlare della paura che abbiamo tutti, e che fa capolino quando capita di pensarci. Questa paura ha prima di tutto un ancoraggio biologico. E’ un’area del cervello antica, chiamata amigdala, che condividiamo con gli animali, a rispondere mediante la paura (reagendo con attacco, fuga, o freezing) di fronte alle situazioni che mettono in pericolo la nostra sopravvivenza.

Mentre gli animali, però, si attivano solo in caso di rischio imminente (l’avvistamento del leone per la gazzella), gli uomini sanno che moriranno, e sono quindi perpetuamente divisi tra la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte e il desiderio di vivere eternamente.

La paura nasce da questo scarto incolmabile.

E’ quindi paura di ciò che è massimamente sconosciuto e oscuro? Certamente, la morte è del tutto inconoscibile e impensabile, del tutto opaca per gli uomini, e per questo fonte di ansia e angoscia. Noi nasciamo vivi, e la vita è tutto quello che sappiamo, con cui abbiamo familiarità.Ma l’ignoto non è l’unica ragione del timore.

Oltre ad avere paura della morte, noi paventiamo il processo del morire, ossia le circostanze che possono condurci alla morte. Sovente temiamo di soffrire, e abbiamo in mente alcune immagini del fine vita che hanno fatto parte della nostra esperienza, e che ci inquietano in modo particolare. Da quando ho assistito mia suocera malata di Alzheimer, ad esempio, quello è diventato per me il più disturbante dei pensieri: l’involuzione, la totale perdita del controllo, il fatto di diventare un corpo ignaro di tutto, gettato nel mondo. Mi fa molto meno paura morire di cancro, perché so che potrò contare sull’assistenza e sul sostegno delle cure palliative. Ma non è così per tutti.

Proprio perché specifica e soggettiva, questa paura è diversa da un individuo all’altro, e può differire anche a seconda del momento della vita. Inoltre, visto che esistono molti tipi di apprensione che possono essere inclusi nell’idea generale della “paura della morte”, quest’ultima potrebbe essere descritta, in realtà, come una paura della vita.  Il morire fa infatti parte della vita, al contrario della morte, che la delimita e la conclude, e per questo resta estranea alla vita.

Di fronte all’ignoto, infatti, noi usiamo immagini per riempire le lacune concettuali, l’impossibilità di conoscere, il mistero. E queste immagini sono modellate dalla cultura e dalla storia: se abbiamo vissuto un conflitto o viviamo in contesto di guerra, possiamo avere il terrore della distruzione che quest’ultima comporta; oppure, se siamo anziani, possiamo temere maggiormente l’infermità e la vulnerabilità di malattie legate all’invecchiamento, e così via. Per concludere, ciò che chiamiamo “paura della morte” potrebbe essere una paura mortale di certi aspetti dell’esperienza umana, o addirittura della vita in generale.

Lo psicoanalista Irving Yalom, nel suo libro Fissando il sole, narrava alcuni casi clinici in cui la paura della morte, durante il percorso analitico, si era rivelata essere piuttosto sintomo di una difficoltà rispetto ad alcuni particolari vissuti. Una storia che mi è rimasta impressa riguarda una terapista britannica, Julia, che dopo la morte di un’amica era diventata ipocondriaca e terrorizzata dalla morte al punto da smettere di fare tutto ciò (sport, e perfino guidare l’auto) che la esponesse a un rischio anche molto piccolo. Durante un viaggio in California chiese aiuto a Yalom, il quale le rivolse una domanda che faceva spesso ai suoi pazienti: “Di quale aspetto particolare della morte ha paura?”. Julia rispose: “Tutte le cose che non ho fatto”. Da quel momento l’analisi prese un’altra via, e permise a Julia di comprendere che aveva impedito a se stessa, per il timore di non essere all’altezza, di realizzare o almeno di misurarsi con le sue ambizioni artistiche. La paura della morte, occultata dal dolore per la perdita dell’amica, nascondeva a sua volta una vita insoddisfacente da cui Julia non riusciva ad affrancarsi. L’identificazione della paura più autentica e profonda permise a Julia di mettersi alla prova, e l’angoscia di morte diminuì.

Voi avete mai riflettuto sulla vostra paura della morte? Di cosa avete soprattutto paura? La vostra paura si collega con le vostre esperienze di vita? L’idea delle cure palliative vi conforta?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/paura-della-morte-1-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-04 10:24:362025-02-04 10:24:36Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

Eredità digitale: come conservare la memoria dei nostri cari defunti? di Davide Sisto

17 Dicembre 2024/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante l’ottobre 2024 quotidiani e riviste scientifiche, nazionali e internazionali, hanno commentato una notizia piuttosto inquietante. Nel cuore di una notte l’americano Drew Crecente ha ricevuto sul proprio smartphone la notifica di una mail. Questa mail è stata inviata da Google Alert, la funzione di Google che il padre ha attivato per essere avvisato ogni volta che sua figlia Jennifer Ann viene nominata online. La ragazza, infatti, diciotto anni prima era stata vittima di femminicidio e il padre ha fondato un’associazione in suo ricordo. Google Alert rende ora noto al padre che la ragazza ha creato un profilo personale su Character AI ed è attiva (!). All’interno di questo sito, l’uomo vede la foto della figlia e una sua breve descrizione: «Jennifer Crecente è un personaggio esperto e amichevole creato con l’AI, che può fornire informazioni su un’ampia gamma di argomenti, tra cui videogiochi, tecnologia e cultura pop». Poco dopo viene aggiunto: «è anche un’esperta di giornalismo e può offrire consigli sulla scrittura e sull’editing». In altre parole, Character AI, startup americana che permette agli utenti di intrattenere relazioni con personaggi di fantasia creati a computer e in grado di conversare in virtù dell’intelligenza artificiale, ha indebitamente utilizzato l’identità di Jennifer Ann per costruire un essere fittizio al servizio delle persone in carne e ossa. Non è stato per niente semplice da parte della famiglia far cancellare la riproduzione artificiale della donna e far ammettere da Character AI il madornale errore commesso, basato su un problematico riutilizzo di dati precedentemente condivisi da una persona defunta da quasi vent’anni.

Questa storia fantascientifica alla Black Mirror non è altro che la punta di un iceberg. Da svariati anni, infatti, chi si occupa di Digital Death sa quanto sia complicata sul piano psicologico ed emotivo, giuridico e sociale la gestione dell’eredità digitale di un morto. Ciascuno di noi condivide ogni giorno enormi quantità di dati personali sui social network, nelle caselle di posta elettronica, nelle applicazioni di messaggistica privata, nei blog e così via. Un recente studio di NordPass ha rivelato che un utente della Rete può arrivare ad avere circa 170 account digitali, ciascuno con le sue specifiche credenziali di accesso. Questa produzione mastodontica di dati è praticamente incontrollabile nella sua totalità, per cui possono capitare vicende distopiche come quella di Jennifer Ann Crecente. Mentre la legge fa fatica a stabilire regole oggettive e trasparenti in merito alla gestione e alla razionalizzazione dell’eredità digitale, ogni utente della Rete dovrebbe, innanzitutto, interrogarsi su cosa fa e su chi è nel mondo online. Dovrebbe, in primo luogo, comprendere che quando si iscrive a un social network stabilisce – di fatto – un prolungamento digitale della propria identità, per cui il suo profilo corrisponde solo a lui. In altre parole, nessun altro può stabilire come gestire i suoi profili social dopo la sua morte. Egli, pertanto, dovrebbe ragionare anticipatamente sul destino post mortem dei suoi resti digitali e, dopo un’attenta riflessione con i propri cari, andare nelle impostazioni di tutti i suoi profili social e prendere una decisione prematura sul loro destino. Ogni social media, infatti, offre delle soluzioni, più o meno ampie, di cosa fare del proprio account in caso di morte: può essere conservato così com’è, si può far chiudere previo invio di un certificato di morte, si possono scaricare i contenuti dell’account sul computer e poi lasciarli in eredità, su Facebook si può scegliere un contatto erede che gestisca i post pubblici, ecc. L’utente dovrebbe quindi, in secondo luogo, ragionare sulla complessa eredità del proprio smartphone. Ci sono stati casi sporadici, anche in Italia, in cui la legge ha stabilito che – per esempio – i genitori di un figlio deceduto o un vedovo/a possono ottenere le credenziali d’accesso dello smartphone e, dunque, ereditare quell’insieme di dati che costituisce ricordi personali preziosi. Il problema, tuttavia, sta a monte: accedere ai contenuti di uno smartphone significa anche accedere alle conversazioni private tenute dal morto. Si possono, dunque, scoprire informazioni che accrescono il trauma del lutto e il cui carattere poco chiaro non può essere spiegato da chi non c’è più. Si possono, poi, leggere informazioni delicate riguardanti altre persone. Se il proprio partner avesse avuto un amante e questa persona gli avesse inviato foto o video compromettenti, questo materiale potrebbe essere utilizzato per una vendetta. Oppure, se un amico del proprio partner gli avesse confessato, per esempio su WhatsApp, un’informazione estremamente personale e delicata, l’erede potrebbe ricattarlo. Le casistiche sono molteplici e, dunque, anche in questo caso occorrerebbe stabilire a priori, con chiarezza e magari in presenza di un notaio, come lasciare in eredità il proprio smartphone, magari proteggendo i contenuti privati con una password. E questo discorso vale per ogni account di cui si è proprietari e che può avere un valore materiale o sentimentale importante sia per chi non ci sarà più sia per i dolenti.

Man mano che le generazioni si succederanno, avremo cittadini la cui vita è completamente digitalizzata, dunque i documenti digitali svolgeranno un ruolo sempre più importante e delicato all’interno del processo di elaborazione del lutto e della conservazione della memoria. Occorre pertanto non sottovalutare l’importanza della propria vita online e fare in modo che società private, intente a trarre guadagno dai nostri dati, non si approfittino della nostra assenza. Non credo ci piaccia pensare di ritrovarci nella situazione di Jennifer Ann.

Cosa ne pensate? Avete cominciato a ragionare sulle vostre eredità digitali? Attendiamo come sempre le vostre risposte.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/12/immagine-eredita-digitale350x265.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-12-17 08:55:382024-12-17 08:55:38Eredità digitale: come conservare la memoria dei nostri cari defunti? di Davide Sisto

Le sfide delle cure palliative, di Marina Sozzi

3 Dicembre 2024/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Le cure palliative, come si ripete da più parti, sono da considerarsi un diritto umano. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 2018, scriveva, in un testo dedicato alla medicina delle catastrofi e delle crisi umanitarie, che accanto all’intervento degli specialisti è sempre indispensabile che vi siano le cure palliative, al fine di alleviare la sofferenza, rispettare la dignità di ogni persona, sostenere i bisogni essenziali, accompagnare durante il momento più difficile, quello della morte.

Il documento della Lancet Commission del 2022 sul tema The Value of Death, già citato in questo blog, iniziava dicendo che la storia del XXI secolo è la storia di un paradosso. Mentre nei paesi ricchi ancora troppe persone muoiono male perché sottoposte a cure che tentano di prolungare la vita, spesso dilatando solo il tempo della sofferenza, nei paesi poveri mancano ancora farmaci essenziali per combattere malattie che la medicina ha già sconfitto da tempo, e sovente non vi è accesso ai farmaci antalgici. In entrambi i casi, è necessaria un’estensione delle cure palliative.

Per quanto riguarda il nostro spicchio di mondo, in un momento storico in cui il modello delle cure palliative sta diventando vincente tra la popolazione, come ha dimostrato il sondaggio del 2023 condotto da IPSOS su richiesta della Federazione delle Cure Palliative e di Vidas, c’è ancora tuttavia molto da fare per poter affermare di aver portato a termine le sfide che il mondo delle cure palliative si è dato. Le più note sono l’estensione delle cure ai malati non oncologici e la loro anticipazione (early palliative care): la prima è stata avviata, ma richiede un’intensificazione del dialogo tra palliativisti e specialisti ospedalieri, spesso ancora abbarbicati a una visione riduzionistica della medicina e riluttanti a “cedere” i loro pazienti. Lo stesso vale per i medici di famiglia.

Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la legge italiana n. 38/2010, di istituzione delle cure palliative, per quanto abbia avuto una funzione propulsiva per il loro sviluppo nel paese, dà una definizione che ne limita temporalmente l’intervento all’ultimissima fase della vita. Definisce infatti le cure palliative come «l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici». Occorrerebbe invece, come già ha fatto l’associazione internazionale delle cure palliative (IAHPC), modificare la definizione, affermando che: le cure palliative sono l’assistenza attiva e olistica di persone di tutte le età con gravi sofferenze dovute a malattie gravi, e in particolare di coloro che sono vicini alla fine della vita. Una definizione più ampia permetterebbe di prendere in carico le persone più precocemente, tutelando meglio la qualità della loro vita ed evitando le ospedalizzazioni inutili, che costituiscono un costo rilevante e al contempo assurdo per il sistema sanitario: ogni anno, infatti, l’1% delle persone (quasi tutte alla fine della vita) assorbe circa il 20% dell’intera spesa sanitaria, e questo costo è quasi interamente riconducibile a spese ospedaliere (anche se meno del 50% delle persone muore in ospedale).

Tuttavia, poiché la popolazione invecchia e le malattie cronico-degenerative sono sempre più diffuse, ci sono altre sfide che non possono essere trascurate: 1)  la competenza palliativa deve essere estesa, in due sensi diversi: da un lato, ci vogliono più medici e più infermieri palliativisti, le università devono istituire e rendere appetibile la Scuola di Specialità in Cure Palliative, e la ricerca in cure palliative deve essere potenziata; dall’altro lato, anche i medici non specialisti in cure palliative dovranno possedere una formazione di base, ed essere in grado di mettere in atto un approccio palliativo. Ossia, per dirlo diversamente, il modello di cura delle cure palliative deve diventare patrimonio comune della medicina. E questo è anche un tema di modificazione della mentalità, che richiederà probabilmente tempi non brevissimi, e la collaborazione di discipline diverse dalla medicina. E’ possibile che occorra attendere un cambiamento di paradigma della scienza medica, con un superamento della visione riduzionistica, facendo tesoro dei preziosi contributi delle neuroscienze.

2) Ulteriore sfida, la collaborazione tra pubblico e privato deve trovare localmente soluzioni efficaci di co-progettazione (in cui gli enti non profit di cure palliative non siano trattati come fornitori); i bisogni del territorio di riferimento devono essere rilevati e presi in seria considerazione, facendo un ragionamento che vada oltre il risparmio pensato per capitoli di spesa nelle varie ASL, per guardare con occhi complessivi alla spesa sanitaria: smettendo quindi di risparmiare sulle cure palliative, che sono invece la soluzione sostenibile per la cura della fragilità.

Inoltre, 3) è necessario che la distinzione tra cure palliative di base e cure palliative specialistiche sia chiara, concordemente stabilita in base alla complessità della situazione del paziente. Le cure palliative di base potrebbero infatti (a fronte di una migliore formazione) essere portate avanti per i casi meno complessi dal medico di medicina generale insieme agli infermieri dell’Assistenza domiciliare infermieristica (ADI). Mentre quelle specialistiche dovrebbero occuparsi solo dei casi complessi: altrimenti, non riusciranno a farsi carico da sole di tutti i pazienti bisognosi di cure palliative: infatti, i numerosi studi internazionali che hanno cercato di individuare il bisogno di cure palliative parlano di una cifra tra il 69 e l’84% dei morti annui (Murtagh et al, 2014), o dell’1-1,4% della popolazione adulta nei paesi ad alto sviluppo economico (Xavier Gomez-Batiste et Stephen Connor, 2017). In Italia, dove abbiamo circa 700.000 morti l’anno, potrebbero avere bisogno di cure palliative circa 500.000 persone, numeri che non possono essere seguiti interamente dagli specialisti. Anche le RSA e gli ospedali sono luoghi dove la cultura delle cure palliative deve poco per volta penetrare.

E se, quindi, è necessario tale ampliamento della consapevolezza di quale preziosa risorsa rappresentino le cure palliative, è anche utile non fare rientrare del tutto questa cultura della cura nell’alveo della medicina, ma restare strabici. Un occhio dentro la biomedicina, per esserne riconosciuti, per utilizzarne gli strumenti utili, clinici e di ricerca; e un occhio fuori. Quello che resta fuori, per mantenere lo sguardo olistico, e non finire ridotto al riduzionismo, non deve dimenticare il versante umanistico dei pionieri. Sociologi, antropologi, psicologi, filosofi, storici, linguisti, eccetera, hanno molto da dirci. Perché dobbiamo, non dimentichiamolo, affrontare anche il versante psicologico, sociale e spirituale della cura.

Cosa ne pensate? Aspetto con piacere, come sempre, le vostre considerazioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/12/cover-Bonazzi_riflettere_4-terzi-copia.jpg 265 353 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-12-03 10:18:252024-12-03 10:18:25Le sfide delle cure palliative, di Marina Sozzi

Di cosa parliamo quando parliamo di morte? di Marina Sozzi

4 Novembre 2024/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando parliamo di morte, è evidente che non ci riferiamo all’istante dell’exitus, al momento del decesso: di questo evento puntuale, del quale nessun essere umano vivente ha esperienza, nulla sappiamo e nulla possiamo dire.

Vladimir Jankélévitch, interessante filosofo esistenzialista del Novecento, scriveva che è impossibile pensare la morte, intesa in quel senso, e che «il pensiero del nulla è un nulla del pensiero». Così tutti quei monaci, santi e gentiluomini che meditavano guardando un teschio, nei quadri medievali e rinascimentali, non stanno in realtà pensando a niente:

«…in questo concetto di una nichilizzazione totale, non troviamo niente a cui afferrarci, nessuna presa a cui la comprensione possa aggrapparsi. Il pensiero del niente è un niente di pensiero, poiché il nulla dell’oggetto annichila il soggetto: non si pensa un niente, non più di quanto si veda un’assenza, così che pensare il niente è non pensare a niente, dunque è non pensare» (V. Jankélévitch, La morte, p. 39)

Cosa abbiamo quindi in mente quando condividiamo il pensiero che sia importante e utile ragionare sulla morte e confrontarci?

I nostri discorsi vertono principalmente su tre temi: 1) la paura della morte, cioè il pensiero più o meno ricorrente e più o meno angosciante della propria fine o della mortalità delle persone che ci sono care; 2) il morire, ossia il processo di avvicinamento alla propria morte, a seguito di una prognosi infausta, e 3) il lutto, in altre parole ciò che accade a chi resta. Poi, certamente, possiamo riflettere sui riti, o sulla conservazione e tutela della memoria di chi ha lasciato la vita.

Quando parliamo di morte, quindi, paradossalmente, parliamo di vita. L’ultimo tratto di strada delle persone è vita, anzi spesso, come ci insegna chi opera in cure palliative, una vita intensa e preziosa. E vita è quella di chi ha subìto una perdita, di chi ricorda, di chi celebra, di chi teme, di chi prova ansia o angoscia.

Parliamo, più in generale, non della ma intorno alla morte. Ciò che è interessante, in altre parole, è il nostro modo di affrontare il morire e la perdita, individualmente, culturalmente e socialmente. Per comprenderlo occorre esaminare il “sistema della morte” che opera nel nostro contesto, che permette a tutti noi di sapere come comportarci quando incontriamo l’evento più temuto, tenendo conto che ogni sistema della morte è intrecciato con la dimensione sociale, politica ed economica di un paese.

Ciò che è interessante, in sintesi, è come ci prendiamo cura dei morenti, se sappiamo accompagnarli e sostenerli, se riusciamo a rendere tollerabile il morire; come consideriamo e trattiamo gli anziani; come supportiamo chi cura, i caregiver formali e informali; come riusciamo a prevenire il suicidio; come ci prendiamo cura dei lutti faticosi e difficili, come manteniamo la memoria e commemoriamo i nostri morti.

Ma per capire il nostro «sistema della morte», occorre restare aperti a ciò che di nuovo è emerso negli ultimi decenni: la crescita delle cure palliative, innanzitutto. La dimensione online dell’elaborazione del lutto. Le nuove forme di socializzazione della morte, meno legate a protocolli rituali e più personali e intime, gestite insieme alle persone che ci sono affini e vicine. Occorre anche tenere presenti le differenze tra nord e sud, tra città e provincia, abbandonando le perniciose generalizzazioni che ci portano ad affermare che «la società occidentale nega la morte».

Per capire il nostro specifico modo di confrontarci con il morire e con la perdita, dobbiamo smettere di lanciare anatemi, sussumendo tutto quanto è diverso dal passato sotto il cappello della negazione, del tabù, o della rimozione della morte.

Occorre ripartire senza più usare il concetto prêt-à-porter del tabù, per comprendere più profondamente, e senza pregiudizi, ciò che ci circonda: senza trionfalismi, perché ogni «sistema della morte» è modificabile e migliorabile; ma anche con la consapevolezza che la morte è ardua da affrontare, e tutte le società, del presente e del passato, in qualche misura hanno sempre negato e negano la morte, pur dovendola anche in parte accettare, come dato di fatto incancellabile. Nulla di nuovo dal fronte occidentale.

Mi stanno molto a cuore le vostre riflessioni, e aspetto come sempre i vostri commenti.

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L’importanza della gentilezza, di Cristina Vargas

7 Ottobre 2024/1 Commento/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La parola gentilezza, nell’uso quotidiano, è riferita soprattutto ad una modalità relazionale caratterizzata dall’amabilità, dalla cortesia, dal garbo e dalla delicatezza. Questo tipo di approccio interpersonale è sempre stato considerato in modo genericamente favorevole, ma solo negli ultimi anni, il concetto di “gentilezza”, in inglese kindness, è entrato a pieno titolo nelle riflessioni e nelle ricerche che riguardano la cura.

Ma che cos’è esattamente la gentilezza nell’ambito sanitario-assistenziale? Diversi autori hanno cercato di dare una risposta esaustiva a questo quesito, scontrandosi però con il fatto che essa è intuitivamente semplice da percepire, ma difficilmente si può incasellare in un concetto univoco o in un costrutto da misurare con un test.

Nel 2011, John Ballat e Penelope Campling pubblicarono il volume Intelligent Kindness. Reforming the culture of healthcare, che fornì un importante contributo alla riflessione sul tema della gentilezza, ancorandolo al contesto sanitario pubblico e a uno dei valori più profondi alla base di un approccio universalistico al diritto alla salute, ovvero il riconoscimento del legame che ci unisce in quanto esseri umani. Da questo riconoscimento derivano il diritto e il dovere di occuparci gli uni degli altri attraverso una relazione di cura fondata sul rispetto, sulla compassione, sull’interconnessione reciproca e, appunto, sulla gentilezza.

La valorizzazione della “gentilezza intelligente”, per i due medici britannici, è strettamente collegata alla critica di un approccio mercificato alla salute, che nel Regno Unito – come in molti altri paesi – è  diventato dominante, trasformando la relazione terapeutica in una transazione commerciale in cui “il tempo è denaro”. La gentilezza, in quest’ottica, non è solo un appello ad usare le buone maniere né, per citare gli autori, una “crociata sentimentale”, ma una filosofia della cura fondata sul riconoscimento dell’altro e un invito a ripensare la cultura organizzativa ospedaliera ponendo al centro la qualità dell’assistenza.

Fra le caratteristiche di un approccio fondato sulla gentilezza c’è il coinvolgimento autentico (opposto al distacco difensivo); la personalizzazione dell’assistenza (che si contrappone alla fretta e alla spersonalizzazione); un’attenzione costante alle modalità di comunicazione e alla relazione fra professionisti e utenti.

Per Austin Hake e i suoi collaboratori, tutti ricercatori impegnati nel campo delle Medical Humanities, l’empatia e la compassione sono competenze relazionali fondamentali per i clinici, ma sono anche difficili da tradurre in comportamenti concreti. La gentilezza invece ha il vantaggio della semplicità poiché si esprime innanzitutto attraverso l’azione. Sono gentili gesti come il salutare la persona malata con un sorriso; ascoltare con attenzione le sue parole; fare domande più ampie rispetto alla mera anamnesi clinica o al monitoraggio dei sintomi; mostrare interesse; avere pazienza.

Questi atti che hanno un effetto benefico globale ben documentato sul benessere del paziente (si veda a questo proposito il volume The rabbit effect, di Kely Harding) e risultano irrinunciabili nelle cure palliative, nell’assistenza geriatrica, nell’accompagnamento alla cronicità avanzata e in tutti gli altri campi in cui ci si confronta con la vulnerabilità, la sofferenza e la fragilità.

Perché queste azioni, apparentemente banali, talvolta mancano? Rimanendo nell’ambito del servizio pubblico sulla scia degli autori sopra menzionati, il primo pensiero va al disinvestimento economico e a politiche che hanno generato una situazione di sovraccarico e affaticamento tanto del sistema quanto del personale. Tuttavia, pur consci dei limiti che ciascun servizio affronta, la presenza di reparti o istituzioni che adottano una cultura orientata alla gentilezza dimostra che un approccio diverso è possibile. Come da tempo è assodato in cure palliative, un incontro clinico efficace, ma frettoloso e freddo, è del tutto inadeguato quando la persona è vicina alla fine o sta affrontando la fase avanzata della sua malattia ed è fondamentale porre al centro la qualità del tempo che resta, lungo o breve che sia.

La gentilezza, in sintesi, non è solo una competenza individuale, ma richiede una riflessione sul contesto, sociale, culturale e normativo in cui si esplica. Non è quindi un caso che la portata di questo concetto si sia sempre più allargata e abbia investito il campo della bioetica e del biodiritto,

Nel 2012 si è costituita a Padova la rete nazionale di studio “Per un diritto gentile”, che raccoglie un gruppo interdisciplinare di esperti nel campo del diritto, della salute e della relazione di cura. Questo gruppo,  inizialmente incentrato sulla dignità del morire, ha successivamente ampliato i propri obiettivi a tutto l’ambito della cura, nonché al monitoraggio dell’attuazione della Legge 219 del 2017 (anche attraverso degli Osservatori a Bologna, Padova, Trento e Palermo).

Uno dei principali ambiti di applicazione di un approccio fondato sulla gentilezza – nella medicina e nel diritto – è appunto quello  della Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC), a cui è stato dedicato un interessante Workshop all’interno del Convegno Un diritto gentile per la persona anziana (Padova 3-4 novembre 2023). In quel contesto è emersa la necessità di continuare a promuovere la pianificazione condivisa, per favorirne la diffusione in tutti gli ambiti di cura che si occupano della cronicità avanzata: dagli ospedali agli ambulatori per pazienti dializzati; dalle RSA agli hospice.

Trattandosi di uno strumento ancora relativamente nuovo, che durante il Covid è stato poco usato, si è rivelato particolarmente utile il confronto sulle buone pratiche, anche intorno a questioni molto concrete: come viene organizzato il momento in cui si pianificano le cure? Chi è presente al/ai colloqui? Dove si svolgono? Qual è il momento giusto per proporlo alla persona malata? Quali strumenti possono essere usati per supportare il paziente (le tracce di intervista; carte che stimolano a riflettere sulle proprie priorità, supporti audiovisivi, ecc)?

Parallelamente è stata sottolineata la necessità di continuare a interrogarsi tanto sul piano clinico/operativo, quanto sul piano giuridico, sulla possibilità di attuare una pianificazione condivisa delle cure con pazienti in situazioni complesse: le persone con disturbi psichiatrici o demenze; i minori; i grandi anziani non più autosufficienti e non del tutto lucidi; gli stranieri in presenza di barriere linguistico-culturali significative e altri ancora. La sfida, in tutti questi casi, è quella di affinare le nostre competenze relazionali perché si crei una buona alleanza di cura e si possa procedere nel modo più condiviso, gentile e rispettoso possibile.

Pensate che il concetto di gentilezza sia utile per riflettere sulla cura? Avete esperienze di pianificazione condivisa delle cure, da curanti o da pazienti? Attendiamo, come sempre, il vostro contributo.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/10/gentilezza2.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-10-07 09:54:002024-10-07 09:54:00L’importanza della gentilezza, di Cristina Vargas

Come si parla di suicidio sui social network? di Davide Sisto

25 Settembre 2024/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi due o tre anni spopola su Tik Tok la parola “unalive”, non vivo, usata prevalentemente dagli utenti del famoso social network cinese per parlare di suicidio. Hashtag come #unalivemeplease, #unaliving, #unaliveawareness e #selfunalive contano milioni di visualizzazioni e di like, nonché centinaia di commenti. Dietro questi hashtag si nasconde un po’ di tutto: persone che raccontano il loro tentato suicidio o che non nascondono il desiderio di uccidersi, persone che invece cercano di fare prevenzione rimandando – per esempio – a video di psicologi o affrontando il tema della depressione, ma anche utenti che condividono situazioni del tutto allegre e fuori contesto, per cui fanno un uso di questi hashtag in termini scanzonati e non realistici. La ragione per cui viene utilizzata la parola “unalive” per parlare di suicidio è unicamente pratica: non farsi censurare dagli algoritmi delle piattaforme. Il termine “suicidio”, infatti, rientra in quella sorta di blacklist alla base della cancellazione automatica di contenuti. Questo, soprattutto, per evitare la condivisione pubblica di video in cui si vedono individui che si tolgono la vita, come qualche volta purtroppo succede. Il tema dell’uso della parola unalive è oggi particolarmente dibattuto nella dimensione online, tanto che sono in aumento le discussioni su Reddit relative ai suoi effetti positivi e negativi sulle comunità digitali.

Proprio da queste discussioni interne a Reddit, la versione contemporanea dei forum di un tempo, emerge un aspetto su cui occorre riflettere. Non sono poche, cioè, le persone che ritengono inopportuno, indelicato o addirittura diseducativo non usare in maniera esplicita la parola “suicidio”. Innanzitutto, alcuni ritengono che aver reso di tendenza un termine che allude in modo generico a un aspetto così delicato della nostra società rischia di creare confusione, soprattutto tra i ragazzi adolescenti, i principali fruitori di TikTok. In secondo luogo, altri sostengono che porre in relazione il suicidio alla censura non faccia altro che aumentare il tabù che di per sé già lo caratterizza. Se insegniamo ai più giovani che la parola “suicidio” non si può dire, non facciamo altro che incrementare i pregiudizi che vi sono di per sé associati. Questo tema, ovviamente, è riconducibile agli effetti Werther e Papageno di cui abbiamo già parlato sul blog.

Al di là di questo, se proviamo a osservare con più attenzione i contenuti che si celano dietro gli hashtag su TikTok, cogliamo il tentativo generale di parlare di suicidio evitando il più possibile luoghi comuni o stereotipi. In particolare, dai racconti di coloro che dicono di aver pensato di togliersi la vita o di aver tentato di farlo, senza riuscirci, emerge il desiderio di non cercare facili nessi di causa-effetto, ritenuti perlopiù consolatori. In altre parole, i giovani utenti di TikTok sottolineano la complessità a fondamento di una scelta così estrema, una complessità che tiene insieme il vissuto personale e le dinamiche sociali, culturali, politiche ed economiche all’interno di cui il singolo è oggi collocato. Soprattutto, si vuole evidenziare quanto vada fuori strada la colpevolizzazione di un soggetto mediatico: i videogiochi, la musica, il cinema, ancor di più i social media, diventati il capro espiatorio quando non riusciamo a razionalizzare una scelta. Certamente, le sfide rivolte agli adolescenti o, addirittura, ai bambini sono pericolose e possono influenzare negativamente il singolo dal punto di vista psicologico ed emotivo. Ma i singoli racconti mostrano come i rischi che si incontrano online, al massimo, portano alle estreme conseguenze una situazione personale di per sé già estremamente compromessa. A questi video girati dagli adolescenti si aggiungono, su TikTok, quelli di psicologi o psichiatri che utilizzano la piattaforma cinese per affrontare il tema e, dunque, cercare un ulteriore canale comunicativo con i giovani.

Personalmente, apprezzo lo sforzo che si tenta di fare in presenza di un argomento come il suicidio, considerato il tabù dei tabù. Io faccio parte di coloro che, nel ritenere fondamentali le attività di prevenzione, non riescono a considerare il suicidio come una scelta indotta da un colpevole facilmente individuabile. Detto in altri termini: che ci piaccia o no ammetterlo, a volte è solo fortuna il non aver mai avuto pensieri suicidari o, durante momenti piuttosto difficili della propria vita, averli avuti senza attuarli. Le mille ragioni che, unite insieme, possono determinare la scelta estrema non rappresentano necessariamente un fallimento di chi non è riuscito a impedire di attuarla. Ho avuto, purtroppo, nel corso degli anni due amici e un’amica che si sono tolti la vita in circostanze molto diverse tra loro, il cui filo conduttore non è la colpa di chi non ha capito, di chi non è intervenuto, ecc. Certo, come società e comunità dovremmo impegnarci alacremente affinché nessuno si senta talmente perso, nel vasto oceano della vita, da ritenere un’opportunità positiva farla finita anzitempo. Tuttavia, è innegabile il fatto che ciascuno di noi si muove a tentoni, tra mille difficoltà e mille imprevisti, e di conseguenza fa ciò che riesce e può non aver più voglia di riuscirci. Non sto giustificando, ovviamente, questo tipo di dolorosissima scelta, soprattutto per chi resta in vita, ma mi pare utile non dimenticare quanto certe azioni trascendano ogni tentativo di spiegazione oggettiva.

E mi pare che su TikTok ci si muova in questa direzione, la quale apre altri orizzonti mediatici: spesso, vengono prodotti link che rimandano a medici che possono offrire un sostegno o, addirittura, ad app gestite dall’intelligenza artificiale, la quale mira – tramite dialoghi costruiti ad hoc – a creare un terreno di conversazione che non faccia sentire sole le persone. Nel mondo odierno, capita anche questo (negli States l’app di questo tipo più famosa è Wysa).

Cosa ne pensate del modo in cui si parla di suicidio online? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/09/immagine-1.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-09-25 09:38:502024-09-25 09:38:50Come si parla di suicidio sui social network? di Davide Sisto

La morte è un evento naturale? di Marina Sozzi

10 Settembre 2024/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando in cure palliative diciamo che la morte è un evento naturale, che fa parte della vita, che cosa stiamo dicendo? Le parole, ci insegnano i linguisti, sono importanti.

Esiste la morte “naturale”? Per fortuna, verrebbe da dire, no. Già Leopardi scriveva che la natura è “matrigna”. Oggi, anche grazie alle cure palliative, abbiamo strumenti per alleviare i sintomi che si presentano nel processo del morire, e stiamo cercando di affinarli sempre più.

Ma da dove nasce questa idea positivamente connotata della “morte naturale”?

Jean Baudrillard tuonava nel 1976 nel suo Lo scambio simbolico e la morte contro l’idea della morte naturale, che altro non era secondo lui che la definizione della morte data dalla scienza trionfante e dominante, che la interpretava come evento biologico. Dietro l’idea della morte naturale c’era secondo lui la negazione della morte, ossia il controllo della morte da parte della medicina.

L’ideale della morte naturale coinciderebbe quindi con quello di una morte “normale”, che arriva al termine della vita, dopo che ciascuno ha consumato il suo “capitale biologico”. Ciò significava per Baudrillard che ognuno ha il diritto, ma anche il dovere, di avere una morte naturale (quindi di evitare i fattori che possono abbreviare la vita): ossia ciascuno, al fine di massimizzare il rendimento delle forze produttive, non è più libero se non di vivere il più a lungo possibile, sotto sorveglianza medica.

Al di là dell’estremismo del pensiero di Baudrillard, è vero che la morte è oggi pensata come naturale quando è sufficientemente buona e giunge dopo una lunga vita spesa bene. E’ vero anche che la morte è considerata naturale nel senso di una natura addomesticata dalla scienza medica. In fondo le cure palliative, seppur con tutta la carica critica e rivoluzionaria (soprattutto dei pionieri) derivano da lì, dalla medicina, e l’idea della morte naturale l’abbiamo ereditata. Ma nella prassi delle cure palliative sappiamo bene che la morte non è un evento biologico.

Forse dovremmo allora abbandonare questa idea, della morte naturale, per sostituirla con qualcosa che meglio si confaccia all’esperienza delle cure palliative. La morte è un evento culturale oltre che naturale: così si renderebbe ragione della complessità del processo del morire, e della multidimensionalità dell’intervento palliativo: fisico, psicologico, sociale e spirituale.

Inoltre, possiamo dire che la morte faccia parte della vita? No, la morte (intesa come momento del decesso) interrompe la vita ed è estrinseca rispetto ad essa. Potremmo dire che la morte, limitando la vita, la definisca, la concluda e ne faccia emergere il senso. Ma ciò accade a posteriori, come affermava il filosofo francese Vladimir Jankélévitch.

Ciò che fa parte della vita (perché si è vivi finché non si è morti) è il processo del morire, l’avvicinarsi della morte.

Le parole sono importanti, perché sono spie della nostra mentalità, dei nostri convincimenti più profondi. Dovremmo forse modificarle e accordarle con la cultura e la prassi delle cure palliative.

Che ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/09/natura-morta-Cezanne.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-09-10 12:39:362024-09-10 12:39:36La morte è un evento naturale? di Marina Sozzi

La tanatologia nei percorsi universitari, di Davide Sisto

23 Luglio 2024/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi due anni ho tenuto un insegnamento di Filosofia ed Etica della Cura, della durata complessiva di 54 ore, per il corso di laurea triennale di Scienze dell’Educazione all’Università di Torino. Per la maggior parte delle ore dell’insegnamento ho affrontato i temi principali della tanatologia, della Death Education, della Digital Death. Ho, in altre parole, parlato di morte e lutto per svariate decine di ore con studentesse e studenti ventenni che si stanno formando nel campo della formazione e dell’educazione.

Non è così consueto affrontare questo tipo di tema in Università, al di là delle questioni prettamente bioetiche e giuridiche che concernono le scelte di fine vita e le definizioni di morte in una società tecnologicamente evoluta. Abbiamo, in generale, parlato di rimozione della morte, di riti funebri, delle cure palliative, delle conseguenze sociali, culturali e filosofiche della perdita di un proprio caro nel mondo contemporaneo, dei diversi modi di dare un senso alla propria mortalità dall’antichità al XXI secolo e, ovviamente, dell’impatto delle tecnologie digitali nel rapporto odierno tra la vita e la morte.

È stato molto interessante osservare la reazione dei discenti, la quale ha seguito in entrambi gli anni un vero e proprio percorso di crescita. Inizialmente, per loro stessa ammissione, il tema ha avuto un impatto piuttosto forte e inibente, perché non siamo abituati a parlarne liberamente. È inusuale affrontare senza fronzoli e pudore questo tema, spesso ritenuto addirittura inopportuno. Dunque, la loro iniziale tendenza è stata quella di ascoltare passivamente senza farsi troppo coinvolgere. Man mano che le ore sono passate, l’iniziale shock si è trasformato nel bisogno generale di intervenire in maniera attiva, dunque di partire dalle proprie esperienze biografiche (la morte di un parente stretto o di una persona comunque vicina, il personale modo di concepire la propria mortalità, ecc.) per riflettere insieme sulle necessità generali del prendersi cura e, soprattutto, sulle mancanze relative alla cura totale della persona, facendo emergere le differenti prospettive religiose e laiche sulle questioni dibattute. Ci siamo, in altre parole, resi conto insieme e in senso pratico di come siamo poco abituati a considerare gli effetti problematici della differenza tra la cura intesa da un punto di vista prettamente medico (“to cure”), la quale trasforma il singolo in un “paziente” nel senso letterale del termine, e la cura intesa come attenzione per la persona nella sua totalità (“to care”).

La cosa che mi ha più colpito è che, alla fine dei due corsi, numerose studentesse e studenti – diciamo, qualche decina – mi hanno proposto una tesi di laurea sul tema della morte declinato in funzione specificamente educativa o formativa: per esempio, come affrontare il lutto e la malattia dei bambini e degli adolescenti (uno dei temi più scelti), come praticare forme di Death Competence negli ospedali e in tutti i percorsi scolastici, come inserire la riflessione sulla nostra mortalità in ogni settore della società dove si fa educazione, come tener conto delle diverse esigenze rituali in materia di fine vita all’interno di un mondo multiculturale, come le tecnologie cambiano il desiderio o l’illusione dell’immortalità, ecc.

Questa ampia richiesta di approfondire i temi tanatologici spesso in riferimento all’educazione infantile, dopo un’iniziale e comprensibile ritrosia, mi ha fatto riflettere su quanto lavoro occorra ancora svolgere per far sì che la morte e il lutto diventino temi centrali – per esempio – nel campo universitario. Non è logico, a mio avviso, che la rimozione novecentesca della morte continui ad avere un impatto così significativo là dove, invece, è necessaria una preparazione che potrebbe, nel pratico, consentire un miglioramento generale delle pratiche di cura. L’esperienza maturata nel campo della tanatologia da tutte le persone che se ne occupano da svariati anni dovrebbe, finalmente, essere convertita in percorsi educativi ben strutturati, necessari per superare una volta per tutte il tabù.

Sono curioso ovviamente di vedere come le persone che hanno approfondito, nelle loro tesi, il tema tanatologico riusciranno ad applicarlo nel campo lavorativo e capire se, nel corso degli anni, ci saranno rilevanti metamorfosi culturali e sociali.
Voi cosa ne pensate? Ritenete opportuno che si insegnino temi tanatologici in Università, nei campi della formazione e dell’educazione? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/07/universita-esame-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-07-23 10:24:172024-07-23 10:24:17La tanatologia nei percorsi universitari, di Davide Sisto

La memoria delle vittime di femminicidio, di Cristina Vargas

8 Luglio 2024/1 Commento/in Riflessioni/da sipuodiremorte

In questo articolo vorrei esplorare il ruolo della scultura, la performance e altre manifestazioni artistiche dedicate alla memoria delle donne vittime di femminicidio, nella costruzione di una rappresentazione sociale della violenza di genere, un fenomeno che fino a pochi decenni fa non aveva nemmeno un nome proprio.

La storia della parola femminicidio è strettamente legata a quella di Ciudad Juarez, in Messico, ed è proprio lì che si sviluppano le prime espressioni artistiche legate a questo fenomeno.

Fin dai primi anni Novanta Ciudad Juarez divenne tristemente famosa per le centinaia, forse migliaia, di sparizioni di giovani donne, che talvolta ricomparivano morte, scaricate senza cerimonie dopo essere state brutalmente uccise. Si trattava di ragazze giovanissime, molte di loro minorenni, quasi tutte di classi sociali svantaggiate e spesso operaie presso le maquiladoras, grandi fabbriche in cui le multinazionali ancora oggi sfruttano a proprio vantaggio il basso costo della mano d’opera messicana. I loro corpi dilaniati raccontavano senza ombra di dubbio l’orrore dello stupro e della tortura, ma tutto avveniva, e in parte avviene tuttora, in un clima di completa impunità: nonostante le denunce delle famiglie – e delle madri in particolare – la verità non veniva cercata.

Di fronte a questi fatti, l’antropologa messicana Marcela Lagarde cominciò a usare  il termine “femminicidio”, una parola che aveva lo scopo di evidenziare come questi crimini non fossero atti isolati di violenza, ma fossero la conseguenza estrema di una cultura patriarcale pervasiva, strutturalmente radicata in una società che, per secoli, aveva negato i diritti delle donne e ne aveva costruito una rappresentazione subordinata e subalterna: proprietà dei maschi; oggetti, non soggetti, da dominare, controllare, sfruttare e “usare” a piacimento. A Lagarde va anche il merito di aver contribuito al riconoscimento del reato di femminicidio in Messico e nel Diritto Internazionale.

Nei primi anni duemila, grazie al lavoro tenace delle madri delle ragazze scomparse o uccise (raccolte nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa), nacque un movimento volto a ottenere giustizia e a generare una presa di coscienza pubblica sulla questione. Per segnalare visivamente i luoghi di ritrovamento delle donne uccise, le attiviste, insieme alle famiglie delle vittime, cominciarono a posare delle grandi croci rosa, una per ogni donna ritrovata: questa pratica venne vietata nel 2007, ma ha continuato ad essere portata avanti fino ad oggi.

Nel 2009 debuttò l’istallazione Zapatos Rojos (Scarpe rosse), diventata una vera e propria icona del movimento internazionale contro la violenza di genere. L’autrice, Elina Chauvet, racconta che, mentre conduceva dei workshop a Ciudad Juarez, era stata profondamente colpita dell’imponente numero di annunci di ragazze scomparse appesi nelle strade: giovani donne di cui non si parlava affatto nei media ufficiali. Sensibile al tema anche per ragioni personali (sua sorella era stata vittima di violenza domestica ed era stata uccisa dal marito), Chauvet decise che era necessario fare un lavoro artistico che non stesse nei musei, ma che fosse presente nelle strade, sotto l’occhio di tutti. Scelse dunque delle scarpe femminili che le erano state donate, ognuna in rappresentazione di una donna scomparsa; le tinse di rosso e le dispose lungo una delle strade principali, spostandole ogni giorno un po’ in avanti fino ad arrivare a El Paso. Le scarpe rosse avevano la potenza visiva di una marcia silenziose di donne assenti. L’istallazione, che avrebbe dovuto concludersi nel 2011, ma è cresciuta ed è stata replicata in molti paesi, compresa l’Italia.

Sebbene non ci sia ancora una tradizione consolidata di memorializzazione del femminicidio, negli ultimi anni sono sorti i primi monumenti commemorativi istituzionali per ricordare le vittime della violenza di genere. Si tratta certamente di un passo avanti nel riconoscimento pubblico di un tragedia finora scarsamente rappresentata, tuttavia, non sono mancate le polemiche: ci sono diversi monumenti che non hanno mai veramente raggiunto il loro scopo e che, al contrario, sono stati sentiti come tentativi di estetizzare la violenza o di mascherare l’assenza di risposte concrete a tutela delle donne da parte delle autorità. Uno di questi è il Memorial Campo Algodonero (Messico), inaugurato nel 2011 come parte di una serie di misure riparative richieste dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani, in seguito ad una storica sentenza contro lo Stato Messicano, ritenuto colpevole di non aver garantito il diritto alla vita e alla dignità delle vittime, né preso misure volte a prevenire le loro uccisioni. Per il monumento venne scelta una scultura di Verónica Leiton, che raffigura una donna che emerge da un fiore: questa immagine, in sé bella, è stata però sentita come incongrua e lontana dall’esperienza dei familiari delle donne uccise, che non erano stati coinvolti in nessuna delle decisioni relative al monumento, né in alcuna fase del processo creativo e hanno quindi scelto di non partecipare all’inaugurazione.

La tensione fra la memoria ufficiale e quella dei familiari coinvolti e degli attivisti ha portato allo sviluppo di veri e propri “antimonumenti”, che hanno la funzione non tanto di commemorare un fatto storico riconosciuto (come farebbe un monumento), ma di denunciare quelle situazioni in cui manca una risposta statale, decostruendo il diffuso clima di negazione che circonda la violenza sulle donne. Il movimento degli anti-monumenti è iniziato in America Latina e si è rapidamente diffuso a livello internazionale: i lucchetti e i fazzoletti fucsia con il nome delle donne uccise appesi dall’associazione Non una di meno in Piazza Santissima Annunziata (Firenze), recentemente oggetto di atti vandalici, sono uno degli esempi italiani di questa forma di espressione artistico-politica.

Le scarpe rosse, le croci rosa, gli antimonumenti, i Simboli di venere con il pugno alzato sono alcuni dei modi che, dal basso, sono stati scelti per restituire valore e dignità alle storie inascoltate delle vittime e per esigere dei cambiamenti strutturali. Essi non hanno forse la durata o la solennità dei tradizionali monumenti funebri, ma hanno la capacità di elicitare emozioni e di irrompere a sorpresa negli spazi della vita quotidiana per ricordarci quanto terreno ci sia da percorrere nella prevenzione di crimini che dovrebbero, e potrebbero, essere evitati.

E voi, che opinione avete su questi nuovi linguaggi di commemorazione?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/07/scarpe-rosse1.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-07-08 10:23:332024-07-08 10:23:33La memoria delle vittime di femminicidio, di Cristina Vargas

Il rifiuto della nostalgia e la ricerca del “per sempre” di Davide Sisto

20 Giugno 2024/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

In questo periodo sto traducendo in italiano, insieme a Roberta Clamar, il libro “Foreverism” (Polity Press 2023) del filosofo Grafton Tanner. L’autore ritiene che il mondo presente sia ossessionato dalla durata senza fine degli eventi (personali e non) e manifesti un’avversione totale nei confronti di ogni forma di nostalgia, quale conseguenza di una perdita o di un’interruzione sia reale che simbolica. Il neologismo che Tanner ha coniato – appunto, “foreverism” – rappresenta un punto di partenza significativo per mostrare questa tendenza anti-nostalgica generale, un rifiuto delle cose finite su cui la società capitalistica investe oggi ingenti quantità di denaro. Al di là dei contenuti specifici del testo, mi pare evidente che stiamo vivendo un’epoca segnata da una curiosa contraddizione.

Da una parte, stiamo prendendo finalmente coscienza degli effetti negativi della rimozione sociale e culturale della morte e, pertanto, stiamo cercando di superare il tabù, parlandone in pubblico di continuo, come – forse – mai si è fatto dal Dopoguerra a oggi. Percorsi universitari di Death Education, convegni, rassegne e festival tanatologici, Death Café, pagine social dedicate alla morte: la pandemia da Covid-19 ha spinto la società a cercare di dare un senso alla paura e all’ansia provate tra il 2020 e il 2022, aumentando le iniziative pubbliche e private durante cui confrontarci sul senso della nostra mortalità e della perdita di chi amiamo. Dall’altra, tuttavia, rifiuto della morte trova un prezioso alleato nello strumento che meglio delinea il rivoluzionario sviluppo tecnologico della contemporaneità: vale a dire, la registrazione. La dimensione online, reggendosi sulla continua produzione di dati e sulla loro immediata registrazione, ha portato alle estreme conseguenze la possibilità di vivere e rivivere senza sosta gli eventi che abbiamo amato, spingendoci a forza all’interno di una bolla in cui c’è il costante ritorno del finito. YouTube, Netflix, Amazon Prime e le altre piattaforme di cui facciamo quotidiano uso intensificano radicalmente le abitudini man mano acquisite durante lo sviluppo novecentesco dell’industria culturale di massa. Pertanto, ci permettono di rivivere in qualsiasi momento della giornata i programmi tv, i film, le serie televisive, i concerti, ecc. che hanno segnato il nostro percorso di crescita. Mai come oggi possiamo tenerci alla larga dallo scorrere del tempo, continuando a far finta che i nostri amati prodotti culturali del passato siano parte attiva e pulsante del presente. Il desiderio di non dover scendere a patti con la fine e la nostalgia che ne deriva si riflette, per esempio, nell’aumento esponenziale dell’uso dell’intelligenza artificiale, dell’olografia e della realtà virtuale nei rapporti tra la vita e la morte. Queste vengono utilizzate, infatti, per permettere ai personaggi pubblici di continuare a “vivere” dopo la loro morte, non solo per mezzo delle tracce registrate e, dunque, di per sé passive. Cantanti, artisti, politici, ecc. sopravvivono al loro decesso sotto forma di ologrammi, i quali continuano a svolgere le attività che li hanno resi noti. Anzi, è sempre più diffuso il pensiero che la vecchiaia e la morte non abbiano alcun diritto di interrompere il processo artistico o sociale sviluppato nel corso dei decenni: se non lo si può portare avanti con la propria natura biologica, sarà compito allora dei loro eredi tecnologici proseguire ciò che è stato realizzato. È tutt’altro che una bizzarria la richiesta della cantante pop Madonna, nel suo testamento, di non diventare un ologramma post mortem.

Questo tipo di iniziativa intercetta anche i bisogni dei privati cittadini. Sembra che una delle principali richieste fatte a ChatGPT dagli utenti di tutto il mondo sia quella di riprodurre le caratteristiche specifiche dei cari defunti, di modo che non si possa mai smettere di dialogare attivamente con loro. Pare che in Cina con soli 52 yuan (6,75 euro) si possa già ora in teoria continuare a parlare con i morti, usufruendo dei servizi offerti dalla piattaforma di e-commerce Taobao. E si moltiplicano gli studi interdisciplinari sui cosiddetti “thanabots”, appunto gli strumenti di intelligenza artificiale che riproducono le modalità comunicative di chi è morto.

In altre parole, a una presunta maturità acquisita progressivamente nei confronti del proprio destino mortale si contrappone un rifiuto estremo del senso della fine. Mai come oggi, le tecnologie plasmano un mondo in cui vogliamo bandire ogni forma di nostalgia, in particolare l’accettazione della separazione, pretendendo inoltre un presente immacolato e privo dei segni del tempo che passa. Ma siamo sicuri che sia salutare un mondo in cui il passato, di fatto, viene a identificarsi con un presente che dura per sempre? Il rifiuto della nostalgia, dunque di quel termine che ne è a fondamento, non rischia di renderci emotivamente più apatici e meno capaci di accettare l’inevitabile corso degli eventi? Ho timore che l’eccessivo soffocamento del presente con un passato che non si accetta come tale possa aumentare le difficoltà quotidiane e rendere arduo un percorso di crescita individuale. Come posso prendere coscienza dei miei limiti se il mondo circostante mi promette l’illimitato e l’infinito?

Al di là di tutto, resta – a mio avviso – interessante notare la contraddizione qui descritta, segno di una metamorfosi in corso del rapporto tra chi dà un valore vitale alla morte e chi continua invece a volerla negare. Rapporto atavico, che fa parte della storia dell’umanità ma che, tuttavia, oggi assume caratteristiche particolarmente radicali, a causa del cambiamento della vita umana dovuto alla possibilità di ampliare i mondi in cui vivere in virtù della dimensione online.

Cosa ne pensate? Anche voi notate questa tendenza in corso al rifiuto della nostalgia? Fateci sapere.

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