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Tag Archivio per: mortalità

Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

16 Maggio 2025/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Si parla moltissimo di Death Education. Alla base del bisogno di “educare alla morte” sta l’idea che la nostra società sia incapace di affrontare il morire e il lutto: quindi si rende necessaria qualche forma di “pedagogia” che insegni a tutti noi come prepararsi alla morte propria e dei propri cari.
Ho già scritto in questo blog che non condivido più l’idea di questa inadeguatezza del nostro tempo. E cito solo un fattore di grande adeguatezza: la nascita e la diffusione delle cure palliative, che hanno saputo elidere la sofferenza che accompagnava il morire. E scusate se è poco…
Peraltro, la discussione sulla possibilità che gli esseri umani hanno di prepararsi alla morte è antica quanto il mondo. Per citare solo i più famosi filosofi che hanno partecipato a un dibattito che si è dipanato nei secoli, ricordiamo Socrate, Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne, Spinoza, Schopenhauer, e, più vicini a noi, Heidegger e Sartre. Per alcuni di questi pensatori riflettere sulla morte significava imparare a vivere una vita più piena e consapevole, attribuendole un senso più profondo.
Altri hanno ritenuto futile ragionare sulla morte e cercare di prepararsi, perché questa ci coglie spesso di sorpresa, e ignoriamo quando e come si verificherà. Siamo vivi e possiamo meditare solo sulla vita, che è l’unica cosa che conosciamo.
Questo dibattito è ancora attuale.

Ora, io non sono certa che si possa insegnare alle persone a prepararsi a morire, malgrado le innumerevoli “Preparazioni alla morte” pubblicate nel medioevo e nel rinascimento. Lo stesso Erasmo da Rotterdam scriveva, proprio nella sua Della preparazione alla morte, che non c’è buona morte senza buona vita.
Ma anche la buona vita non basta. In cure palliative è noto che soltanto poche persone con grandi risorse emotive e culturali riescono a “entrare nella morte ad occhi aperti” (per usare le parole di Marguerite Yourcenar) e con serenità.

Che fare dunque? In primo luogo, non facciamoci troppe illusioni: stiamo cercando di fare i conti con ciò che gli esseri umani sanno essere il pericolo maggiore, e che tutte le culture del mondo hanno considerato un tabù. Non è facile e continuerà a non essere facile.

In secondo luogo, occorre tenere presente una distinzione di cui abbiamo più volte dibattuto, ma che mi sembra utile riassumere. 1) La preparazione alla «morte» è impossibile, se intendiamo la morte come momento del decesso. Infatti, come scriveva Jankélévitch, di fronte al nostro annichilimento il pensiero si azzera: la morte non è pensabile. Jankélévitch affermava che talvolta possiamo sfiorare tangenzialmente la nostra morte, ad esempio quando ci troviamo un capello bianco o una ruga in più. Allora abbiamo una breve rivelazione del fatto che essa giungerà, ma questa intuizione ci fa rimbalzare verso la vita, non possiamo soggiornare nel pensiero della morte. Quando tocchiamo brevemente la fine che verrà, tuttavia, la nostra vita è arricchita dalla consapevolezza del limite comune dell’umano, la mortalità, che ci sospinge verso una dimensione più etica dell’esistere. La preparazione alla mortalità è dunque cosa diversa, i due termini morte e mortalità non sono interscambiabili.

2) La percezione della finitezza, quando è profonda e matura, ci orienta verso la dimensione della cura, del prendersi cura dell’altro, visto nella sua vulnerabilità, uguale alla nostra, e ci allontana dalla violenza, qualunque forma quest’ultima assuma. La tua vulnerabilità è come la mia, io potrei essere al tuo posto.

3) C’è ancora un terzo senso in cui possiamo preparaci alla morte, quando quest’ultima è prossima. Possiamo allora (ma è compito straordinariamente difficile) prepararci a lasciar andare la propria vita, ad accettare che possa concludersi, ed è cosa che si può fare soltanto sul letto di morte.

Ma come si raggiunge la consapevolezza della mortalità, l’unica che possiamo coltivare quando stiamo bene? Attraverso la pedagogia? Non credo. E’ soprattutto nel corso della vita, grazie all’esperienza inevitabile delle perdite, della malattia, della frustrazione. Anche se non sempre queste esperienze fanno crescere la consapevolezza, perché siamo umani e talvolta non riusciamo a orientare gli eventi della nostra biografia in una direzione progressiva, e magari accumuliamo rabbia o rancore. Ma coloro che riescono a far tesoro delle esperienze dolorose o difficili acquisiscono una più alta umanità.

Che ruolo hanno dunque gli studi sul morire e sul lutto? Non ci proteggono dall’angoscia di morte, non sono “preparazione” alla morte.
Sono fondamentali perché arricchiscono il nostro sapere e la nostra capacità di gestire la fine della vita, di garantire la migliore qualità della vita di chi muore, e di sostenere coloro che affrontano la morte altrui. In parte parliamo di studi scientifici (includendo in questa espressione anche quelli umanistici, a scanso di equivoci) rivolti ai professionisti. In parte parliamo di una buona e seria divulgazione, rivolta a tutti i cittadini. Non chiamerei tutto questo Death Education, perché mi pare presuntuoso pensare di educare qualcun altro a fare i conti con il limite e la mortalità. Come tutti gli altri studi, accrescono il nostro bagaglio di conoscenza.

Cosa ne pensate? Avete acquisito questa consapevolezza della mortalità? E se sì, come l’avete raggiunta? Grazie, come sempre, per i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/clessidra.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-16 10:59:552025-05-16 10:59:55Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

Death education? di Marina Sozzi

23 Novembre 2022/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

foto-di-A.Zhuravleva

L’espressione “Death education” è così diffusa tra coloro che si occupano di morte e morire che pare che il suo significato sia arcinoto e scontato. Tuttavia, se ci fermiamo un attimo a riflettere, è piuttosto fumosa e poco concreta.

Desidero quindi pormi degli interrogativi su questa locuzione: chi, come e a che scopo dobbiamo educare alla morte?

Cominciamo dal chi: i bambini? gli adulti? gli operatori sanitari e sociosanitari? le persone in lutto? coloro che aiutano le persone in lutto? coloro che affrontano la propria morte? tutti i cittadini del mondo occidentale?

E come? Con interventi nelle scuole, facendo cultura, formazione, proponendo riflessioni sulla morte, moltiplicando blog come questo, pagine Facebook o altri canali social? Questi interrogativi, come vedete, ci spalancano la visione di un insieme complesso di problemi differenti, che sarebbero da affrontare separatamente. La Death education appare una sintesi che, invece di essere funzionale, ci impedisce di entrare nel merito di ogni singolo aspetto.

Ma ora arriva la parte più ardua.  A che scopo dobbiamo educare alla morte? E perché esiste questa necessità?

La Death education è infatti la risposta che si usa dare a un altro luogo comune, ossia l’idea che esista nella nostra cultura un diffuso tabù, o rimozione, o negazione o evitamento della morte. In concreto, quando pensiamo alla negazione della morte ci vengono in mente i nostri contemporanei che denunciano gli operatori sanitari quando muore una persona cara; ci ricordiamo di coloro che ignorano la vulnerabilità propria disprezzando quella altrui (migranti, poveri, malati, vecchi, disabili, morenti, come scriveva in modo magistrale Norbert Elias in La solitudine del morente); pensiamo ai medici che non si arrendono davanti alla morte neppure quando è tempo, e continuano a proporre terapie futili e inappropriate, privando i malati della consapevolezza; pensiamo ai familiari che mettono in atto la congiura del silenzio; pensiamo ai genitori che non dicono ai bambini che è morto un nonno o l’altro genitore. Sono problemi sociali sui quali è bene mettere pensiero, e che non intendo certo minimizzare.

Tuttavia, dopo le grandiose opere di Philippe Ariès e Michel Vovelle, le riflessioni di Geoffrey Gorer e Norbert Elias, manca oggi un lavoro che approfondisca questo specifico tema, quello dell’evitamento della morte. Davvero neghiamo la morte? O la paura e l’orrore per la morte ha assunto forme differenti nelle varie culture, e ci troviamo oggi di fronte non a una svolta storica (che ci permetta di contrapporre un passato di familiarità con la morte all’odierna difficoltà) quanto a una forma storicamente determinata di risposta alla morte? E’ una domanda che dobbiamo porci, perché è anche vero che la conoscenza della propria mortalità (il sapere di morire) rappresenta una minaccia esistenziale per l’uomo in quanto la morte è in contrasto con l’istinto di sopravvivenza che caratterizza tutti gli esseri. Esiste quindi una quota di ansia legata al pensiero della mortalità, che non dipende solo dall’atteggiamento di una cultura nei confronti della morte, ma che è un elemento antropologico.

La risposta contemporanea alla morte è magari poco efficace. Ma si tratta pur sempre di una elaborazione culturale complessa, che è riduttivo interpretare semplicemente come una carenza, alla quale rispondere con la Death education, intesa come una sorta di bacchetta magica.

Intanto, mi viene spontaneo notare che è pressoché impossibile fare “educazione alla morte”. La consapevolezza della morte non è possibile raggiungerla se non si è in prossimità della fine della vita, nel momento in cui la propria morte assume contorni di realtà e attualità.

Quello che è possibile fare è educare alla mortalità, che è cosa diversa, e non è solo questione di termini. Saper riconoscere la propria finitezza, quindi la propria vulnerabilità, fa di noi esseri migliori, più tolleranti nei confronti degli altri, più capaci di vicinanza, più attenti alla sofferenza altrui (ma anche più capaci di individuare la propria e comprenderla). Il modo migliore per educare alla finitezza sembra essere aiutare le persone, se possibile fin da bambini, ad accettare qualche frustrazione, ad accogliere il limite, che ci segnala appunto la nostra imperfezione e fragilità. Educare alla finitezza significa dare il senso del limite.

Il che ha a che fare con la morte solo parzialmente. La morte è la Finitezza per antonomasia, con la maiuscola, e certo può servire far comprendere ai bambini, per gradi, e seguendo la loro capacità di comprensione, che siamo mortali. Accanto a questo è altrettanto indispensabile l’alfabetizzazione emotiva, che è altrettanto fondamentale. Saper riconoscere le proprie emozioni e dare loro un nome significa anche riuscire più facilmente a tollerarle.

Questo discorso complesso non è certo concluso, anzi è appena dissodato. Ma credo sia importante, passo dopo passo, provare a mettere in forse le certezze troppo radicate che hanno preso forma in quel meraviglioso crocevia di saperi che è la tanatologia, il discorso sulla morte.

Avete voglia di seguirmi in questa riflessione, che avrà altre puntate?

E intanto: voi che cosa pensate della Death Education?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/11/bambini-modulo-5-e1669149950327.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-11-23 10:14:592022-11-23 10:26:51Death education? di Marina Sozzi

Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

23 Marzo 2021/3 Commenti/in Interviste, Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti, bioeticista, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, sul tema del suo ultimo libro, la spiritualità e la cura.

C’è un’immagine bellissima subito all’inizio del tuo libro, che troviamo anche nel titolo, Sulla terra in punta di piedi. Occorre smettere di calcare la terra da padroni, bisogna minimizzare la nostra impronta ecologica, camminare in punta di piedi. In che senso questo ha a che fare con la spiritualità?

Ho preferito affidarmi a un’immagine, piuttosto che a una definizione. Certo, sia le parole che le immagini possono essere fuorvianti. Per molti lo è sicuramente la parola “spiritualità”: l’associano all’attività del pastore d’anime. Spiritualità ha un sentore di sagrestia, evoca scenari disincarnati, se non addirittura ostili alla vita terrena e corporea. Ma sono consapevole che anche l’immagine della posizione eretta può essere mal interpretata. Dall’antichità greca l’attribuzione della posizione eretta all’uomo è stato il simbolo della sua supremazia rispetto agli animali. È stata la sigla di un antropocentrismo che siamo invitati a scrollarci di dosso. Di questa transizione culturale si è fatto portavoce autorevole il magistero di papa Francesco con l’enciclica Laudato si’. Propone una fratellanza che non si limita agli esseri umani, ma arriva ad affermare come nuovo programma che “niente di questo mondo mi risulta indifferente”. Né gli animali, né le piante, né il pianeta stesso nella sua rude materialità: perfetta antitesi dell’atteggiamento antropocentrico che abbiamo nutrito nei confronti della terra (con le parole dell’enciclica: “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”). È una nuova dimensione della spiritualità, opposta al disprezzo nei confronti della materia, considerata il contrapposto dello spirito.

A questo punto l’immagine dell’essere umano in piedi sulla terra ha bisogno di essere abbinata a quella di un uomo chinato verso la terra stessa, in atteggiamento non solo umile, ma di cura. Le due metafore non si escludono reciprocamente, ma si richiamano e si completano. La spiritualità alla quale siamo chiamati nel nostro tempo non può fare a meno né dell’una, né dell’altra. Se l’uomo in piedi è simbolo dell’umano, quello chinato con atteggiamento di cura richiama il modello post-antropocentrico, verso il quale siamo chiamati a transitare. È molto più che un’evoluzione; qualcuno lo chiama anche coraggioso cambio di paradigma.

La spiritualità è per te strettamente connessa con il tema della cura. Che cosa ne pensi del filone femminista dell’etica della cura, e in particolare della definizione della cura data da Joan Tronto: “La cura è una pratica volta a mantenere, continuare o riparare il mondo”?

Sembra consolidata l’idea che il pensiero spirituale sia sovrapponibile a “pensare al femminile”. Non lo contesto, ma credo che sia opportuno vigilare su forme di sessismo nascoste, che si presentano dove meno ce l’aspetteremmo. Anni fa ha fatto epoca un saggio di Carol Gilligan: Con voce di donna. Denunciava l’apparente neutralità delle teorizzazioni che descrivevano lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali nell’essere umano. In realtà – affermava – per secoli la voce che abbiamo ascoltato era la voce degli uomini nel senso di maschi: era il loro modo di concepire i conflitti e le scelte morali, mentre la struttura etica che emerge dal pensiero delle donne è stata considerata come una deviazione dal modello ideale, una specie di fallimento evolutivo; come se nelle donne, rispetto alla capacità di giungere a un giudizio morale, ci fosse qualcosa che non va…

Il bias sessista nascosto nell’etica ci induce a stare all’erta riguardo a ciò che potrebbe succedere nella spiritualità. Magari a ruoli invertiti: riversando nella spiritualità stereotipi culturali femminili, opposti a quelli riservati alla mascolinità. È succube di questa insidiosa ripartizione di ruoli anche l’attribuire il compito della cura alla componente femminile della società. Se poi passiamo alla medicina, diventa: curare è maschile, prendersi cura è femminile. La spiritualità è un invito a scompigliare questi ruoli predeterminati. In tutti gli ambiti della cura: da quella della salute alla cura del pianeta. Anche il ripiegamento consapevole sulla propria crescita potrebbe essere visto in chiave femminile, mentre al maschio si riserva l’estroversione nel lavoro, nella scalata sociale, nel potere. L’alzarsi sulla punta dei piedi non è né maschile, né femminile: è una potenzialità da sviluppare, alla quale è chiamato ogni essere umano.

Sembri essere critico nei confronti della professionalizzazione del sostegno spirituale. Che ne pensi dunque del “core curriculum” che nell’ambito delle cure palliative è stato definito proprio per diffondere la figura dell’assistente spirituale?

La professionalizzazione è sia un pericolo che un’opportunità: in tutti gli ambiti della cura, non solo nella spiritualità. La professione delimita la cura stessa entro certi confini. Non possiamo aspettarci da un professionista lo stesso coinvolgimento emotivo che auspichiamo da parte di un familiare o da una persona intima. Quello che vorrei fosse associato alla professionalizzazione del sostegno spirituale è la competenza. Mentre questa è facile individuarla nelle cure mediche o infermieristiche, è più difficile quando ci spostiamo nell’ambito della spiritualità. Possiamo dire, in negativo: non bastano la spinta ideale e l’entusiasmo personale. Per questo nei confronti di chi si appresta a fornire un accompagnamento spirituale sono necessari: una selezione (certe persone è più opportuno che si astengano, se hanno un orientamento missionario), una formazione specifica (quindi ben vengano le indicazioni del ‘core curriculum’) e una supervisione che accompagni la pratica attraverso un confronto per le situazioni più difficili.

Nel tuo libro sei molto prudente nel dare definizioni positive di cosa sia spiritualità o di come possa essere esercitata. Ma secondo la tua riflessione c’è un legame tra consapevolezza della vulnerabilità e della mortalità (quando è incarnata, e non puramente intellettuale) e desiderio di spiritualità?

La consapevolezza è il presupposto per la spiritualità, intesa non come una pratica segmentale e confinata in certe situazioni, come quella della terminalità, ma come un percorso che si estende tanto quanto la cura. Se dalla cura ci si aspetta unicamente la ‘restitutio ad integrum’, la spiritualità è fuori gioco.

In quali modi la spiritualità ha a che fare con una riduzione dell’antropocentrismo e dell’individualismo della società occidentale?

Spiritualità e sopravvivenza: è una connessione inedita. Eravamo abituati a coniugare il progresso spirituale dell’umanità o con l’attenzione che sposta il centro di gravità dalla vita terrena alla vita eterna – nella prospettiva religiosa – o con un affinamento della nostra qualità umana. Ora invece siamo stati bruscamente confrontati con la sopravvivenza della specie umana. Lo ha proclamato, in modo scenograficamente efficace, papa Francesco nella sua preghiera in una piazza san Pietro deserta, durante la prima fase della pandemia, quando ha proclamato che ci appoggiamo su un pianeta ammalato per lo sfruttamento a cui lo abbiamo sottoposto. E ancora, nell’enciclica Fratelli tutti, ha evidenziato come il Covid 19 abbia messo in luce le nostre false sicurezze. Non si tratta, dunque, di chiudere una parentesi e tornare alla normalità: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. È questa la sfida: mettere la spiritualità non in rapporto con l’ultraterreno, ma proprio con la terra, con la rete dei viventi su di essa. L’alzarci punta di piedi diventa allora una metafora per evocare un peso più leggero. Il contrario dello sfruttamento a oltranza. E proprio qui sta la difficoltà: non ci è richiesto solo qualche piccolo aggiustamento, ma di cambiare il modo di vivere, l’ordine delle priorità. Potremo sopravvivere solo se impareremo a sopra-vivere: ecco, in sintesi, che cosa ci sta chiedendo la spiritualità.

Secondo te la terribile esperienza del Covid ha modificato il nostro rapporto con la spiritualità, e se sì, in che modo? Se ne parla tanto, fin dall’inizio della pandemia, ma io vedo soprattutto un’enorme fatica, il conteggio dei morti la sera, e la fuga dalla realtà dei negazionisti o degli spregiudicati…

Dal punto di vista ideale, la crisi pandemica è un invito a un ripensamento del nostro stile di vita, ovvero uno stimolo ad alzarci sulla punta dei piedi, per ricorrere ancora all’immagine con cui invito a pensare alla spiritualità. Se invece guardiamo all’impatto concreto che la pandemia sta avendo sulle opportunità di crescita spirituale, la tua analisi è molto realistica. Sembra che anche questa opportunità la stiamo perdendo: siamo più orientati a chiudere la parentesi per tornare alla normalità, invece di cercare una diversa e migliore normalità.

Uno sviluppo che mi piacerebbe approfondire è l’interfaccia tra spiritualità e arte. Quali sono i rapporti reciproci?

Nella mia riflessione ho dedicato una particolare attenzione a quelli che ho chiamato “incroci di percorso”. Invece di isolare la spiritualità, l’ho messa in relazione con quanto viene proposto e praticato in ambiti che corrono paralleli nella nostra cultura: con la religione – per dire – e con la psicologia, con l’ecologia e con la filosofia. Uno dei confronti più promettenti è proprio quello della spiritualità nel percorso di cura con l’arte. Sembra una provocazione, perché la cura si presenta come questione di scienza; e la scienza si colloca su un terreno del sapere diverso rispetto all’arte. La spiritualità in questo ambito equivale a un invito ad ampliare il nostro sguardo. La prima guarigione di cui abbiamo bisogno è proprio quella dall’impoverimento della nostra prospettiva. La ricerca della salute richiede anche un nostro orientamento verso la bellezza. In tutte le sue forme: quelle che parlano agli occhi e quelle che percorrono la via dell’udito, così come la cura è costituita da parole, non meno che da farmaci.

Le espressioni dell’arte che ci vengono incontro sono le più varie: dalla parola letteraria (è appena il caso di menzionare in questo contesto l’importanza della Medicina Narrativa, in tutte le sue articolazioni) alla musica, che ha preso dimora nelle strutture sanitarie più all’avanguardia come ospite fisso; dall’arte grafica (l’”arteterapia” è offerta ai malati in percorsi di cura eccellenti) a quella cinematografica. L’arte è un’ottima compagna di strada della spiritualità; le sue articolazioni sono tante quante la nostra creatività riesce a immaginare.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/03/in_punta_di_piedi-e1616427079101.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-03-23 10:34:182021-03-23 10:34:20Sulla terra in punta di piedi. Intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

La Death education e l’emergenza sanitaria, di Davide Sisto

7 Settembre 2020/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante il periodo primaverile di lockdown in tanti abbiamo sperato nell’acquisizione inedita da parte dei cittadini italiani di una maggiore consapevolezza nei confronti del proprio essere mortale. L’improvviso pericolo quotidiano, accompagnato dalle ricorrenti immagini dei morti e dei morenti sui social network e nelle trasmissioni televisive, ha spinto addirittura a credere che col passare del tempo si sarebbe probabilmente prestata molta più attenzione collettiva nei confronti dei percorsi di Death Education, solitamente messi da parte – tanto dalle istituzioni pubbliche quanto dai privati cittadini – a causa della decennale rimozione della morte dallo spazio pubblico.

Ora, giunti alla fine dell’estate, l’impressione che si ricava dai primi mesi post-lockdown è quella di una problematica confusione generale: da una parte, sono numerosi i casi di coloro che hanno preferito rimanere reclusi nei propri spazi abitativi per evitare qualsivoglia rischio sanitario, ponendo di fatto sotto vetro la propria vita quotidiana e convivendo con incipienti patologie di natura psicologica. I dati che arrivano da Telefono Amico Italia sono, per esempio, allarmanti: “quasi duemila le richieste di aiuto ricevute da Telefono Amico Italia, una cifra raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2019”, leggiamo il 4 settembre su Tgcom 24. Dall’altra, un numero sostanzioso di cittadini ha affrontato il periodo estivo come se nulla fosse successo: cancellata rapidamente ogni traccia delle difficoltà psicofisiche vissute nei mesi precedenti, costoro hanno trascorso le vacanze con la solita spensieratezza, non prestando particolare attenzione alle regole stabilite dallo Stato e facilitando – di conseguenza – una recrudescenza del virus. Lungi da me colpevolizzare specifiche categorie di persone, come troppo spesso viene fatto in modo erroneo sui quotidiani d’informazione; tuttavia è evidente che non è risultato armonico – almeno in linea generale – il rapporto tra il sacrosanto bisogno di ritrovare un po’ di tranquillità personale e familiare e la matura consapevolezza relativa alla delicatezza del periodo attuale.

Al tempo stesso, è scomparso dal discorso pubblico qualsivoglia riferimento all’utilità dei percorsi di Death Education per affrontare meglio le sofferenze cagionate dalla pandemia. Mentre negli Stati Uniti sembrerebbe che siano attualmente molto popolari i cosiddetti Death Positive Movement e i Death Doulas, i quali utilizzano ogni strumento comunicativo e sociale a disposizione per affrontare il tema della morte (si veda questo interessantissimo articolo), in Italia rimaniamo in balia della nostra tradizionale ritrosia per ogni discorso pubblico che menzioni il termine “morte”. Ne deriva un mix micidiale tra la consueta rimozione della morte e gli effetti collaterali della pandemia e della quarantena.

Sia coloro che hanno optato per una prudenza patologica sia coloro che hanno invece scelto la spensieratezza radicale portano chiaramente alla luce le problematicità di una vita quotidianamente vissuta senza la consapevolezza della sua fine. I primi, infatti, sembrano aver di colpo riscoperto la propria fragilità esistenziale al punto di decidere di non correre più alcun rischio mortale, rimanendo reclusi in casa. Quasi come se fosse totalmente privo di pericoli uscire dalle proprie mura domestiche nel periodo precedente la pandemia. I secondi, invece, riproducono i soliti superficiali modi di affrontare la quotidianità, ritenendo di essere immuni a qualsivoglia rischio esistenziale e – nel caso specifico – ignorando che la propria libera scelta produce inevitabilmente effetti nefasti nella vita altrui.

A mio avviso, questi due differenti comportamenti, il cui comun denominatore è la scarsa dimestichezza con il pensiero della finitezza e della mortalità, testimoniano in maniera limpida l’assoluta necessità di percorsi di Death Education all’interno delle nostre società. Senza riflessioni metodiche, attente e continuative nel tempo, riguardo al rapporto tra un’emergenza sanitaria e l’innata mortalità che caratterizza ogni essere venuto al mondo, risulta assai difficile barcamenarsi tra le mille difficoltà psicologiche, esistenziali e sociali prodotte da situazioni particolari come quella appena vissuta.

Ora, vi chiedo di raccontare come avete vissuto il periodo estivo e quali sono state le vostre percezioni relative al comportamento collettivo nella cosiddetta “Fase 2”. Anche voi ritenete che sia mancata e continui a mancare una consapevolezza della propria innata mortalità? Attendiamo con curiosità i vostri commenti.

 

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Negazione della morte e Covid-19, di Marina Sozzi e Davide Sisto

30 Giugno 2020/20 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante i mesi più oscuri dell’epidemia di Covid-19, ci siamo interrogati più volte su cosa stesse accadendo della negazione della morte che caratterizza la nostra cultura. Da un lato, l’intera popolazione del nostro paese, soprattutto nelle regioni più colpite, è stata investita da un’acuta angoscia di morte, difficilmente ignorabile. Dall’altro lato, abbiamo assistito a diverse manifestazioni di negazione della paura e dell’angoscia, con i concerti sui balconi, così poco in accordo con le sirene delle ambulanze, e con l’hashtag #andràtuttobene.

Ora che l’epidemia ci ha dato un po’ di respiro, gli individui cercano di dimenticare quello che hanno vissuto, ignorando le precauzioni, col rischio di farci nuovamente precipitare in una seconda ondata epidemica in autunno. Pare quindi che non si possa parlare di una maggiore coscienza della mortalità indotta dalla pandemia: come spesso accade, e come sanno coloro che hanno sperimentato il rischio della vita, tale coscienza dura finché il pericolo è attuale. Una più profonda consapevolezza della finitezza richiede un processo di crescita e di riflessione personale che non deriva solo dall’angoscia di morte.

Non stiamo parlando soltanto di gente comune, di giovani che si affollano nei bar per lo spritz serale. Vi sono intellettuali di primissimo piano che hanno dimostrato di mettere in atto raffinati processi di negazione della paura. Caso emblematico, il filosofo Giorgio Agamben, teorico della biopolitica, ossia di quell’insieme di pratiche con le quali la rete dei poteri capitalistici gestisce i corpi e le vite degli individui.

Durante il lockdown, Agamben ha pubblicato numerosi brevi articoli sul sito dell’editore Quodlibet dai titoli emblematici: “Biosicurezza”, “La medicina come religione”, “L’invenzione di un’epidemia”, ecc. Il fulcro teorico di questi articoli consiste nell’evidenziare come la maggior parte dei cittadini italiani abbia accettato supinamente ogni tipo di limitazione della propria libertà – “limitazione decisa con decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato di poter imporre”, scrive Agamben – per evitare un pericolo di natura sanitaria. Addirittura, il filosofo italiano definisce “frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate” le misure di emergenza adottate per questa “supposta epidemia”. Egli è convinto che il comportamento comunemente adottato nel corso del lockdown rispecchi la trasformazione della scienza e della medicina nelle religioni del nostro tempo, le quali riconoscono nella malattia “un dio o un principio maligno […] i cui agenti specifici sono i batteri e i virus” a cui va contrapposto “un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia”. Il 17 marzo ha scritto: «È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.»

Siccome nulla è semplice e lineare, parte del ragionamento di Agamben è vicino a quello che facciamo, anche all’interno di questo blog, sulla necessità di ripensare il ruolo della morte e della malattia nella vita. È vero che la malattia è sovente trasformata in un dio maligno contro cui occorre combattere sempre e in ogni situazione fino allo stremo delle forze, usando le armi della scienza e della medicina; è vero che va sfatato il mito della medicina come onnipotente artefice di guarigione, e che occorre sottoporre a critica alcuni aspetti della biomedicina. Tuttavia, il ragionamento di Agamben ha esiti radicalmente differenti dai nostri, proprio perché, da uomo del Novecento, non riesce a fare i conti con la propria angoscia di morte, non la riconosce come componente ineludibile della stessa vita umana, componente antropologica e non prodotto di una società malata. Non entreremo nel merito della filosofia di Agamben e delle sue riflessioni sulla biopolitica. Ci sembra tuttavia che sia un buon esempio di quanto sia radicata, nella nostra cultura e nel nostro pensiero, la negazione della morte. Viene in mente anche Sartre, peraltro allievo di Heidegger come Agamben, quando scriveva che è impossibile prepararsi alla morte. La morte non fa parte delle possibilità dell’uomo, anzi è ciò che interrompe bruscamente l’arco delle possibilità di ciascuno, ne rappresenta l’annullamento. Sartre scrive che la morte appare come l’assurdo che costeggia e minaccia la vita umana: “Così la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato”.

Queste, che possono sembrare astratte dissertazioni filosofiche, ci servono per comprendere che la negazione della morte, la difficoltà della nostra cultura ad includerla nella vita, ha profonde e complesse radici nella nostra storia, e non credo che possa essere scalfita dall’esperienza del Coronavirus. Piuttosto, la pandemia potrebbe portarci a riflettere sull’esigenza di fare educazione alla morte, fin da bambini, a tutti i cittadini. Insieme all’educazione civica. Perché solo un individuo consapevole della propria finitezza può diventare un cittadino responsabile.

Che ne pensate?

 

 

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La cura come valore, di Marina Sozzi

8 Giugno 2020/12 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

L’esperienza del Covid ci ha messi di fronte a un’evidenza: siamo fragili, vulnerabili in quanto umani, esposti alla sofferenza e alla morte, e quindi tutti bisognosi di cura. Vorrei che non intendessimo la cura solo in senso sanitario. Il Covid ci ha infatti anche permesso di comprendere una questione molto rilevante, che la cura è un concetto ampio, che implica relazionalità e reciprocità: la cura degli altri e la cura di sé sono due facce della stessa medaglia. La questione delle mascherine, che non tutti colgono, è proprio questa: se tutti la portiamo siamo tutti protetti, tutelando gli altri proteggiamo noi stessi. Questo è un bell’esempio del funzionamento della cura. Facciamone un altro: il tema del surriscaldamento del pianeta. Se ce ne prendiamo cura, se cerchiamo nel nostro piccolo di far parte della soluzione di questo abnorme problema, se scegliamo ad esempio mezzi di trasporto sostenibili, se riduciamo lo spreco di acqua, se mangiamo meno carne e utilizziamo prodotti ecologici, ne beneficeremo noi insieme a tutto il resto del genere umano. Siamo connessi.

Ma cosa è la cura? Joan Tronto, filosofa femminista americana, la definisce come: “una pratica, volta a mantenere, continuare o riparare il mondo.”

Cura quindi non è solo cura delle malattie. Cura è l’allevamento dei figli, l’aiuto prestato agli anziani, l’istruzione, la formazione, lo sviluppo della persona. Cura è la pulizia delle nostre case e delle nostre città, cura è la salvaguardia della terra… eccetera. La cura è un aspetto universale della vita umana: tutti gli esseri umani hanno bisogni che possono essere soddisfatti solo mediante l’aiuto degli altri. Chi presta cura è consapevole del valore di questa pratica. Ma nella nostra cultura chi fornisce lavoro di cura è sovente svalutato e sottopagato. Badanti, OSS, infermieri, insegnanti. Parallelamente, chi ha maggiori esigenze di cura è sovente emarginato e implicitamente disprezzato in quanto “bisognoso”.

Perché questa svalutazione? Ci sono molti e complessi motivi, mi limiterò a indicare il più rilevante. Si tratta dell’idea dell’autonomia dell’individuo come valore assoluto. Questo valore è molto condiviso: si pensi solo al mito del self made man, che si è costruito con le sue sole forze una vita e una carriera di successo. È un mito che si forma a partire dall’oblio del contributo che gli altri (il contesto in cui siamo inseriti) danno alle nostre realizzazioni. D’altra parte, se l’autonomia e l’indipendenza sono un valore assoluto, la dipendenza sarà vista come disvalore: chi è bisognoso di cura viene sminuito. Qui intervengono, accanto all’oblio, anche plurime forme di negazione: negazione della malattia e della vecchiaia, negazione della vulnerabilità, negazione della morte. Eppure, nonostante le illusioni dei nostri contemporanei, verrà un momento in cui anche il più autonomo degli individui avrà bisogno di aiuto. Ciascuno è dipendente e indipendente al contempo, in vari momenti della vita, e questa situazione si può definire come interdipendenza degli uomini tra loro. La cura ci permette di avere l’autonomia come obiettivo, ma senza emarginare e svalutare la dimensione umanissima della dipendenza. L’autonomia e l’indipendenza degli individui sarebbe peraltro un valore accettabile, a patto che non si smarrisca la coscienza che è attraverso la cura che si può raggiungere, insieme, il maggior grado di autonomia possibile. A partire da questa consapevolezza, che scardina la serie di negazioni a cui si faceva riferimento sopra, chi cura potrà avere una diversa considerazione sociale. Ho un sogno, quindi, ed è che la cura possa diventare un valore sociale condiviso, e smetta di essere un lavoro che si svolge nell’ombra, in dimensione privata, fornito da membri svantaggiati della società a beneficio di coloro che possono pagare per procurarselo. Questa argomentazione meriterebbe più ampie riflessioni, ma lo spazio di un post non mi permette di dilungarmi. Sono certa che voi, con le vostre considerazioni ed esperienze, aggiungerete molto a ciò che ho pensato.

Ancora una cosa. Abbiamo un modello che ci permetta di intuire cosa potrebbe essere la dimensione della cura come valore? A mio modo di vedere sì. Il modello è quello delle cure palliative, più efficace del modello della relazione madre bambino, di solito citata come esempio di cura per antonomasia.

Le cure palliative si muovono nel territorio più delicato, quello della prossimità alla morte, e proprio per questo hanno maturato un atteggiamento e delle competenze fondamentali: la consapevolezza della vulnerabilità e la capacità di stare accanto alla sofferenza, l’attenzione per chi riceve la cura (il paziente al centro), la valorizzazione delle capacità residue e delle relazioni, il rispetto per la dignità e l’ascolto, la delicatezza, l’empatia, la presenza, la vicinanza. Queste caratteristiche, che definiscono la buona cura, si riflettono su chi presta la cura. Le équipe di cure palliative valorizzano tutti i ruoli di cura, dal medico al volontario, riconoscendo a ciascuno il valore della sua competenza concreta. Il punto di forza delle cure palliative consiste proprio in questo, la dimensione dell’équipe: la condivisione permette di sostenere chi trova difficoltà nel suo lavoro di cura, minimizzando l’impatto delle debolezze individuali e permettendo a ciascuno di dare il meglio.

 

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I Death Café: un nuovo modo per superare la rimozione della morte? di Davide Sisto

1 Agosto 2019/15 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La scorsa primavera sono stato ospite, per la prima volta, di un Death Café. L’evento si è svolto nel centro storico di Genova, nel tardo pomeriggio e all’interno di una rinomata pasticceria locale. Insieme a un pubblico eterogeneo, composto da alcune decine di persone, ho dialogato per un paio di ore intorno al tema della morte nell’età digitale, con tè e pasticcini a rendere la conversazione più familiare.

I Death Café, arrivati in Italia da pochi anni, sono un evento pubblico non profit, inventato dal programmatore inglese Jon Underwood con l’obiettivo – chiaramente indicato nel sito web deathcafe.com – di rendere le persone consapevoli della propria mortalità all’interno di una cornice in grado di metterle a proprio agio: quindi, luoghi pubblici in cui accompagnare i propri pensieri sulla fine della vita con torte, pasticcini, caffè e tè. Il primo Death Café risale al 2010 ed è stato tenuto a Parigi, per poi diffondersi in tutta Europa e negli Stati Uniti. Solitamente, vi è un facilitatore, che può essere un tanatologo, uno psicologo, un sociologo o un filosofo, che tira le fila del discorso e permette ai partecipanti di dare coerenza ai loro interventi, creando così un contesto in cui le riflessioni sulla morte non sono confuse né sfilacciate. Ma capitano anche situazioni di totale autogestione in cui il motivo della riuscita o del fallimento dell’incontro è la capacità dei partecipanti a organizzare i propri ragionamenti.

L’aspetto più interessante è la tipologia molto varia dei partecipanti: studenti universitari, anziani che hanno patito il lutto per il loro coniuge, figli che hanno perso da poco i propri genitori, persone che sono semplicemente curiose. Questo è il punto fondamentale: la curiosità di parlare di morte all’interno di una pasticceria. La scelta strategica del luogo, che tiene distante l’austerità tipica dei classici centri in cui si svolgono le conferenze, è finalizzata a normalizzare un dialogo sulla morte. Rappresenta, in altre parole, un modo per prendere di petto la rimozione sociale e culturale che ha segnato il morire durante il secolo scorso e dimostrare che non c’è nulla di inusuale o di “alternativo” nel discutere insieme di questi temi in un contesto quotidiano in cui solitamente si parla di tutt’altro. Dopo un’iniziale timidezza, si rompe il ghiaccio e ciascuno racconta le proprie esperienze personali, le proprie paure, i propri rimpianti. La differenza di età dei partecipanti non è un problema, almeno per l’esperienza che ho avuto a Genova. Ciascuno riesce a porsi dal punto di vista altrui, anche perché sono il più delle volte simili le reazioni di fronte alla perdita di una persona amata o dinanzi alla consapevolezza che si è mortali. Alla fine, i partecipanti si sentono rilassati e tornano a casa con la stessa sensazione di chi è andato in palestra: si sono allenati a far rientrare nella propria vita ciò che, solitamente, si tiene alla larga e, per tale ragione, provoca enorme disagio psicologico.

Ora, non sono ovviamente convinto che bastino i Death Café a superare la rimozione. Occorre, infatti, agire in più luoghi della nostra società: sarebbe opportuno incrementare le lezioni di tanatologia all’interno delle Università e i corsi specializzati per gli infermieri e per i medici negli ospedali, quindi sviluppare percorsi educativi e pedagogici per i bambini, nonché aumentare le attività di sostegno per coloro che hanno patito un lutto. Ciò detto, quello dei Death Café è un buon modo per rendersi conto che c’è un problema e per provare, in modo semplice, ad affrontarlo affinché – un giorno, temo ancora lontano – non siano più necessari.

Sono fermamente convinto che sarebbe il caso di svilupparli e renderli capillari in tutta Italia, creando una rete che li trasformi in eventi capaci di coinvolgere tutti i cittadini, senza distinzioni di età, di nazionalità e di classe sociale. Lenendo la sofferenza che provoca un discorso sulla morte con un buon pasticcino al cioccolato.

Avete mai partecipato a un Death Café? In tal caso, come vi è sembrato? Quali sono, secondo voi, i temi che andrebbero maggiormente affrontati durante un incontro di questo tipo?

Attendiamo i vostri commenti.

 

 

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Il significato dell’oblio nell’epoca delle memorie digitali, di Davide Sisto

26 Febbraio 2019/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Secondo alcune statistiche della rivista Mashable, ogni mese l’utente medio di Facebook pubblica circa novanta contenuti sul suo profilo: post, immagini, video. Ora, facciamo finta che Mario Rossi si sia iscritto nel 2008 al social network di Mark Zuckerberg, nato ufficialmente ad Harvard il 4 febbraio 2004. Con due semplicissimi calcoli matematici scopriamo che Mario Rossi ha condiviso su Facebook, fino a oggi, oltre diecimila contenuti. Ma, nel corso degli ultimi anni, non si è accontentato di avere soltanto un profilo su Facebook. Ne ha aperto uno su Instagram, nato nel 2010, e uno su Twitter, creato nel 2006. Facendo un uso quasi quotidiano e metodico anche di questi altri due social, agli oltre diecimila contenuti su Facebook somma centinaia, se non migliaia, di fotografie su Instagram e di “cinguettii” su Twitter (senza contare il materiale interno alla messaggistica privata su Messenger, Snapchat, WhatsApp, ecc.).

In altre parole, Mario Rossi ha un quantitativo di memorie personali, in formato digitale, che non ha eguali nella storia dell’umanità. Se poi consideriamo il fatto che, per esempio, su Facebook vi sono attualmente oltre due miliardi di iscritti ci ritroviamo a vivere in un mondo soffocato – in maniera letterale – dai ricordi.

In un articolo anonimo del 1896, intitolato Voices of the Dead, si festeggiava l’invenzione del fonografo come la definitiva vittoria sulla morte, la quale non poteva nulla contro la capacità tecnologica acquisita dall’uomo di trattenere con sé le voci dei defunti. Qualche anno dopo, nell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom ritiene sensato porre un grammofono in ogni tomba o, comunque, tenerne uno in casa. In tal modo, la domenica dopo pranzo, lo si accende e si ascolta la voce del trisnonno. E, ancora, nel 1983 lo scrittore serbo Danilo Kiš immagina, all’interno del suo libro Enciclopedia dei morti, una biblioteca fantastica, situata a Stoccolma, i cui volumi hanno una caratteristica piuttosto peculiare: contengono informazioni estremamente minuziose di tutto ciò che, ritenuto insignificante e trascurabile, è escluso dagli archivi della cultura ufficiale e non è menzionato nelle altre enciclopedie. In particolare, questa biblioteca raccoglie i dati riguardanti la vita delle persone comuni, di modo da documentare e mantenere viva nella memoria collettiva la loro unicità e irripetibilità.

Oggi i social network hanno portato alle estreme conseguenze il bisogno umano, da sempre sentito, di continuare a sopravvivere all’interno delle proprie memorie. La produzione di ricordi delle singole esperienze è irrefrenabile. Qualche tempo fa avevo già affrontato il tema sul blog, ma in riferimento al pericolo di non riuscire a conservare le proprie memorie digitali a causa dell’obsolescenza tecnologica e delle rigide regole della privacy personale nei social (qui il suo contenuto). In questo articolo, invece, mi interessa soffermarmi su un’altra questione, molto più filosofica: è veramente così importante lasciare una traccia permanente di sé dopo il nostro passaggio sulla Terra?

Ognuno di noi tende a manifestare il desiderio di non scomparire per sempre e, dunque, di divenire – almeno, da un punto di vista simbolico – immortale. Molto banalmente, fare figli per la maggior parte di noi rappresenta il modo migliore di sopravvivere alla propria morte. A volte, tuttavia, penso che ci diamo troppa importanza. Non siamo poi così diversi da quelle centinaia di formiche che rischiamo quotidianamente di calpestare quando camminiamo. E il mondo stesso, anzi l’intero universo, non è poi così interessato ai nostri pensieri, alle nostre credenze, al nostro bisogno di apparire. In altri termini, può diventare quantomeno interessante capovolgere il significato di Coco, il film d’animazione della Pixar uscito nel 2017: non è una tragedia il fatto che, quando morirà l’ultima persona che ha avuto la fortuna (o la sfortuna) di conoscerci, scompariremo nel nulla in mancanza di un oggetto – una fotografia, un filmato, ecc. – che certifichi il nostro passaggio sulla terra.

Lo so, detto da uno che sta scrivendo questo articolo, il quale resterà a lungo nel web, che ha scritto diversi libri e che, come la maggior parte di voi, condivide migliaia di post sui social network può suonare contraddittorio. Tuttavia, mi interrogo spesso sulla effettiva necessità di lasciare traccia del proprio passaggio sulla terra. Per esempio, ho pochissime fotografie che mi ritraggono. Addirittura, io e la mia compagna, in oltre quindici anni di relazione sentimentale, abbiamo due o tre fotografie insieme. E non sappiamo nemmeno dove le abbiamo conservate. Questo perché, in fondo, è meglio guardare avanti, non dare troppo peso a ciò che sta dietro, continuare a proseguire il proprio percorso fino alla fine. E, dopo, chi se ne importa. Chi se ne importa di quello che sono stato, chi se ne importa di quello che ho fatto e ho detto. Il mondo andrà avanti, si sarà nutrito di ciò che gli ho dato, nel bene e nel male, e si nutrirà ora di nuova linfa vitale, prodotta da chi prenderà il mio posto, da chi abiterà nei luoghi in cui ho vissuto, da chi camminerà sui marciapiedi su cui ho passeggiato.

È davvero così importante soffocare la propria esistenza con le memorie delle proprie esperienze? Magari sì, ma perché non pensare anche in modo contrario, quindi riconoscere l’importanza pedagogica dell’oblio totale? Scendere a patti con il nostro scomparire, non rivestendolo di angoscia e tristezza ma osservandolo con la malinconica consapevolezza che così funziona la vita, potrebbe forse rendere meno drammatica la coscienza della nostra mortalità e anche meno sofferente l’esistenza di chi soffre per la nostra perdita.

Sto riflettendo insieme a voi e non voglio dare una certezza oggettiva alle mie parole né fornire un insegnamento particolare. Tuttavia, mi sembra utile riflettere sul tema in un’epoca in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo a produrre memorie in formato digitale. Cosa ne pensate?

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La morte è uno scandalo o un evento naturale? di Davide Sisto

13 Novembre 2017/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

1 Adriaen van Utrecht (1599 - 1652) - Vanitas Still-Life with a Bouquet and a Skull -Due delle principali obiezioni filosofiche mosse alla Death Education, quindi al tentativo di spiegare il ruolo imprescindibile e naturale della morte per lo sviluppo della vita, sono le seguenti: innanzitutto, la morte è uno scandalo, un evento che di per sé è terribile e non ha nulla di naturale. In secondo luogo, ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi è proprio quella coscienza della propria mortalità che lo spinge a non accettarla, utilizzando la propria ragione per tentare di sconfiggerla una volta per tutte.

L’idea della morte come scandalo, quindi come evento o processo innaturale, è strettamente legata alla nostra tradizione cristiana: la morte, infatti, non prevista dal progetto originario di Dio, è la conseguenza prima del peccato originale, quindi di un uso deleterio della libertà da parte dell’uomo. Da qui deriva il carattere negativo e angoscioso del morire, il quale permane a tempo indeterminato nonostante il sacrificio di Cristo renda il morire un passaggio obbligato per la salvezza e la resurrezione. Il carattere scandaloso della morte è, pertanto, dovuto al fatto che essa non è il frutto della volontà divina.

L’idea, invece, che l’uomo si distingua da tutti gli esseri viventi in quanto l’unico a essere cosciente della morte e, dunque, da sempre impegnato a sconfiggerla attraverso le sue attività razionali e spirituali è un retaggio filosofico tipicamente occidentale, figlio tanto della cultura che separa la mente dal corpo quanto della convinzione che la ragione sia una nostra esclusiva prerogativa. Pertanto, consapevoli razionalmente di essere mortali, cerchiamo ogni giorno di non pensarci, svolgendo attività lavorative, culturali, artistiche, ecc. per mezzo delle quali proviamo a renderci – in un modo o nell’altro – immortali.

Queste sono due obiezioni che mi è capitato di ricevere più volte durante convegni o incontri pubblici in cui ho parlato di Death Education. Ora, se, da una parte, non sono convinto che l’uomo disponga di un’esclusiva coscienza della propria mortalità, semmai ogni essere vivente ne ha consapevolezza secondo le sue irripetibili caratteristiche specifiche, dall’altra non credo che lo scandalo cristiano della morte non possa collimare con l’idea della sua naturalità.

Siamo abituati a tener conto del celeberrimo sillogismo in base al quale tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale. La mortalità è, in altre parole, una cifra che definisce – nel qui e ora – non solo la nostra condizione di esistenza, ma la vita stessa nel suo fluire. Qualche giorno fa, Emanuele Severino, durante un convegno, sottolineava una cosa tanto banale quanto fondamentale: se la giornata di ieri non fosse terminata, la giornata di oggi non sarebbe mai iniziata. Tutto quello che facciamo e che siamo segue un percorso preciso, segnato da un inizio, da un suo svolgimento e dalla sua fine. La gioia del primo giorno di vacanza e la malinconia dell’ultimo giorno; l’angoscia nel momento in cui comincia un’operazione chirurgica e il sollievo, anche solo momentaneo, per la sua conclusione. L’emozione per l’inizio della scrittura di un libro e la sensazione agrodolce quando è terminato. Non c’è azione quotidiana che non segua naturalmente questo percorso. E se tale percorso venisse meno? La dilatazione radicale dei ritmi temporali renderebbe la nostra vita simile a un film al rallentatore. Il mutamento perde di significato, il pulsare eccitato delle emozioni si inaridisce lentamente, tutta l’energia che mettiamo in ciò che facciamo, consapevoli del rapporto dialettico tra l’inizio e la fine, si spegne. Non è un caso che, secondo uno psicopatologo come Minkowski, l’idea dell’immortalità terrena si manifesta puntualmente nel delirio melanconico.

Ora, considerare come naturale l’integrazione tra la vita e la morte, evidenziandone il cospicuo valore pedagogico, non necessariamente contraddice lo scandalo cristiano del morire: possiamo, infatti, riconoscere questa integrazione come un dato di fatto, a cui avremmo voluto volentieri fare a meno ma che rappresenta, nel mondo in cui viviamo, il punto di partenza basilare per costruire giorno dopo giorno le nostre attività e per sviluppare il nostro modo di essere. Pertanto, la nostra ragione, il nostro spirito non hanno senso se le utilizziamo come fossimo dei novelli Gilgamesh alla ricerca ossessiva di un antidoto contro la mortalità; piuttosto, diventano prerogative irrinunciabili se messe al servizio della fragilità che ci costituisce, di modo da rendere qualitativamente luminoso lo spazio temporale che si distribuisce tra l’istante dell’inizio e il momento della fine.

E voi cosa ne pensate? Interpretate la morte come scandalo o piuttosto come evento naturale, o come entrambe le cose al contempo? Attendiamo, come sempre, le vostre risposte.

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E’ veramente desiderabile vivere per sempre? di Davide Sisto

17 Ottobre 2016/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

immortality-bus-1Cosa ci fa su un bus a forma di bara (l’Immortality Bus!) un candidato alla Casa Bianca, insieme a un hippie, un robot chiamato Jethro e un giovane ragazzo russo che ha congelato il cervello della madre morta? Va in giro per gli Stati Uniti d’America a promettere, nel caso venga votato, vita eterna per tutti. Sembra una barzelletta, ma è esattamente ciò che è successo quando il giornalista americano transumanista Zoltan Istvan è sceso in campo – senza particolare fortuna – per le elezioni presidenziali post-Obama (se volete approfondire).

Tipiche bizzarrie a stelle e a strisce? Mica tanto. Agognata sin dagli albori dell’umanità, la vita eterna è ritenuta oggi dalla scienza e dalla tecnologia un’eventualità che può essere realizzata. Come dimostrano gli investimenti di milioni di dollari per carpirne i segreti, cinque – per la precisione – quelli investiti nel 2012 dalla Templeton Foundation nel caso dell’Immortality Project del filosofo statunitense John Martin Fischer, e i combattimenti indomiti – a livello internazionale – contro l’invecchiamento, una malattia da sconfiggere farmacologicamente secondo il noto biochimico inglese Aubrey de Grey e il suo progetto SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence).

Prendiamo il caso specifico di De Grey, sostenuto da Calico (California Life Company), una piattaforma di ricerca, creata nel settembre 2013 da Google, il cui amministratore delegato è Arthur Levinson, presidente di Apple Inc., ex amministratore delegato e presidente di Genentech, nonché affiliato a diverse società biotecnologiche e biofarmacologiche. De Grey è convinto che il nostro corpo sia simile a un’auto d’epoca: come questa può rimanere in circolazione a tempo indeterminato, se periodicamente sottoposta a una manutenzione razionale ed equilibrata, che permette di sostituire di volta in volta i pezzi che si sono usurati, così il nostro corpo può non invecchiare mai, se sottoposto costantemente a una invasiva manutenzione farmacologica. La senescenza, infatti, è per De Grey una malattia; noi crediamo sia un fatto naturale della vita solo perché siamo sotto l’effetto di una sorta di “trance pro-invecchiamento”. Elaboriamo, cioè, strategie psicologiche per accettare l’inevitabilità della vecchiaia e della morte, anzi, per farcele piacere razionalmente (che perversi che siamo! NdA). Di questo tema parla, oltre che nei suoi libri, anche in un documentario – The Immortalists – girato nel 2014, che ha avuto un notevole successo internazionale (trailer).

“Siamo nati senza sceglierlo. Dovremmo morire nello stesso modo? La gloria dell’uomo non è rifiutarsi di accettare un destino sicuro?”, afferma risoluto Ross Lockhart nel nuovo romanzo di Don Delillo, Zero K, incentrato sulla preservazione criogenica del corpo malato di sua moglie, fino a che i progressi della medicina non potranno salvarla. Ancora, nel romanzo: “La morte è una creazione culturale, non una rigida determinazione di ciò che è umanamente possibile”. E così via, nel mondo reale, tra chi cerca il libretto d’istruzione del proprio corpo per vivere tutto il tempo che vuole (il transumanista Max More), chi pensa sia solo un problema di contenitore (separo il cervello dal corpo che invecchia e…Tristo Mietitore non mi avrai più! Marvin Minsky docet), eccetera.

Vi dirò: non sento il bisogno di vivere per sempre e, proprio per tale ragione, mi chiedo io per primo perché. In parte, perché ho una visione nostalgica della vita. Non è tanto pessimismo, quanto una personale fatica nei confronti di ciò che è passato e non torna più, dell’accumulo delle occasioni perdute, delle paranoie e delle incertezze, delle scelte radicali dinanzi a un bivio (sentimentale, lavorativo), dell’aggiunta di esperienze quotidiane e di stati d’animo che, gli uni sopra gli altri, mi fanno sì crescere ed evolvere, ma anche perdere progressivamente ogni residuo di innocenza, di immediatezza, di ingenuità. Sento, pertanto, il bisogno di un punto di arrivo, naturalmente molto lontano, se possibile. Ma ci deve essere, per dare un senso e una completezza a ciò che sono stato. Una sorta di pacificazione finale che, si spera, venga assorbita in modo positivo da chi mi è stato vicino o da chi ha avuto il piacere o il dispiacere di incontrarmi per un po’ di tempo.

In parte, perché ha ragione Borges quando critica gli Immortali: “non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario. Ciò che è elegiaco, grave, rituale non vale per gli Immortali”. Perché la vita è definita dalle tante fini che la rendono, nel bene e nel male, speciale, simbolica, colorata. Quando una cosa finisce – un amore o la conquista della donna amata, il concerto della vita, un lavoro su cui si sono investite energia e passione, la scrittura di un libro – si prova una sensazione indescrivibile e unica, che perderebbe il suo significato nel caso quella cosa non avesse mai termine. E questo vale anche per la vita che ciascuno di noi vive. Certo, vale meno per le persone che amiamo e vediamo morire. Vorremmo tenerle sempre con noi fino alla fine. Non lo voglio certo negare. Così come è più che normale il desiderio di vivere – bene – più anni possibile. Oggi, pensare che, fino a pochi secoli fa, si superavano a malapena i quaranta anni di vita sembra mostruoso. Eppure, se ci ragioniamo sopra, ciò che conta è sempre la qualità, più che la quantità. Non credo che siamo migliori o più fortunati solo perché possiamo vivere il doppio degli anni di chi ci ha preceduto nei secoli passati. Credo, semmai, che il migliore e il più fortunato sia colui che vive, nel tempo a disposizione, da persona autentica, vera, con il minor numero possibile di sovrastrutture, riuscendo a soddisfare se stesso e ad appassionarsi a ciò che più ama. E vivere da persona autentica significa anche capire che le cose finiscono e che è proprio la consapevolezza di questa fine la prova più ardua per migliorare costantemente, per crescere e per maturare.

Secondo voi, sbaglio? Vorreste vivere per sempre e non morire mai? Fatemi sapere. Ah, piccola chiusura narcisistica: qui ho discusso proprio di questo tema nella trasmissione Lo stato dell’arte di Rai 5.

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Foto di Patrizia Calcagno

Il compito di essere mortali, di Davide Sisto

15 Settembre 2016/13 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

8kf6mjxnNonostante siano ormai diversi anni che si discute degli effetti negativi della rimozione della morte all’interno della società occidentale e, in particolare, sul rapporto medico-paziente, constatiamo tutti quanti – quotidianamente – le difficoltà spesso insormontabili con cui si scontra il medico quando deve prendersi cura dei malati terminali, deve sostenere le loro molteplici fragilità ed eludere – al tempo stesso – il rischio di considerarli semplicemente problemi clinici da risolvere. A dimostrazione di queste difficoltà è il grande successo editoriale di libri scritti da medici, i quali con l’esperienza clinica acquisita sottolineano quanto la società sia ancora oggi incapace di fare i conti con la morte, di accettare la morte come parte integrante della vita, quindi di riconoscere che non c’è nessuna guerra in corso tra il medico e la morte. Pensiamo, per esempio, al recente bellissimo libro del chirurgo statunitense di origine indiana Atul Gawande, Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo , che ha creato notevole dibattito pubblico.

Le “armi” farmacologiche del medico, la sua “divisa” bianca color latte, le sue “negoziazioni” con il paziente sono strumenti con cui egli mira a fare tutto il possibile e tutto il necessario, non strumenti con cui guerreggiare eroicamente contro un nemico nero armato di falce, che dall’esterno entra nella vita delle persone per distruggerla. Passano gli anni, si disquisisce utopicamente di immortalità e di superamento dell’invecchiamento, ma non si riesce ancora a prendere coscienza che, prima o poi, la vita di ogni singolo individuo è destinata a finire, per quanto ciò ci faccia soffrire e ci sembri ingiusto, e che il medico – proprio per tale ragione – ha possibilità d’intervento limitate.

Non scendere a patti con la morte e non accettarne il ruolo all’interno della vita comportano, tra le tante conseguenze, la solitudine del morente, per citare il celeberrimo libro di Norbert Elias. E questa solitudine è il risultato della somma della negazione della morte con le caratteristiche che ha assunto la vita quotidiana. Noi siamo lì, sempre a correre avanti e indietro, sopraffatti da un lavoro (precario, quando non addirittura assente) che non ha orari né pause, insoddisfatti di noi stessi in quanto non ci sentiamo mai all’altezza delle aspettative altrui (il mito malato della performance), spesso ossessionati dal bisogno di oggetti materiali. Questa corsa furiosa, all’interno di una vita a cui non prestiamo veramente attenzione e che ci pare infinita, non collima con i tempi rallentati di chi, per malattia o per vecchiaia, sta concludendo il proprio percorso. Costui vive in una dimensione ovattata e a parte. Nessuno potrà mai indossare completamente i panni psicofisici di chi sente di essere gravemente malato e quindi di poter morire da un momento all’altro (vi ricordate l’esempio classico di Ivan Il’ic nel romanzo di Tolstoj?), ma non è lecito che il contesto sociale che abbiamo, pian piano, plasmato ultimamente renda il nostro rapporto con lui vuoto e autistico. “Vorrei dedicargli del tempo, ma ho la scadenza da rispettare e il fiato del capo sul collo”, “ma poi che imbarazzo! che cosa gli dico? Faccio finta di niente? Ma non è che se faccio finta di niente non lo rispetto?”, “E perché il medico non fa qualcosa di più? È pagato profumatamente per guarirlo!”

Sia nei casi in cui il benessere economico garantisce un’assistenza sanitaria dignitosa sia in quelli in cui bisogna arrangiarsi con i pochi soldi a disposizione, il morente – il più delle volte separato dalla società in strutture mediche asettiche e prive di calore umano – è sospeso in un limbo dominato dall’imbarazzo, dalla sofferenza, dall’incapacità di affrontare questa situazione. E a ciò si aggiunge il risentimento – anche inconscio – per colui che non è in grado di guarirlo. E, infine, una volta deceduto, ecco il naturale rimpianto perché “in fondo non ho fatto e non ho detto tutto quello che avrei voluto fare e dire”. Il menzionato Gawande, quando descrive la storia dei suoi pazienti, intrappolati tra la negazione della morte e la solitudine sociale, ricorda la vita dei suoi nonni in India, i cui ultimi anni venivano protetti dall’intera famiglia. Si creava una sorta di nido protettivo in cui far sentire il malato a suo agio, circondato dall’affetto e dall’amore dei suoi cari.

Certo, non è per niente facile riuscire a realizzare la stessa situazione, ora, in Occidente. Però dei passi in avanti si possono compiere. Si può proprio cominciare dal significato proprio di “essere mortale”. Si può, cioè, spingere la società nella direzione di un’educazione, guidata da tutti gli specialisti sia nei campi medici sia in quelli umanistici e svolta fin dall’età infantile, a capire che cosa significhi veramente essere mortali. Io sono mortale nel senso che ogni giorno che vivo è prezioso, perché non ne ho a disposizione un numero infinito. Io sono mortale perché la mia vita – che mi piaccia o no – è fatta così; ha un inizio ma anche una fine. Dunque, io per primo devo essere pronto al mio destino. Questo non significa che devo pensare di poter morire in ogni singolo istante. Significa semplicemente che devo vivere sapendo che non mi è dovuta una vita infinita. E questo vale per me e per tutti quelli che mi circondano. Pertanto, devo costruire una società che cooperi affinché io, in quel momento di grande dolore e di grande sofferenza, non sia abbandonato a me stesso. Devo capire, e lo deve fare la società intera, che il medico può e deve fare tutto ciò che è in suo potere, ma senza la pretesa che sia in guerra contro un nemico. Bisogna, in altre parole, ricreare un contesto esistenziale in cui essere mortale sia la base su cui costruire tutti i rapporti, tutti i legami, tutte le relazioni. È veramente così utopico provare a creare una simile società? Secondo me, no. Però ci va consapevolezza, sensibilità, cooperazione. È un argomento su cui si discute da tanto tempo e spesso si ripetono le stesse cose, ma proprio a ripeterle e a sforzarci tutti quanti insieme possiamo forse, un giorno, celebrare una società che sa come evitare la solitudine del morente.

Cosa ne pensate? Non credete anche voi che una maggiore educazione finalizzata a rendere ogni cittadino, non solo il medico, consapevole di essere mortale sarebbe un punto di partenza importante per arginare il triste fenomeno della solitudine del morente? Attendo opinioni e racconti delle vostre esperienze.

 

Foto in copertina di Patrizia Calcagno

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/09/Calcagno_Patrizia_luttoememoria_1-e1473865125891.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-09-15 10:07:152016-09-15 10:51:54Il compito di essere mortali, di Davide Sisto

Felicità e mortalità

28 Ottobre 2013/17 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Avete mai pensato quale incredibile filo rosso lega il tema della felicità a quello della morte?
Se non riuscite a vedere un legame tra le due cose, per prima cosa vi parlo della mia riflessione, e poi della mia esperienza.
Sono convinta che la felicità di ognuno di noi dipenda in buona parte dallo sguardo che abbiamo sulla vita, e su ciò che comporta essere vivi.
Non è il risultato di fatti oggettivi come diventare ricchi o ottenere il lavoro che volevamo. Questi fatti causano emozioni forse forti, e certamente piacevoli, ma non sono in grado di agire stabilmente sulla nostra percezione della felicità.
Invece, se siamo consapevoli di essere mortali, diveniamo capaci di apprezzare di più la vita, di godere del presente, di essere meno vittime del consumismo, di smettere di lamentarci di tutto a ogni piè sospinto, di sentirci quindi più stabili e più sereni. Il pensiero della morte, inoltre, scrive Salvatore Natoli,

«dissolve la boria, il delirio di onnipotenza, cambia il nostro modo di valutare le cose, dissipa la confusione tra ciò che è vano e ciò che è importante.»

Invece, la nostra cultura ha reso anche la felicità una specie di obbligo. Dobbiamo dimostrare di essere capaci di costruire la vita nel migliore dei modi, dobbiamo essere uomini di successo, donne in carriera. Manchiamo di tempo per noi e rincorriamo obiettivi futili, non sappiamo essere felici ma ci sentiamo in dovere di esserlo.

Nella mia vita, la prima volta che sono stata felice (nel senso di emotivamente stabile e capace di assaporare l’attimo) è stato quando ho scoperto di non essere immortale: paradossalmente, proprio quando ho pagato, da giovane, il mio tributo al tumore. Mi sento felice anche oggi, mentre invecchio e sono consapevole che il tempo a mia disposizione diminuisce. Felice perché ora, quel tempo, non scorre solo ineluttabile senza di me, ma riesco più spesso a cavalcarlo, farlo mio, accompagnarlo.
Vi chiedo, come sempre, di aiutarmi a raccontare, a spiegare questo legame tra mortalità e felicità. Oppure, anche di smentirmi. Voi vi sentite felici? E in quali circostanze vi siete sentiti felici?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/10/images.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-10-28 09:08:312013-10-28 09:08:31Felicità e mortalità

Il limite, la morte

13 Dicembre 2012/7 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Scriveva Alexis de Tocqueville nel 1835, La democrazia in America: “Chi mette il proprio cuore nell’esclusiva ricerca dei beni di questo mondo ha sempre fretta, perché non ha che un tempo limitato per trovarli, procurarseli e goderne. Il pensiero della brevità della vita lo pungola senza requie. Indipendentemente dai beni che possiede ne immagina a ogni istante mille altri che la morte gli impedirà di gustare, se non si affretta.”
Vorrei portare l’attenzione sul tema del limite, e di quel limite per antonomasia che è la morte. Ai lettori di questo blog è nota l’osservazione che i nostri contemporanei respingono il pensiero della morte e della stessa mortalità.
Lo fanno, in parte, proprio per non rendersi neppure conto del tempo limitato di cui parla Tocqueville, che renderebbe grottesche tante vite e tanti nostri obiettivi. La cultura occidentale mira al superamento di ogni limite, e considera un valore la dismisura, la crescita illimitata, la corsa cieca verso il futuro, e la trasgressione della norma. Accumulare oltre ogni limite, consumare senza freni, desiderare infinitamente: su questa mancanza di saggezza e senso della misura si fonda il nostro capitalismo avanzato.
Espungere il limite dalla nostra vita significa non potersi prendere alcuna responsabilità. La responsabilità poggia infatti sulla consapevolezza del diritto degli altri a essere, vivere e possedere nella stessa misura in cui noi lo facciamo. L’irresponsabilità ci conduce invece a esaurire le risorse del pianeta, a ignorare interi continenti che diventano sempre più poveri per via della nostra sconfinata ingordigia, e a eleggere governanti altrettanto irresponsabili. La responsabilità è saggezza, i greci dicevano “phronesis”, e questa parola significava consapevolezza del limite, che si contrapponeva alla dismisura, alla violenza, alla “hybris” verso gli uomini e gli dei. Quale senso della responsabilità personale posso avere se rifiuto di considerarmi mortale?
Tornare a riflettere sulla nostra morte può anche aiutarci a ritrovare quel brandello di felicità che sta nell’appagamento dei bisogni (che sono limitati, a differenza dei desideri) e nel godimento anche delle piccole gioie del quotidiano.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/12/imgres.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-12-13 10:24:132012-12-13 10:24:13Il limite, la morte

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