Si può dire morte
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Tag Archivio per: morire

Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

4 Febbraio 2025/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Noi tutti abbiamo, in dosi variabili, paura della morte. Non voglio parlare della tanatofobia, che comporta sintomi paralizzanti e un terrore ossessivo. Vorrei parlare della paura che abbiamo tutti, e che fa capolino quando capita di pensarci. Questa paura ha prima di tutto un ancoraggio biologico. E’ un’area del cervello antica, chiamata amigdala, che condividiamo con gli animali, a rispondere mediante la paura (reagendo con attacco, fuga, o freezing) di fronte alle situazioni che mettono in pericolo la nostra sopravvivenza.

Mentre gli animali, però, si attivano solo in caso di rischio imminente (l’avvistamento del leone per la gazzella), gli uomini sanno che moriranno, e sono quindi perpetuamente divisi tra la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte e il desiderio di vivere eternamente.

La paura nasce da questo scarto incolmabile.

E’ quindi paura di ciò che è massimamente sconosciuto e oscuro? Certamente, la morte è del tutto inconoscibile e impensabile, del tutto opaca per gli uomini, e per questo fonte di ansia e angoscia. Noi nasciamo vivi, e la vita è tutto quello che sappiamo, con cui abbiamo familiarità.Ma l’ignoto non è l’unica ragione del timore.

Oltre ad avere paura della morte, noi paventiamo il processo del morire, ossia le circostanze che possono condurci alla morte. Sovente temiamo di soffrire, e abbiamo in mente alcune immagini del fine vita che hanno fatto parte della nostra esperienza, e che ci inquietano in modo particolare. Da quando ho assistito mia suocera malata di Alzheimer, ad esempio, quello è diventato per me il più disturbante dei pensieri: l’involuzione, la totale perdita del controllo, il fatto di diventare un corpo ignaro di tutto, gettato nel mondo. Mi fa molto meno paura morire di cancro, perché so che potrò contare sull’assistenza e sul sostegno delle cure palliative. Ma non è così per tutti.

Proprio perché specifica e soggettiva, questa paura è diversa da un individuo all’altro, e può differire anche a seconda del momento della vita. Inoltre, visto che esistono molti tipi di apprensione che possono essere inclusi nell’idea generale della “paura della morte”, quest’ultima potrebbe essere descritta, in realtà, come una paura della vita.  Il morire fa infatti parte della vita, al contrario della morte, che la delimita e la conclude, e per questo resta estranea alla vita.

Di fronte all’ignoto, infatti, noi usiamo immagini per riempire le lacune concettuali, l’impossibilità di conoscere, il mistero. E queste immagini sono modellate dalla cultura e dalla storia: se abbiamo vissuto un conflitto o viviamo in contesto di guerra, possiamo avere il terrore della distruzione che quest’ultima comporta; oppure, se siamo anziani, possiamo temere maggiormente l’infermità e la vulnerabilità di malattie legate all’invecchiamento, e così via. Per concludere, ciò che chiamiamo “paura della morte” potrebbe essere una paura mortale di certi aspetti dell’esperienza umana, o addirittura della vita in generale.

Lo psicoanalista Irving Yalom, nel suo libro Fissando il sole, narrava alcuni casi clinici in cui la paura della morte, durante il percorso analitico, si era rivelata essere piuttosto sintomo di una difficoltà rispetto ad alcuni particolari vissuti. Una storia che mi è rimasta impressa riguarda una terapista britannica, Julia, che dopo la morte di un’amica era diventata ipocondriaca e terrorizzata dalla morte al punto da smettere di fare tutto ciò (sport, e perfino guidare l’auto) che la esponesse a un rischio anche molto piccolo. Durante un viaggio in California chiese aiuto a Yalom, il quale le rivolse una domanda che faceva spesso ai suoi pazienti: “Di quale aspetto particolare della morte ha paura?”. Julia rispose: “Tutte le cose che non ho fatto”. Da quel momento l’analisi prese un’altra via, e permise a Julia di comprendere che aveva impedito a se stessa, per il timore di non essere all’altezza, di realizzare o almeno di misurarsi con le sue ambizioni artistiche. La paura della morte, occultata dal dolore per la perdita dell’amica, nascondeva a sua volta una vita insoddisfacente da cui Julia non riusciva ad affrancarsi. L’identificazione della paura più autentica e profonda permise a Julia di mettersi alla prova, e l’angoscia di morte diminuì.

Voi avete mai riflettuto sulla vostra paura della morte? Di cosa avete soprattutto paura? La vostra paura si collega con le vostre esperienze di vita? L’idea delle cure palliative vi conforta?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/paura-della-morte-1-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-04 10:24:362025-02-04 10:24:36Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

Di cosa parliamo quando parliamo di morte? di Marina Sozzi

4 Novembre 2024/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando parliamo di morte, è evidente che non ci riferiamo all’istante dell’exitus, al momento del decesso: di questo evento puntuale, del quale nessun essere umano vivente ha esperienza, nulla sappiamo e nulla possiamo dire.

Vladimir Jankélévitch, interessante filosofo esistenzialista del Novecento, scriveva che è impossibile pensare la morte, intesa in quel senso, e che «il pensiero del nulla è un nulla del pensiero». Così tutti quei monaci, santi e gentiluomini che meditavano guardando un teschio, nei quadri medievali e rinascimentali, non stanno in realtà pensando a niente:

«…in questo concetto di una nichilizzazione totale, non troviamo niente a cui afferrarci, nessuna presa a cui la comprensione possa aggrapparsi. Il pensiero del niente è un niente di pensiero, poiché il nulla dell’oggetto annichila il soggetto: non si pensa un niente, non più di quanto si veda un’assenza, così che pensare il niente è non pensare a niente, dunque è non pensare» (V. Jankélévitch, La morte, p. 39)

Cosa abbiamo quindi in mente quando condividiamo il pensiero che sia importante e utile ragionare sulla morte e confrontarci?

I nostri discorsi vertono principalmente su tre temi: 1) la paura della morte, cioè il pensiero più o meno ricorrente e più o meno angosciante della propria fine o della mortalità delle persone che ci sono care; 2) il morire, ossia il processo di avvicinamento alla propria morte, a seguito di una prognosi infausta, e 3) il lutto, in altre parole ciò che accade a chi resta. Poi, certamente, possiamo riflettere sui riti, o sulla conservazione e tutela della memoria di chi ha lasciato la vita.

Quando parliamo di morte, quindi, paradossalmente, parliamo di vita. L’ultimo tratto di strada delle persone è vita, anzi spesso, come ci insegna chi opera in cure palliative, una vita intensa e preziosa. E vita è quella di chi ha subìto una perdita, di chi ricorda, di chi celebra, di chi teme, di chi prova ansia o angoscia.

Parliamo, più in generale, non della ma intorno alla morte. Ciò che è interessante, in altre parole, è il nostro modo di affrontare il morire e la perdita, individualmente, culturalmente e socialmente. Per comprenderlo occorre esaminare il “sistema della morte” che opera nel nostro contesto, che permette a tutti noi di sapere come comportarci quando incontriamo l’evento più temuto, tenendo conto che ogni sistema della morte è intrecciato con la dimensione sociale, politica ed economica di un paese.

Ciò che è interessante, in sintesi, è come ci prendiamo cura dei morenti, se sappiamo accompagnarli e sostenerli, se riusciamo a rendere tollerabile il morire; come consideriamo e trattiamo gli anziani; come supportiamo chi cura, i caregiver formali e informali; come riusciamo a prevenire il suicidio; come ci prendiamo cura dei lutti faticosi e difficili, come manteniamo la memoria e commemoriamo i nostri morti.

Ma per capire il nostro «sistema della morte», occorre restare aperti a ciò che di nuovo è emerso negli ultimi decenni: la crescita delle cure palliative, innanzitutto. La dimensione online dell’elaborazione del lutto. Le nuove forme di socializzazione della morte, meno legate a protocolli rituali e più personali e intime, gestite insieme alle persone che ci sono affini e vicine. Occorre anche tenere presenti le differenze tra nord e sud, tra città e provincia, abbandonando le perniciose generalizzazioni che ci portano ad affermare che «la società occidentale nega la morte».

Per capire il nostro specifico modo di confrontarci con il morire e con la perdita, dobbiamo smettere di lanciare anatemi, sussumendo tutto quanto è diverso dal passato sotto il cappello della negazione, del tabù, o della rimozione della morte.

Occorre ripartire senza più usare il concetto prêt-à-porter del tabù, per comprendere più profondamente, e senza pregiudizi, ciò che ci circonda: senza trionfalismi, perché ogni «sistema della morte» è modificabile e migliorabile; ma anche con la consapevolezza che la morte è ardua da affrontare, e tutte le società, del presente e del passato, in qualche misura hanno sempre negato e negano la morte, pur dovendola anche in parte accettare, come dato di fatto incancellabile. Nulla di nuovo dal fronte occidentale.

Mi stanno molto a cuore le vostre riflessioni, e aspetto come sempre i vostri commenti.

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La morte è un evento naturale? di Marina Sozzi

10 Settembre 2024/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando in cure palliative diciamo che la morte è un evento naturale, che fa parte della vita, che cosa stiamo dicendo? Le parole, ci insegnano i linguisti, sono importanti.

Esiste la morte “naturale”? Per fortuna, verrebbe da dire, no. Già Leopardi scriveva che la natura è “matrigna”. Oggi, anche grazie alle cure palliative, abbiamo strumenti per alleviare i sintomi che si presentano nel processo del morire, e stiamo cercando di affinarli sempre più.

Ma da dove nasce questa idea positivamente connotata della “morte naturale”?

Jean Baudrillard tuonava nel 1976 nel suo Lo scambio simbolico e la morte contro l’idea della morte naturale, che altro non era secondo lui che la definizione della morte data dalla scienza trionfante e dominante, che la interpretava come evento biologico. Dietro l’idea della morte naturale c’era secondo lui la negazione della morte, ossia il controllo della morte da parte della medicina.

L’ideale della morte naturale coinciderebbe quindi con quello di una morte “normale”, che arriva al termine della vita, dopo che ciascuno ha consumato il suo “capitale biologico”. Ciò significava per Baudrillard che ognuno ha il diritto, ma anche il dovere, di avere una morte naturale (quindi di evitare i fattori che possono abbreviare la vita): ossia ciascuno, al fine di massimizzare il rendimento delle forze produttive, non è più libero se non di vivere il più a lungo possibile, sotto sorveglianza medica.

Al di là dell’estremismo del pensiero di Baudrillard, è vero che la morte è oggi pensata come naturale quando è sufficientemente buona e giunge dopo una lunga vita spesa bene. E’ vero anche che la morte è considerata naturale nel senso di una natura addomesticata dalla scienza medica. In fondo le cure palliative, seppur con tutta la carica critica e rivoluzionaria (soprattutto dei pionieri) derivano da lì, dalla medicina, e l’idea della morte naturale l’abbiamo ereditata. Ma nella prassi delle cure palliative sappiamo bene che la morte non è un evento biologico.

Forse dovremmo allora abbandonare questa idea, della morte naturale, per sostituirla con qualcosa che meglio si confaccia all’esperienza delle cure palliative. La morte è un evento culturale oltre che naturale: così si renderebbe ragione della complessità del processo del morire, e della multidimensionalità dell’intervento palliativo: fisico, psicologico, sociale e spirituale.

Inoltre, possiamo dire che la morte faccia parte della vita? No, la morte (intesa come momento del decesso) interrompe la vita ed è estrinseca rispetto ad essa. Potremmo dire che la morte, limitando la vita, la definisca, la concluda e ne faccia emergere il senso. Ma ciò accade a posteriori, come affermava il filosofo francese Vladimir Jankélévitch.

Ciò che fa parte della vita (perché si è vivi finché non si è morti) è il processo del morire, l’avvicinarsi della morte.

Le parole sono importanti, perché sono spie della nostra mentalità, dei nostri convincimenti più profondi. Dovremmo forse modificarle e accordarle con la cultura e la prassi delle cure palliative.

Che ne pensate?

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La dimensione sociale del morire: l’esempio virtuoso del Kerala, India, di Marina Sozzi

2 Agosto 2024/14 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Qualche mese fa abbiamo parlato di Compassionate Cities, ossia del tentativo, messo in atto da alcune istituzioni di cure palliative, e da alcune amministrazioni locali nel mondo, di far diventare la malattia, la morte e il lutto delle persone problemi condivisi nelle comunità.

Poiché nel nostro contesto ciò sembra piuttosto utopico, mi sembra utile raccontare l’esperienza che è stata fatta negli ultimi trent’anni nello Stato del Kerala, nel sud dell’India, che ha una popolazione di circa 35 milioni di persone. Si tratta di un’esperienza narrata come esempio virtuoso dal documento della Lancet Commission del 2022, intitolato The Value of Death, di cui si è già parlato in questo blog.

Il documento sostiene che in ogni paese, in ogni realtà, sia identificabile un “sistema della morte” (death system): ossia un insieme interconnesso di fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici che determinano il modo in cui la morte, il morire e il lutto vengono compresi, sperimentati e gestiti. La maggior parte dei sistemi presenta dei problemi, se pensiamo che nel primo mondo vi è ancora, talvolta, una iper-medicalizzazione della morte, mentre nei paesi poveri mancano i farmaci necessari per curare molte malattie che altrove vengono sconfitte, e per togliere il dolore. Occorre quindi, per ogni realtà, comprendere approfonditamente le difficoltà e gli errori, per introdurre i correttivi che possano migliorare il sistema. L’approccio che adottiamo, qualora si vogliano migliorare le cose, non deve essere riduzionista, né limitarsi a delegare alla medicina il problema del morire, al fine di non eludere la complessità di ogni sistema della morte.

Ora torniamo al Kerala, per capire in che modo sono stati realizzati i mutamenti che hanno rivoluzionato il sistema dello Stato indiano.

Tutto cominciò nel 1993, quando, ad opera di due medici e un volontario, fu costituito un ambulatorio di cure palliative. Si trattò di un investimento notevole, che vide la collaborazione di molti donatori locali: ben presto, però, fu chiaro che i malati gravi non potevano spostarsi per raggiungere l’ambulatorio, e che anche per i familiari era difficile perdere un giorno di lavoro per recarvisi. Ci si rese conto che i complessi bisogni fisici, sociali, emotivi e spirituali dalle persone gravemente malate non potevano essere soddisfatti da un servizio clinico distante, e poco per volta si cominciò così a spostarsi per raggiungere i pazienti nelle loro case (facendo ciò che noi definiamo un “servizio domiciliare”).

Ma il grande cambiamento avvenne intorno al 2000, quando la realtà locale rese evidente la necessità di adottare un nuovo paradigma, che si facesse carico delle fragilità sociali delle persone malate. La malattia in fase avanzata e il morire sono problemi sociali con un aspetto medico, e non eventi medici con un versante sociale: una rivoluzione copernicana rispetto alla visione biomedica della cura.

A partire da questa nuova convinzione, si è cominciato a coinvolgere le comunità locali, attraverso le loro molteplici reti: le organizzazioni religiose, le aziende del territorio, gli attivisti, gli insegnanti, i contadini. Sono state create associazioni di volontari accuratamente formati, e sono stati raccolti i fondi necessari per far partire il progetto. Nel 2007 c’erano quasi cento centri in tutto il Kerala capaci di dare sostegno a chi affrontava la morte, con una rete di migliaia di volontari. Questo modello sociale di assistenza ha trasformato il modo in cui le persone vivono e muoiono. Le persone affette da malattie incurabili hanno avuto volontari che andavano a visitarli a casa, sostenevano i loro cari, raccoglievano fondi per consentire ai bambini di andare a scuola e fare in modo che ci fosse il cibo necessario per la famiglia, e si adoperavano inoltre per trovare un lavoro alle persone a cui la morte aveva sottratto il congiunto che era l’unico sostegno economico dell’intero gruppo familiare. L’assistenza medica e infermieristica è stata fornita gratuitamente e, con il cambiamento di mentalità, è stato possibile dire parole oneste sulla diagnosi e sulla prognosi. I volontari sono stati fondamentali anche perché hanno portato alle comunità informazioni sanitarie preziose, ad esempio spiegando quanto fumare o masticare la noce di betel sia nocivo per la salute; sfidando talvolta i pregiudizi diffusi, come l’idea che il cancro sia contagioso. Sono stati inoltre particolarmente efficaci nel combattere lo stigma nei confronti delle persone affette da HIV e AIDS.

Poco per volta, le politiche pubbliche e le istituzioni si sono alleate (non senza contrasti e problemi) con la rete di volontariato, creando una politica statale capace di garantire le cure palliative e la disponibilità dei farmaci oppiacei.

Il risultato è che oggi oltre 1600 istituzioni forniscono servizi di cure palliative in tutto il Kerala; si stima che i servizi di cure palliative siano disponibili in ogni distretto del Kerala e che raggiungano circa il 70% di coloro che ne hanno bisogno, diversamente dalla media nazionale indiana, che è del 23%.

Ora, cosa possiamo dedurre da questa esperienza? In parte è sovrapponibile a quella italiana: nel nostro paese negli anni Ottanta è stato soprattutto il Terzo Settore (e il volontariato) a far partire i servizi di cure palliative, diffondendone anche la cultura e la filosofia. E solo successivamente sono giunte le leggi, quella sugli hospice del 1999, e quella di istituzione delle cure palliative del 2010.

Tuttavia, finora le cure palliative non si sono impegnate, nel nostro paese, a coinvolgere le comunità.

Eppure, in alcune realtà si è compreso che le famiglie che accompagnano un congiunto durante l’ultimo tratto della vita hanno problemi che sono di carattere sociale, oltre che medico. Così è nato, ad esempio, il Progetto di Protezione delle Famiglie Fragili (dapprima a Torino, in Fondazione Faro, poi esteso a tutto il Piemonte), che si occupa di sostenere le fragilità di carattere sociale che la malattia scoperchia o aggrava, con uno sguardo particolarmente attento rivolto ai bambini.

Questo progetto sembra un terreno fecondo per allargare ulteriormente lo sguardo, rivolgendolo alle comunità, intensificando la vigilanza sulle fragilità, e formando volontari in tutti gli ambiti della vita sociale, capaci di interagire con i malati e i loro familiari e amici.

Il modello del Kerala, peraltro, è riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come Collaborating Centre for Community Participation in Palliative Care and Long Term Care. Utopia concreta, come la definiscono gli estensori del documento The Value of Death.

 

Cosa ne pensate? Credete che l’esperienza del Kerala sia esportabile? Troveremmo anche noi così tanti volontari disposti ad occuparsi dei morenti e dei dolenti? Potremmo modificare il nostro “sistema della morte” in un senso più sociale?

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Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

22 Ottobre 2023/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Nell’ultimo fine settimana di settembre si è svolta la rassegna annuale Torino Spiritualità, che quest’anno era intitolata Agli assenti. Della morte ovvero della vita. Oltre a questa, diverse altre manifestazioni culturali importanti in tutta Italia hanno scelto di soffermarsi su questo tema ed è crescente l’importanza dei festival specificamente incentrati sul fine vita (ad esempio in questo momento si sta svolgendo Il rumore del lutto a Parma, che esiste da 17 anni e che ha fatto scuola, ma ricordiamo anche nuove iniziative: Mortali. Vivere nonostante a Trento, o il festival culturale di Vidas, a Milano, appena concluso, o ancora Da Vivi, Il miracolo della finitezza, del Teatro Metastasio a Prato, e altri ancora): dopo decadi di impronunciabilità, sembra che nel periodo post pandemico il tema del fine vita stia riguadagnando terreno.

Quali riflessioni possiamo trarre dal successo di queste e altre iniziative? Siamo forse di fronte a un ritorno della morte nello spazio pubblico? È presto per dirlo. Tuttavia, rispetto a vent’anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi questo ambito, le differenze sono molto significative. Allora gli eventi richiamavano con fatica poche persone e, se si avanzava la proposta di organizzare qualcosa di un po’ più ampio, da tutte le parti arrivavano richiami alla cautela. Sono innumerevoli le occasioni in cui ci siamo sentiti rispondere: “C’è la parola morte nel titolo? Meglio di no! Potrebbe spaventare il pubblico”. Oggi, al contrario, sembra che il clima sociale stia lentamente mutando e che, più che in passato, si percepisca un bisogno sociale di confronto, condivisione e dialogo. Questo stesso blog, Si può dire morte, sembra cominci a vincere la sua scommessa.

Il Death café organizzato in occasione dell’inaugurazione di Torino Spiritualità e il laboratorio “Le assenze, gli assenti”, che ho avuto la possibilità  di co-condurre insieme alla psicoterapeuta e psicodrammatista Caterina di Chio, rappresentano per me due punti di osservazione privilegiata per cominciare ad abbozzare qualche ipotesi sul perché le persone, oggi, scelgono di prendere parte attiva ai momenti pubblici di riflessione sui grandi quesiti esistenziali sollevati dalla morte.

Al Death café inaugurale hanno partecipato circa seicento persone che, in gruppi da dieci e guidati da conduttori esperti, hanno riflettuto sulla domanda «In che senso la morte può far parte della vita?». Fra i presenti c’erano medici, infermieri, psicologi, operatori funebri e altri professionisti che a vario titolo si confrontano con il fine vita, ma soprattutto c’erano i cittadini, che si sono messi in gioco a partire dalle proprie riflessioni e vissuti personali (cfr. il report dell’evento a cura di Marina Sozzi). Il laboratorio, invece, era rivolto a un piccolo gruppo e utilizzava metodologie attive, con lo scopo di esplorare i molti modi in cui chi ci ha lasciato continua ad abitare dentro di noi. In entrambe le occasioni i contenuti sono stati ricchi e profondamente umani, ma in questa sede mi interessa evidenziare che, al termine, molti dei partecipanti hanno sottolineato – in alcuni casi con un pizzico di sorpresa – quanto fosse stato importante e significativo vivere un momento in cui era stato possibile parlare della morte in modo aperto, in un clima di condivisione e reciprocità.

L’incontro autentico e paritario fra persone ha offerto un momento comunicativo e relazionale diverso rispetto a quelli che normalmente sperimentiamo nei nostri contesti di vita.

Il rinnovato interesse a parlare della morte, cui stiamo assistendo, infatti, non vuol dire che questo tema sia ormai familiare a tutti, o che il “tabù”, di cui abbiamo più volte parlato, sia tramontato. Parlare della morte, del morire e del lutto rimane molto difficile, in particolare nelle situazioni che ci coinvolgono in modo diretto e personale.

Un recente progetto di ricerca di interesse nazionale, i cui risultati sono stati presentati nel volume Morire all’italiana (2022, a cura di Asher Colombo), ci restituisce l’immagine di una società eterogenea, con modalità di rapportarsi con la fine della vita non facilmente schematizzabili. Tuttavia, in molti ambiti gli autori hanno notato che persiste una diffusa difficoltà nell’accettare la morte e nell’accompagnare i morenti. Emerge inoltre la tendenza a relegare l’esperienza del lutto in una dimensione privata e intima, che lascia poco spazio alla sfera collettiva. Ciò conferma un più generale processo di mutamento storico: da una gestione prevalentemente familiare e comunitaria della morte, siamo passati nel secondo Novecento a una modalità fortemente individualizzata (e per molti versi individualistica) di approcciare le ultime fasi.

Questa progressiva individualizzazione si esprime in diversi modi, con risvolti positivi e negativi. Si pensi, per esempio, all’importanza che ha assunto il concetto di autodeterminazione per quanto riguarda le scelte di fine vita. L’individualizzazione, inoltre, si manifesta anche sul piano delle credenze e dei riti: la secolarizzazione, più che eliminare il bisogno di spiritualità, ha favorito l’affermarsi di forme nuove e personalizzate di vivere il rapporto con l’aldilà, con il sacro e con i defunti. A questo proposito, l’indebolirsi delle forme tradizionali di gestione della morte e del lutto da un lato solleva dal peso (a volte gravoso) dei “doveri sociali”; ma dall’altro può generare un senso di incomunicabilità e di solitudine.

Il nostro rapporto con la morte oggi, in sintesi, si sviluppa in uno scenario caratterizzato dalla frammentazione e dalla complessità.

In quest’ottica, il rinnovato interesse per il fine vita fa tornare alla mente le riflessioni proposte più di vent’anni fa dal sociologo britannico Tony Walter nel suo noto volume The Revival of Death. Secondo Walter il  bisogno di parlare della morte, del morire e del lutto, che egli riscontrava già allora (forse perché il suo sguardo partiva dalla realtà anglosassone), deriva non tanto dal desiderio di rompere il tabù della morte (un concetto su cui questo autore è critico), ma dalla necessità di trovare risposte di fronte alle nuove sfide e incertezze generate dal mondo contemporaneo e dal rapido mutamento delle pratiche sociali.

A queste considerazioni, a mio avviso, si aggiungono le ricadute del periodo pandemico, durante il quale la possibilità di accompagnare i malati e i morenti, di essere presenti fisicamente nelle ultime fasi, di dire addio e di ritualizzare la morte è stata fortemente limitata. Ciò, da un lato, ha acuito il senso di isolamento di chi ha subito delle perdite; dall’altro, per contrasto, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza, e del valore, dei momenti collettivi di condivisione, rito e memoria.

Il dialogo e il confronto sono risorse che non solo aiutano a lenire la solitudine connessa alla sofferenza, ma consentono anche di ripensare e di rielaborare i quesiti esistenziali con cui tutti ci confrontiamo di fronte alla fine, tanto sul piano professionale, quanto sul piano personale. Essi, inoltre, sono potenti strumenti per riflettere sui dubbi e le incertezze della contemporaneità. Se non c’è una narrazione univoca a cui possiamo aggrapparci, o convenzioni sociali che – per quanto limitanti – ci dicano cosa è giusto dire o fare, come facciamo a sapere se siamo sulla buona strada nel percorso di lutto? Chi ci assicura (e rassicura) sul fatto che le emozioni difficili che intimamente proviamo siano normali e non il segnale di qualche anomalia? In mancanza di linguaggi sociali consolidati per gestire la morte, la condivisione a livello comunitario o di gruppo ha una funzione non solo espressiva (di per sé importantissima), ma anche rielaborativa, nella misura in cui permette di chiarire, di riorganizzare e conferire significato a pensieri, esperienze ed emozioni di cui non è semplice parlare in altri contesti.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in merito? Avete seguito uno di questi festival?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/10/ToSp23-1-e1697992107101.jpg 265 352 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-10-22 18:34:352023-10-23 18:36:31Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas

Morire altrove, di Cristina Vargas

15 Marzo 2023/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Che cosa succede quando la malattia terminale coglie la persona in un luogo lontano dal proprio paese di origine? Quali pensieri, sofferenze e sfide si aggiungono alla complessità delle ultime fasi, quando queste si devono affrontare in un “altrove”, dove non si hanno radici profonde? Questo tema di riflessione mi ha accompagnata lungo tutto il mio percorso professionale e, in quanto straniera radicata in Italia da molti anni, mi risuona in modo profondo a livello personale.

Affrontare la malattia grave o terminale, la morte e il lutto in un paese lontano dal proprio pone infatti difficoltà specifiche, che si collegano alla storia migratoria della persona e al modo in cui si articolano le sue appartenenze e i suoi legami affettivi. La migrazione, soprattutto quando comporta un cambiamento significativo a livello culturale, non è solo un evento biografico, è innanzitutto un’esperienza esistenziale che comporta una brusca discontinuità nella storia di vita. Essa, infatti, è un processo che inizia prima del viaggio e non si conclude con l’approdo nella nuova destinazione, ma si snoda in un lungo arco temporale.

Che si emigri per scelta o per necessità, cambiare nazione comporta una trasformazione identitaria che investe ogni aspetto del sé. Chi emigra in un luogo lontano vive nelle prime fasi un senso spaesamento radicale: cambiano la lingua, i paesaggi, i cibi, e il clima; le abitudini e la normalità vengono stravolte e molte certezze crollano. Col passare del tempo questo senso di estraneità si attenua, ma sovente permane un sottofondo nostalgia, che si alterna ad aspettative, speranze e progetti nel nuovo ambiente.

La soggettività del migrante si struttura intorno al bisogno di trovare un bilanciamento fra vecchi e nuovi radicamenti, fra referenti simbolici ed esperienziali che devono trovare un equilibrio.  Nell’incontro, sovente faticoso, con il nuovo ambiente di vita le reti relazionali e affettive si ridefiniscono, al pari dei ruoli familiari, sociali e lavorativi. Gradualmente, in modi diversi e molto soggettivi, l’identità e il senso di appartenenza vengono ripensati e ridefiniti per far nascere un nuovo equilibrio vitale.

Dove vorrei trascorrere gli ultimi mesi della vita? Dove vorrei che il mio corpo fosse seppellito quando arriverà il momento? Quale sarà il mio luogo finale? Queste domande testimoniano un movimento interiore che va nella direzione di una ridefinizione finale delle proprie appartenenze e i propri radicamenti. La domanda di fondo, che può essere espressa in molti modi e che vale sia per chi è straniero, sia per chi è italiano, è “qual è, in fin dei conti, casa mia?”.

In alcune culture la scelta del luogo ultimo ha una valenza simbolica di «localizzazione» delle proprie radici e della propria memoria e, in quanto tale, è una scelta che ha un’elevata portata esistenziale ed è intimamente connessa con la storia di vita.
Accanto al nodo dell’appartenenza, possono esserci motivazioni molto pragmatiche (“meglio tornare ora, perché il rimpatrio della salma da morto costa troppo”), religiosi (la mia religione lo prescrive) o relazionali (vorrei essere sepolto vicino ai padri o ai figli).

In alcuni casi il ritorno in patria può essere desiderato, ma precluso dalle circostanze. È il caso dei rifugiati e dei profughi, che non hanno la possibilità di scegliere di tornare, ma anche di chi ha vissuto percorsi migratori di lunga data, in cui le radici si sono perse e il tempo e la distanza hanno creato nuovi radicamenti.
In altri può essere possibile, ma la scelta è non di meno costellata da interrogativi, dubbi e timori.

Il confronto con il luogo d’origine può essere faticoso, soprattutto se si tratta di una migrazione di lunga data, in cui il tempo e la distanza hanno scavato un solco profondo fra il «paese ricordato», che non esiste se non nella memoria, e il «paese reale» con le sue problematiche e i suoi lati negativi. Penso al caso di un paziente rumeno seguito in cure palliative domiciliari, che aveva chiesto di tornare in patria e aveva chiesto l’aiuto dell’équipe. Gli operatori si erano adoperati per facilitare questo trasferimento, facendo di tuto, compreso portare il paziente all’aeroporto e imbarcarlo sull’aereo. Dopo poco, tuttavia, il paziente ritorna dicendo “No. Io a casa non ci voglio più stare”.

L’apertura rispetto alla possibilità che il paziente trascorra all’estero le ultime fasi della malattia non è uguale in tutti i contesti di cura. Ci sono contesti in cui prevale un focus sulla patologia anche in presenza di una prognosi infausta, si tende a ritenere l’idea di tornare in patria un rischio, e a non sostenere la persona, che è costretta a organizzarsi contro il parere dei curanti.

Per contro, nell’ambito delle cure palliative e, più in generale, nei contesti in cui c’è un orientamento che pone al centro la persona, è invece possibile dare al tema del ritorno in patria la giusta attenzione, nell’ottica di avviare un dialogo con il paziente e con la sua famiglia – vicina e lontana –  sulle implicazioni e le modalità di un eventuale ritorno nel paese di origine.

Avete mai riflettuto su questo tema? vi tocca da vicino? Cosa ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/03/iStock-506135132-e1678877702215.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-03-15 11:56:312023-03-15 11:56:31Morire altrove, di Cristina Vargas

Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

25 Aprile 2022/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/04/coronavirus-conseguenze-psicologiche-e1650709432692.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-04-25 10:35:392022-04-25 10:35:40Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

Il virus e la morte rimossa? di Davide Sisto

15 Marzo 2021/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Martedì 9 marzo Alessandro Baricco, sul Il Post, firma un pezzo giornalistico intitolato Mai più, prima puntata, in cui riprende e sviluppa un concetto molto in voga tra gli intellettuali, almeno in questo periodo segnato dalla pandemia mondiale da Covid-19: “rinunciamo a vivere per non morire”. Baricco si sofferma lungamente sugli effetti provocati dal lockdown e da tutte le limitazioni statali imposte alle attività sociali e lavorative quotidiane, che svolgevamo più o meno serenamente prima della fine del febbraio 2020. “E di questa altra morte quando parliamo? La morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire”.

Simili sono le parole espresse dal noto filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, nel libro Una società senza dolore (Einaudi 2021), nel quale si sostiene che la nostra sia una società algofobica poiché si cerca in tutti i modi di anestetizzare ed evitare il dolore e la sofferenza. Han dice che “ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico”; pertanto, la medicalizzazione e la farmacologizzazione del dolore gli toglie la possibilità di farsi linguaggio e di manifestare il suo benevolo valore simbolico. Quando affronta il tema del Covid-19, il pensatore sudcoreano riconosce un nesso tra l’algofobia e la tanatofobia: “oggi la sopravvivenza assume un valore assoluto, come se fossimo costantemente in guerra”. Addirittura, Han riconduce all’ossessione della sopravvivenza, dunque alla fobia nei confronti della morte, la rigorosità del divieto di fumare e rimane stupito dal fatto che anche i sacerdoti adottino il distanziamento sociale e indossino la mascherina.

Come dicevo, sono piuttosto ricorrenti in questo periodo le riflessioni che stabiliscono una specie di correlazione tra il non rischiare di morire a causa del Covid e la rinuncia a vivere, interpretando tale correlazione come effetto primo della rimozione sociale e culturale della morte.

Queste riflessioni risultano essere improprie, a mio avviso, sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto, non è un unicum nella storia dell’umanità il comportamento adottato dalle istituzioni politiche nei confronti di una pandemia: basta leggere il bel libro di Frank M. Snowden Storia delle epidemie. Dalla morte nera al Covid 19 (LEG 2020) oppure le analisi più stringate, ma non meno efficaci da un punto di vista storico, di Marzio Barbagli nel libro Alla fine della vita (Il Mulino 2017), nonché – ancora – le interpretazioni date ai comportamenti nei confronti delle epidemie dal filosofo Elias Canetti in Massa e potere. Se ci si vuole addentrare nella dimensione più letteraria, i classici di Camus e Defoe sulla peste delineano un quadro sociale, politico e culturale in cui possiamo – a grandi linee – riconoscerci, pur tenendo conto delle ovvie differenze tra le epoche storiche. È, in fondo, elementare: se i nostri corpi rischiano di contagiarsi stando a contatto, la prima e necessaria soluzione razionale è quella di eliminare il contatto fisico per limitare il numero di decessi.

In secondo luogo, credere che vi sia una correlazione tra la cosiddetta “ossessione” per la sopravvivenza e il non vivere è esattamente l’effetto primo e tangibile della decennale rimozione della morte. Riconoscere la propria intrinseca finitezza e non dimenticare che vita e morte sono strettamente legate l’una all’altra, per cui l’una non può essere definita senza il riferimento all’altra, non significa in alcun modo vivere in maniera irresponsabile e mettendo a rischio la salute propria e delle altre persone. Su questo punto ho scritto nel blog già diverse volte, ma – leggendo determinate riflessioni – capisco che è necessario ritornarci ancora.

Attualmente sto guardando su Netflix la mitica serie televisiva Vikings, che rielabora – in sei lunghe stagioni – le eroiche vicende di Ragnarr Loðbrók, leggendario re norreno vissuto nella seconda metà del IX secolo. Il leitmotiv costante delle rappresentazioni belliche dei norreni, intenti a lanciarsi in imprese titaniche di conquista territoriale, è la non paura della morte. Anzi, la morte, decisa dagli dei, risulta essere una specie di fissazione: morire senza paura significa entrare gloriosamente nel Valhalla. Odino stabilisce che ogni uomo potrà godere del bottino accumulato in vita dopo la morte. Sentiamo di continuo simili frasi: “Non temete la morte. Se arriva abbracciatela come se fosse una bellissima donna” (Ragnar). Ecbert, re del Wessex e di Mercia, si rivolge a Ragnar nel modo seguente: “Tu non te ne fai una ragione. Non pensi che alla morte. Tu non pensi che al Valhalla”.

Ora, chi crede che stiamo rinunciando a vivere per non morire potrebbe lanciarsi in una delle imprese belliche dei norreni. Quindi, uscire di casa e abbracciare e toccare più corpi possibili per preservare il sacrosanto diritto a vivere, garantendosi il suo Valhalla (e garantendolo anche a coloro che non hanno un Valhalla di riferimento).

Al di fuori della battuta, occorre capire che la coscienza di non essere immortali e il riconoscimento di un proprio destino mortale inevitabile non hanno rapporto alcuno con la temerarietà e, soprattutto, la mancanza di rispetto della vita e del dolore altrui. Possiamo, certamente, riconoscere l’enorme fatica di un anno intero vissuto senza tutto ciò che ha, finora, reso viva la nostra esistenza. Dobbiamo, altresì, riconoscere le terribili conseguenze sul piano economico, educativo, sociale del distanziamento sociale e del lockdown, quindi criticando senza pietà le istituzioni politiche nel caso ci rendessimo conto che hanno agito superficialmente. Ma, al tempo stesso, è indelicato e approssimativo ignorare le conseguenze di un messaggio di per sé pericoloso: quello che ci dice che oggi vogliamo sopravvivere, rinunciando a vivere. Se la sopravvivenza, minacciata da un pericolo mortale, fosse messa in secondo piano rispetto alla vita di tutti i giorni, ci ritroveremmo in una realtà in cui dominerebbero la morte, il dolore, la sofferenza, molto di più di quanto già stanno dominando.

«La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione». Le sagge parole di Montaigne, punto di riferimento del nostro modo di affrontare la morte, devono però essere controbilanciate dalle parole che John Keating rivolge al suo studente Charlie nel film L’attimo fuggente. Charlie, che ha cercato di farsi espellere dalla scuola che sta frequentando, rimane stupito dalla reazione negativa di Keating, il quale non approva il suo comportamento. Charlie dice: “Sta dalla parte del signor Nolan (il preside N.d.A.)? E allora il ‘Carpe Diem’, ‘Succhiare il midollo della vita’ e tutto il resto? e Keating risponde: “Succhiare il midollo della vita non significa strozzarsi con l’osso. C’è un tempo per il coraggio e un tempo per la cautela, e il vero uomo sa come distinguerli”. Forse, dovremmo non dimenticarlo in questo periodo difficile che stiamo vivendo, pur nella comprensibile consapevolezza di tutti gli aspetti drammatici che ne derivano e che segnano tragicamente la nostra esistenza.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/03/corona-virus-3-2_t-e1615754557356.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-03-15 10:39:302021-03-15 10:39:32Il virus e la morte rimossa? di Davide Sisto

Cosa vuol dire morire? Riflessioni a partire da un fatto di cronaca, di Davide Sisto

3 Febbraio 2021/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

I quotidiani nazionali hanno dedicato, negli ultimi giorni di gennaio 2020, un ampio spazio alla notizia di una bambina siciliana – di appena nove anni – morta suicida in circostanze tutt’altro che chiare (perlopiù collegate all’uso del social network TikTok, per quanto sia ancora una supposizione priva di riscontro oggettivo). Al di là delle svariate analisi giornalistiche che si sono succedute per diversi giorni, mi ha colpito leggere più volte le seguenti parole: “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”.

Questa affermazione implica una serie di ragionamenti, che sono – di fatto – alla base degli articoli che da anni fanno parte di questo blog. Innanzitutto, cosa vuol dire morire? Quando ciascuno di noi – adolescenti o adulti, poco importa – si pone questa domanda, si rende immediatamente conto che non vi è modo di andare oltre a quanto sostiene il filosofo tedesco Gadamer: «Un pensiero della morte, che lascia che io continui a vivere, non sembra essere molto diverso né essenzialmente differente da tutti gli altri sogni di vita che noi sogniamo e nei quali viviamo. Ci troviamo, a quanto pare, di fronte a un’aporia, la quale tiene separati la morte e il pensiero. Pare che il pensiero della morte trasformi di già la morte in qualcosa che essa non è». Una volta che ne facciamo esperienza non abbiamo ovviamente modo di descriverla e di spiegarne il significato; possiamo, molto banalmente, soltanto attribuire un significato all’esperienza che facciamo della morte altrui.

Ovviamente, l’affermazione summenzionata allude ad altro, cioè alla ipotetica scarsa consapevolezza che i bambini e gli adolescenti del XXI secolo hanno nei confronti della propria connaturata mortalità, aspetto che li porta – sempre ipoteticamente – a sottovalutare la fragilità e la precarietà della propria esistenza.

Non mi interessa sapere se ciò sia vero oppure no. Mi interessa semmai, facendo finta che sia plausibile tale pensiero, evidenziare un altro aspetto: se “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”, non è forse colpa degli adulti impegnati costantemente a eludere ogni tipo di discorso relativo alla morte? Sono oramai decenni che parliamo di rimozione della morte e che sottolineiamo la necessità di percorsi educativi per mezzo dei quali “imparare a morire” (dunque, a vivere). Tuttavia, ancora oggi non riusciamo a superare l’imbarazzo che ci irretisce ogniqualvolta occorre prestare attenzione al limite della nostra esistenza e di quella dei nostri figli. Un imbarazzo che risulta poi fatale nella vita quotidiana.

Riprendiamo un attimo il discorso relativo alla pandemia da Covid-19: è palese che la maggior parte dei comportamenti negativi dei cittadini sia riconducibile al non voler pensare di essere mortali. Tra i tanti atteggiamenti oggettivamente riconducibili alla negazione del pensiero della morte e di cui abbiamo già parlato nel blog, uno mi ha, ultimamente, colpito in maniera particolare: diversi miei conoscenti, che sono stati contagiati (e che, per fortuna, sono guariti), si sono ammalati perché, se da una parte hanno chiaramente riconosciuto il pericolo della pandemia, dall’altra lo hanno applicato soltanto alle altre persone e non a se stessi. Vale a dire: ho notato un’enorme premura nel consigliare ai propri cari di prendere tutte le necessarie precauzioni e, al tempo stesso, una altrettanto grande sciatteria nel prenderle personalmente. Come se, di nuovo, si proiettasse il rischio di morte sugli altri, perché consci del dolore che deriva da una perdita, ritenendo però se stessi immuni da tale rischio. Della serie: io, comunque, non corro il pericolo di morire. Io sono immortale. Mi ha impressionato soprattutto un conoscente che, scoperto di essere positivo al Covid, mi ha chiesto: “tanto non si muore mica di Covid, vero?”. Non me lo ha chiesto a fine febbraio 2020, quindi in una fase in cui ne sapevamo ancora poco, ma nel periodo natalizio appena trascorso, dopo mesi di reportage giornalistici e di trasmissioni televisive dedicate al tema. Capisco molto bene la paura, la quale può spingerci a evitare i pensieri più drammatici (cfr. il famigerato “andrà tutto bene”), ma questo tipo di rimozione posteriore al contagio è lo stesso tipo di rimozione che ha reso possibile il contagio. Dunque, tornando alla domanda di partenza: come possono i ragazzini sapere cosa vuol dire morire se i loro punti di riferimento adulti non lo sanno o non lo vogliono sapere?

In conclusione, è fondamentale parlare della morte a tutte le età, a partire dall’infanzia. Ma per poterne parlare in maniera consona e vincente da un punto di vista educativo è necessario, in primo luogo, che gli adulti si sforzino di sottrarsi alla rimozione e al tabù. In caso contrario, non saranno mai capaci di educare attentamente i propri figli e i propri studenti, limitandosi poi – quando hanno luogo drammatici casi di cronaca – a fare affermazioni come quella indicata, dal sapore ipocrita e moralistico. In altre parole, ci si toglie di dosso ogni tipo di responsabilità, colpevolizzando chi – a soli 9 anni – dovrebbe lucidamente conoscere ciò che gli adulti stessi ignorano.

Cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti e le vostre riflessioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/02/paura-della-morte-e1612274659485.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-02-03 10:11:312021-02-03 10:11:33Cosa vuol dire morire? Riflessioni a partire da un fatto di cronaca, di Davide Sisto

Si può ridere della morte, e come? di Davide Sisto

25 Giugno 2019/15 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi anni, non c’è utente dei social network più famosi (Facebook, Instagram, Twitter) che non si sia imbattuto, almeno una volta, nella pubblicità delle onoranze funebri Taffo, il cui leit motiv è fare ironia sulla morte. Durante i periodi elettorali, Taffo rende virale una fotografia in cui sotto la scritta “italiani, vi aspettiamo alle urne” vediamo le immagini di diverse urne che, come potete intuire, nulla hanno a che fare con le cabine del voto. In un’altra fotografia, diffusa quando il Governo italiano ha legiferato a favore del reddito di cittadinanza, leggiamo: “nella vita solo una cosa è sicura. E non è il reddito di cittadinanza”. Sotto, di nuovo, l’immagine di una gigantesca urna. Ancora, durante l’estate, Taffo condivide un’immagine che raffigura due ragazzi che stanno “morendo” dal caldo. Sopra campeggia la scritta “Funeral boom”. Sotto, invece, un esplicito invito: “uscite nelle ore più calde e bevete poca acqua”. Addirittura, in questi giorni, Taffo ha ideato la canzone dell’estate, Magari muori, visualizzata su YouTube da oltre cinquecento mila persone e il cui testo è un invito a godersi la vita, proprio perché consapevoli di morire prima o poi. Una strofa del testo: “Dai, goditi la vita che poi magari muori – e vivi al massimo da qui fino ai crisantemi – non rimandare più che poi magari muori – baciami e stammi addosso che domani sei in un fosso”.

Ridere della morte non è certo una prerogativa esclusiva di Taffo. Nei social network, in Italia, sono molto seguite pagine come Il Salone del Lutto e Necrologika, le quali adottano un atteggiamento in parte dissacrante in parte sarcastico nei confronti di tutto ciò che riguarda il morire, dal lutto al desiderio di immortalità.

Innumerevoli sono, poi, gli esempi cinematografici, musicali e letterari che hanno adottato l’ironia nei confronti del morire. Uno dei più noti esempi tratti dal cinema è quello de Il significato della vita (1983) dei Monty Python, la cui ultima parte è dedicata al Tristo Mietitore, che si presenta alla porta di una graziosa casetta di campagna. “Pare sia un certo signor La Morte, venuto per la mietitura. Non credo ci serva per il momento”. La frase divertente di uno dei protagonisti del film è smentita, ahinoi, dai fatti: una mousse di salmone avariata determina la morte di tutti i partecipanti del pranzo. “Offrire una mousse scaduta è socialmente morire”, dice lo spettro digitale della padrona di casa prima di avviarsi – in automobile – verso il Paradiso. O, ancora, ricordiamo Funeral Party (2007), completamente incentrato sulla risata durante la celebrazione di un funerale: si parte dalla consegna al figlio della salma del padre sbagliato fino ad arrivare alle disavventure provocate da uno degli ospiti il quale ha preso, per sbaglio, un potente allucinogeno invece del Valium.

Si può ridere della morte? Si può, cioè, assumere un atteggiamento scanzonato e irriverente nei confronti di uno degli eventi più dolorosi della nostra esistenza? Quella di Taffo è una strategia pubblicitaria geniale o di cattivo gusto? Dal mio punto di vista, credo che, sì, si possa assumere un atteggiamento ilare anche nei confronti della morte. Ma con dei doverosi distinguo. L’ironia deve, cioè, nascere da una consapevolezza specifica: proprio perché la morte ci spaventa, ci fa soffrire, ci crea ansia, ci paralizza, ecc. possiamo – spesso, dobbiamo – attutirne il peso mettendo a frutto la nostra intelligenza. E l’ironia è, forse, il suo più potente strumento, poiché riesce a ridimensionare il dramma della realtà, cercando di tirare fuori dal tragico l’elemento comico che in esso spesso si cela. Una sorta di detonazione della propria e della altrui tristezza, che fa leva sulla capacità di individuare quel gesto o quella smorfia capaci di ridimensionare, anche per un solo momento, la negatività che ci assale. È, in fondo, un aspetto classico dei comici di professione essere persone, di per sé, malinconiche. La loro comicità è l’arma che gli permette di descrivere quello che provano, forse addirittura di presentarlo per quello che effettivamente è. L’ironia e la comicità, dagli albori dei tempi, sono collegate alla coscienza della nostra mortalità e, senza tale coscienza, probabilmente si sarebbero sviluppate con minor forza tra gli esseri umani.

Assumere questo tipo di atteggiamento nei confronti della morte e della mortalità non deve, però, essere un modo per giustificare qualsivoglia forma di superficialità o la mancanza di empatia. Non deve, cioè, diventare un mezzo con cui deresponsabilizzarci e difendere l’apatia emotiva. In altre parole, il comportamento di Taffo è lodevole se è frutto di una delicatezza interiore, non se è una geniale trovata commerciale che non tiene conto del dolore e della sofferenza che accompagna l’evento della morte.

“Comica o tragica, la cosa più importante è godersi la vita finché si può, perché ci tocca soltanto un giro e quando l’hai fatto l’hai fatto”, diceva Woody Allen in Melinda & Melinda. Ma il godimento della vita non deve, al tempo stesso, essere una scusa per un disimpegno emotivo e una mancanza di condivisione del dolore che, quotidianamente, fa parte del nostro stare al mondo.

E voi cosa ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/06/Depositphotos_11940983_s-2019-e1561388949628.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-06-25 10:47:092019-06-25 10:47:09Si può ridere della morte, e come? di Davide Sisto

Morire in braccio alle Grazie: intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

29 Novembre 2017/5 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Le_Tre_Grazie_(Botticelli)Abbiamo intervistato Sandro Spinsanti (che è anche un assiduo lettore di questo blog) in occasione della recentissima uscita del suo ultimo libro, Morire in braccio alle Grazie. La cura giusta nell’ultimo tratto di strada.

Come mai questa metafora delle Grazie, dee greche e romane della bellezza, della fertilità, della gioia di vivere: qual è il loro legame con la morte?

Spero che le Grazie, col loro fascino, possano sedurre coloro che ancora non riflettono sulla morte, ma preferiscono tenerla nascosta; vorrei sconcertare, portare fuori dagli schemi di pensiero abituali la riflessione sul morire e sulle scelte di fine vita, fuori dai percorsi triti della bioetica, con i suoi massimi sistemi e i suoi principi assoluti. La dimensione estetica, il “morire con grazia” può forse dirci qualcosa di nuovo sull’etica. La sfida consiste nel pensare la morte come avvolta dall’abbraccio delle Grazie, ossia come crescita e compimento.

Abbiamo avuto, sulla rivista Janus. Medicina, Cultura, Culture, una rubrica nella quale abbiamo chiesto ai palliativisti come mai spesso la gente muoia male. Il nostro intento era seguire le orme dello psicologo Paul Watzlawick, che ha scritto le Istruzioni per rendersi infelici: Watzlawick ironizza sul paradosso per cui gli uomini, pur desiderando la felicità, agiscono per crearsi infelicità. Per quanto riguarda la morte la faccenda è analoga. Gli individui affermano di volere una buona morte, ma fanno di tutto per ottenerne una cattiva. E come si fa per avere una cattiva morte? E’ facile: è sufficiente, spesso, lasciare fare agli altri, affidarsi a una famiglia conflittuale, essere passivi.

A che punto è oggi la medicina di fronte al tema della morte e del suo accoglimento?

Purtroppo buona parte della medicina è intrappolata, schiava della logica del “fare sempre di più”, come ha scritto Atul Gawande. Invece di fare cose diverse, si insiste in quel “sempre di più”. La grande sfida della medicina, invece, sta nel comprendere quando insistere e quando desistere, lasciar andare, cambiare registro e arrestare le cure futili.

Oggi abbiamo in Italia realtà molto differenziate. Da un lato ci sono molti medici, e cittadini, che conoscono le cure palliative e ne condividono profondamente la cultura, e che sono aperti a un nuovo sguardo, quello della medicina narrativa. Ma abbiamo anche a che fare anche con la sordità o addirittura l’ostilità di altri gruppi di professionisti, che giudicano futile occuparsi delle “emozioni dei pazienti”, come mi ha detto un chirurgo.

Anche per quanto riguarda le cure palliative, ci sono ottime esperienze, modelli di accompagnamento eccellenti; mentre talvolta capita di vedere hospice pessimamente gestiti, in cui la degenza è così breve che nessun intervento è possibile, e che sono diventati dei “moritoi” contemporanei. Occorre evitare che la palliazione si integri in un modello di medicina a due tempi, dove prima si tenta il tutto e per tutto, poi (quando non c’è più speranza di guarigione) subentrano le cure palliative, nuova specializzazione all’interno della biomedicina, accanto a tutte le altre. Le cure palliative, al contrario, devono far parte del bagaglio di tutti i medici.

Diventiamo sempre più vecchi. Cosa possiamo dire di come muoiono i grandi anziani?

A Firenze con la Fondazione File abbiamo istituito una scuola di cure palliative geriatriche, e siamo entrati nelle Residenze Sanitarie Assistenziali. Abbiamo trovato un’enorme esigenza di formazione. Oggi infatti le residenze per anziani sono diventate grandi ospedali per lungodegenti, o addirittura hospice, perché sono luoghi dove gli ospiti abitano negli ultimi anni o mesi, e poi muoiono (a meno che non abbiano la sfortuna di essere trasportati in emergenza in un Pronto soccorso e di morire magari su una barella, in corridoio). Per questo occorre che le cure palliative facciano parte del sapere e del saper fare degli operatori che lavorano in RSA.

In genere che cosa possiamo fare per migliorare la situazione?

Va valorizzata la figura del medico di medicina generale, per disinnescare l’estrema ospedalizzazione. Il modello ideale è un medico di famiglia che continui a curare anche in hospice, anche in RSA. Su questo, vi sono interessanti esperienze in Toscana e in Emilia. Occorre potenziare le cure sul territorio e la continuità assistenziale.

Aggiungo che dovremmo conoscere di più su questi temi, fare più ricerca, avere più informazioni ed essere in grado di confrontare i modelli di cura.

C’è qualcosa nel suo libro che vuole sottolineare per i lettori del blog?

La presenza di brani di letteratura: da Philip Roth, Everyman e Patrimonio, fino a scrittori meno noti fra chi si occupa del tema del morire, come Stephen King, Il miglio verde. E’ incredibile quanti romanzi e opere cinematografiche ci mettano di fronte ai problemi della fine della vita e ci sollecitino riflessioni…

Cosa vi sollecitano le riflessioni di Spinsanti? Siete d’accordo con lui?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/11/le-tre-grazie-2.jpg 3313 4732 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-11-29 16:19:032017-11-29 16:19:03Morire in braccio alle Grazie: intervista a Sandro Spinsanti, di Marina Sozzi

Eutanasia e Stato etico

29 Marzo 2016/14 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

age, sadness, trouble, problem and people concept - sad senior woman sleeping on pillow at home

Ai primi di marzo le Commissioni congiunte di Giustizia e Affari Sociali hanno cominciato a discutere sul tema dell’eutanasia, con l’obiettivo di accordarsi su una proposta di legge che dovrebbe approdare in parlamento intorno a luglio. Qualche breve articolo sull’argomento ci ha informati che ci sono tre proposte di legge da esaminare, il cui testo, con l’esclusione di quello dell’associazione Coscioni (http://www.eutanasialegale.it/content/progetto-di-legge-diniziativa-popolare-rifiuto-di-trattamenti-sanitari-e-liceita), è difficile se non impossibile da reperire sul web (cattivo segno per la discussione democratica). Non mi dilungo sulle proposte, perché è già stato fatto: le tre proposte di legge si differenziano solo su due punti, la presenza o meno di organismi di controllo, e la possibilità (negata in due di esse) data ai medici di obiettare.

Faccio subito qualche considerazione che, ammetto, sono quasi stanca di riproporre.

E proprio per questo mi faccio prestare le parole dalla presidente di Libera Uscita, Maria Laura Cattinari, che non può essere tacciata di essere contraria all’eutanasia, e che – in un condivisibile Comunicato stampa sul tema – ha affermato: «Oggi in Italia si muore ancora troppo male. E’ urgente, per cominciare, una buona legge che legalizzi il testamento biologico, prevedendo che tutte le terapie, idratazione e alimentazione artificiale comprese, siano rinunciabili, e che le nostre direttive siano vincolanti per i medici».

Dovremmo inoltre poter nominare un nostro fiduciario, che possa rappresentare efficacemente la nostra voce qualora dovessimo trovarci in stato di incoscienza o di volontà debole a causa del nostro stato di salute compromesso. Altrettanto indispensabile, scrive Cattinari «il potenziamento delle cure palliative domiciliari, giustamente inserite nei LEA (livelli essenziali d’assistenza) dall’ottima Legge 38/2010, di cui gli effetti positivi appaiono ancora in dose omeopatica».

Invece di riflettere sul problema (molto complesso) di come permettere ai cittadini di lasciare un legittimo testamento biologico, si dà la priorità all’eutanasia, ben sapendo che la discussione parlamentare non potrà che creare aspri e inutili scontri, portando il Paese a un nulla di fatto. Ancora una volta, è evidente che valutazioni di opportunità politica hanno la meglio sul benessere dei cittadini e sulla tutela della loro salute e delle loro scelte di vita e di fine vita.

E’ evidente a chiunque rifletta in modo concreto, infatti, che l’eutanasia è l’ultimo dei problemi, alla fine della vita: le cure palliative e la sedazione terminale – che sopprime la coscienza – sono perfettamente in grado di garantirci una morte senza sofferenza. Solo che le cure palliative non sono applicate a tutte le patologie (disattendendo la legge 38 che le definisce come un “diritto” per tutti i cittadini), e spesso non sono applicate (anche per incompetenza) a chi muore in ospedale.

Per altro verso, viviamo in un paese con pochissima creatività istituzionale, in cui gli anziani, il cui numero è destinato a crescere esponenzialmente, sono chiusi (con o senza demenza senile) in case di riposo, dove la maggior parte di loro perde progressivamente l’autonomia e la consapevolezza residue. E anche in questi luoghi si muore male, o meglio si vive un processo del morire lunghissimo, abbandonando ogni giorno una parte del piacere di vivere.

Qualcuno mi ha rimproverato, anche su questo blog, di avere “resistenze” di fronte all’eutanasia: è vero, io resisto, perché credo che la depenalizzazione dell’eutanasia oggi (sottolineo oggi, perché la mia contrarietà non è di principio) avrà come esito di risolvere al ribasso una serie di sfide del nostro tempo, create da una medicina cresciuta nelle sue possibilità di cura ma anche nella sua capacità di nuocere, prolungando il morire.

Non vorrei che il problema dell’umanizzazione della medicina si smorzasse attraverso una legittimazione troppo superficiale dell’eutanasia, ottenuta per via parlamentare, senza un vero dibattito pubblico. Non hai più gusto per la vita? Soffri? Ti permetto di chiedere la morte. E’ corretto? E se cercassi invece di ascoltare in che modo la vita potrebbe avere ancora sapore per te (fosse anche per pochi mesi o giorni), e utilizzassi le risorse della medicina per provare a restituirtelo?
Non esiste solo il diritto (sacrosanto) di non soffrire, ma anche quello di decidere che cosa è più importante per noi nell’ultimo tratto della nostra vita; quali sono i compromessi che siamo disposti ad accettare per vivere un po’ più a lungo e quali no; cosa vogliamo lasciare di noi ai nostri cari, quale ricordo, quale messaggio.

E’ curioso peraltro che l’eutanasia sia presente in alcune utopie di epoca moderna. Permettetemi una sola citazione dotta: nel volume settecentesco La terre australe connue di Gabriel de Foigny ogni vegliardo, che decide la propria eutanasia, va “gaiamente” incontro alla morte, e i sopravvissuti accolgono con gioia il suo successore designato. I vecchi, però, interrompono la loro vita ad un’età prestabilita, mangiando i frutti di un albero che produce una dolce follia, e poi la morte. E’ lo Stato etico, in utopia, a stabilire quando bisogna morire. Gli utopiani si adeguano, perché in loro prevale la razionalità.
E noi? Sappiamo pensare alla morte come esseri senzienti, con la consapevolezza delle nostre emozioni?

Infine, c’è in me un’ultima resistenza, di cui voglio mettervi a parte: la vicenda dell’eutanasia è legata a un mito della modernità (non a caso è presente nelle utopie di epoca moderna), un mito inaugurato da Descartes: il controllo pieno dell’uomo sulla natura. Siamo sicuri che vogliamo procedere su questa direttrice culturale? Che è anche quella che ci ha portati a distruggere il pianeta? Pensiamoci, almeno. Facciamo entrare altri spunti nella nostra riflessione sull’eutanasia.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/03/Depositphotos_88034236_m-2015-e1459164487831.jpg 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-03-29 09:50:282016-03-29 09:50:28Eutanasia e Stato etico

E INFINE…si può dire morte

1 Dicembre 2014/61 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici,
come sa chi mi conosce personalmente o ha letto Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, sono vent’anni che studio la controversa relazione di noi esseri umani con il proprio e l’altrui morire, con i lutti, con i riti, con la memoria dei defunti, con i luoghi dei morti; con la malattia, la medicina, le cure palliative e le scelte che si possono fare alla fine della vita; con la paura d’invecchiare, con l’estrema vecchiaia, con le demenze dei propri cari.

Tutti temi che fanno tremare anche i più coraggiosi tra noi, che fanno fare gli scongiuri ai più superficiali, ma che rappresentano pure il destino comune a tutti, anche ai tanti che preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Temi, inoltre, che restituiscono, a chi vi si addentra, un significato non solo al proprio diventare vecchi e morire, ma soprattutto alla vita di ciascuno, nella sua pienezza.

Da un paio d’anni scrivo questo blog, ma ora sento l’esigenza di agire, negli anni che mi restano, per aiutare chi soffre e per condividere con quante più persone possibile un messaggio che mi ha cambiato la vita: la consapevolezza della morte ci insegna che ogni singolo istante è unico e, se sappiamo assaporarlo, restando nel presente, ciò che ci viene restituito è il tempo, che di solito fugge impietoso. E inoltre, se sentiamo (nel corpo, non solo nella mente) il senso della fragilità, della vulnerabilità umana, possiamo essere più solidali e responsabili, e dare il giusto peso alle relazioni (in questo mondo frammentato, regno dell’autismo di massa).

Molti sono coloro che mi hanno invitata a fare qualcosa di più sull’invecchiare e il morire, temi sui quali le persone, oggi, desiderano riflettere. Mi hanno convinto facilmente, perché ci stavo pensando. Ho pensato a un’associazione, che trasformi i mei studi in aiuto a chi attraversa una difficoltà o un dolore, e in azione sociale.
Vorrei, prima di definire in modo preciso il profilo di questa associazione, avere le vostre considerazioni. E, vi prego, andate a ruota libera. Se esistesse una siffatta associazione (chiamiamola INFINE Onlus…), quali dovrebbero essere le sue priorità?
Quali i temi su cui impegnarsi a fondo, sia in ambito sociale sia sul piano della ricerca e della divulgazione?
Quali i contesti in cui agire? Quali battaglie condurre? Con quali strumenti?
Vi sono grata in anticipo per le vostre opinioni e i vostri suggerimenti, che sono certa arriveranno numerosi.
A presto in associazione!

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2014/11/LOGO_INFINE_petrolio.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2014-12-01 11:17:482014-12-01 11:17:48E INFINE…si può dire morte

Per favore non dite niente

1 Giugno 2014/1 Commento/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Ho letto d’un fiato il recente romanzo di Marco Ciriello, edito da Chiarelettere, che parla di malattia, di morire, di perdita, e di… calcio, e ho voluto intervistare l’autore.

Perché ha voluto scrivere questa storia? Un’affezione per il personaggio che l’ha ispirata? O piuttosto un interesse per l’esperienza della malattia e della morte di una persona insostituibile?

Questa storia l’ho scritta riconoscendo un dolore mio nelle parole di un’altra persona, ed ho cominciato un lungo percorso di immaginazione, ho messo insieme più storie e personaggi e il risultato è “Per favore non dite niente”. È un romanzo che contiene un mucchio di cose che esplora il dolore attraverso l’amore strutturandosi in ragionamenti filosofico calcistici. Senza André Gorz o Ernesto De Martino non avrei avuto la forza di pensare una storia così. C’è Carver applicato al calcio, e il calcio applicato al racconto carveriano sulla normalità della vita, in un percorso di perdita. Mi serviva una dimensione precisa, con una disciplina e degli obiettivi certi, per questo ho scelto il calcio.

Questo suo libro, frammentario, con molti salti temporali, sembra dirci che stare accanto a chi è malato, e poi muore, sia arduo, e produca una sorta di sgretolamento del mondo interiore. E’ così?

Sì, ho provato con la scrittura a restituire la perdita e il percorso della malattia. Ogni giorno di dolore è una discesa, uno spostamento. Il dolore e la perdita sono principalmente stupore, uno stupore che ci rende nomadi, non credo che ci renda migliori, nomadi sì, ci portano in spazi che non ci appartengono, stupendoci, e lì comincia un lavoro di adeguamento, senza essere mai educati, non c’è metodo, solo possibilità di provare e riprovare, cercando di adeguarsi, a volte riesce a volte no, con una amarezza di fondo, fino a quando il vuoto diventa presenza, con una lingua e una immagine diversa.

“Magari si potessero barattare le prodezze sul campo con un solo giorno in più con la donna che ami”. Il lutto non è dunque solo dolore bruto, ma anche potenziale ricchezza, cambiamento in grado di farci dare un nuovo ordine alle priorità, per maturare. E’ ciò che pensa?

Chiunque abbia avuto a che fare con l’irreversibilità della perdita entra in questa ottica, baratterebbe tutto per tornare indietro, c’è persino chi non ne esce più da questa fase, soprattutto se scambia la perdita per una punizione di Dio. Io ne ho avute di perdite devastanti ed è ovvio che abbia riflettuto a lungo su dolore e irreversibilità, in ogni romanzo c’è molto di quello che ci accade ma almeno nei miei niente è una confessione.

Il titolo “per favore non dite niente” richiama la convinzione del protagonista che chi cerca di esprimergli vicinanza dica in genere frasi inopportune, o poco sentite. Crede che sia molto difficile stare vicino a chi ha perso un congiunto?

Bisogna distinguere: io non mi riferisco all’elaborazione del lutto che ha bisogno di molte discussioni, né a come amici e parenti declinano il ricordo di chi è andato via, ma parlo del funerale, del congedo. Si dicono un mucchio di banalità davanti alla morte, è preferibile abbracciare, e parlarne dopo, magari senza improvvisare. Generazioni di filosofi e scrittori non sono riusciti a dare una risposta efficace, figuriamoci se può riuscirci uno che magari è andato al funerale per educazione e si sente elevato a rispondere a un mistero. Avrei preferenza di non conoscere quelle risposte.

Personalmente, non so nulla del gioco né del mondo del calcio. Ma ho pensato che questo libro abbia anche il pregio di parlare a un numero di persone maggiore rispetto a quelle raggiunte, di solito, dalla letteratura che tratta di malattia e di morte. Lo pensa anche lei? E’ un obiettivo che le interessa?

Non lo so, me lo auguro, quando scrivo penso alla credibilità di quello che racconto non al numero di lettori. In molti mi dicono di aver pianto durante la lettura, e poi di quello che hanno vissuto o rivissuto. Il mio obiettivo è scrivere storie credibili, mescolando persone vere e personaggi che invento, e nella confusione di tempo e realtà, nella riproduzione e invenzione di vite che credo si trovi la letteratura. Se non parliamo di morte e amore di cosa dobbiamo parlare? Mi hanno detto che la mia storia “ha la forza dei romanzi russi” non so se è vero, di certo ho molto studiato Dostoevskij e Albert Caraco che non è russo ma ne ha la forza, e molti altri, e nemmeno sto lì a gongolarmi, per questo che ritengo un complimento enorme. Penso che sì, magari è anche così, ma lo dirà il tempo che, come per la vita, è un critico spietato, obiettivo, concretissimo.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2014/06/imgres.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2014-06-01 11:17:532018-10-23 18:42:14Per favore non dite niente
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