Intervista a Giuseppe Amato, medico-scrittore, di Marina Sozzi
Abbiamo intervistato Giuseppe Amato, medico internista e scrittore, che ha da poco pubblicato due volumi di una distopia, I prigionieri dell’eternità e Il confine d’oriente, nei quali è descritta una violenta dittatura sanitaria, fondata sulla religione dell’immortalità fisica. L’accanimento terapeutico è la prassi, estremizzato fino alla plastificazione dei corpi, mentre è severamente vietato accompagnare con dolcezza le persone alla morte naturale. Solo pochi dissidenti si oppongono a questo regime perverso, e le loro avventure ci tengono con il fiato sospeso.
Benché alcune affermazioni contenute nelle risposte di Giuseppe Amato appaiano alla redazione di questo blog troppo pessimistiche sulla medicina, sulla tecnologia e sul mondo contemporaneo, pubblichiamo volentieri. Si può dire morte è soprattutto uno spazio di confronto. E certamente in queste righe ci sono molte considerazioni sulle quali val la pena riflettere. Buona lettura, e aspettiamo con curiosità i vostri commenti.
Con questi due libri lei ha voluto denunciare un rischio che corre la nostra medicina? Le sembra che l’“ostinazione terapeutica” come la definisce la legge 219/2017, sia ancora molto diffusa?
Più che un rischio, ho inteso denunciare lo stato attuale della nostra medicina. Si tratta infatti di libri in cui ogni riferimento con la realtà non è “da ritenersi puramente casuale”. Sono ambientati a Kaleydos, un “altrove” immaginario ma somigliante alla società in cui viviamo e mostrano un potere che, per incamerare profitti, non esita a creare confini, disuguaglianze e danni alle persone.
La scintilla si è accesa alcuni anni fa, quando venni a sapere che in un presidio ospedaliero, vicino a quello in cui lavoravo, i sanitari avevano approntato una seduta di dialisi a una persona che aveva appena ricevuto l’estrema unzione. Sperimentai una sorta di allucinazione a cui decisi di dare una forma narrativa per creare una letteratura di denuncia e riflessione. Ebbi l’illusione di un universo parallelo in cui la morte era proibita per legge, e io facevo parte di una fantomatica corporazione denominata “Polizia sanitaria”. Questa sosteneva il Sistema che aveva imposto una religione fondata sulla sacralità della vita umana e sul dogma dell’immortalità. Era composto da una minoranza elitaria che spartiva potere politico e introiti monetari ai danni di una massa di persone costrette a vivere in una condizione di subalternità e di totale controllo di ogni aspetto dell’esistenza. Gli esempi più eclatanti erano il sovvertimento dei concetti della vita e della morte e l’utopia di una terrena immortalità: in quel luogo il diritto di vivere era stato sostituito dal dovere di vivere.
Per il teologo Hans Küng questo asserto è valido anche nel nostro mondo. Stando al Rapporto della Commissione Lancet sul valore della morte del 2022: “Il modo in cui le persone muoiono è cambiato radicalmente nelle ultime generazioni… La morte e il morire si sono spostati dall’ambito familiare e comunitario all’ambito dei sistemi sanitari… Un trattamento inutile o potenzialmente inappropriato può continuare fino alle ultime ore di vita”. In questo modo la sanità fornisce prestazioni mediche come risposta a bisogni o incertezze, anche esistenziali, e noi medici prescriviamo indagini e terapie la cui necessità è discutibile, noncuranti delle sofferenze che provochiamo.
La tecnologia, monopolio di una classe dominante senza scrupoli, la fa da padrona nella società di Kaleydos, nella quale i cittadini sono privati di coscienza e senso critico, e totalmente controllati dal potere. Crede che ci sia un rischio per la democrazia nello sviluppo della tecnologia, e in particolare della tecnologia medica?
La tecnologia dovrebbe essere utilizzata nei casi in cui si presume un beneficio per il paziente e non unicamente perché la si possiede, pur sapendo che non gioverà. Questa è una prassi frequente, soprattutto nei grossi presidi ospedalieri. Il problema, piuttosto, è come capire quando serve sul serio, ma la soluzione è semplice: curare le persone e non le malattie. Bisogna creare una rete di servizi connessi tra loro e metterci al centro la persona, non l’ospedale o i medici o la burocrazia o il profitto. Ma per fare ciò è necessario un sistema democratico, eliminare la corruzione e avere una politica al servizio della salute dei cittadini. Penso che sia un’utopia, come la pace: la invochiamo però continuiamo a costruire armi e lo giustifichiamo come un deterrente alla guerra. Ma la corsa agli armamenti non è sinonimo di pace così come l’iperproduzione di tecnologia non lo è della salute. Se investiamo nella tecnologia, poi la dobbiamo usare anche se sappiamo che non porterà giovamento.
Questi ragionamenti mi hanno fornito la percezione di ciò che ho esposto nei miei libri: la scienza ha subito di proposito una deriva tecnologica ed è stata sottomessa a un regime in cui la salute, la vita e la morte sono diventate le nuove frontiere di un consumismo senza limiti. Ben pochi, tra i medici e gli stessi pazienti, se ne sono resi conto e si sono ribellati a un sistema schiavo della logica del profitto. È stato più semplice sottomettersi senza metterlo in discussione e, con ogni probabilità, siamo stati condizionati a farlo.
Possiamo parlare oggi di una mercificazione della salute? E in che senso?
Lo scenario descritto per Kaleydos, volutamente estremizzato, è paragonabile a quanto è successo nel nostro mondo quando, dagli anni Novanta del secolo scorso, si è imposta la “globalizzazione”. Il pianeta ha dovuto adeguarsi a leggi e principi funzionali alla libera circolazione delle merci, veicolati da una pervasiva rete virtuale che ha sopito ogni spirito critico. I nuovi “stili di vita” hanno smontato certezze e valori del passato, dal welfare alla politica, ai concetti della vita e della morte. Il risultato è la crisi dello Stato e delle ideologie e lo smarrimento dei singoli individui. Tutto è diventato labile, tanto che Zygmunt Bauman ha definito “liquido” lo stato della società in questa nostra epoca. Ma in una società “liquida” che vive per il consumo tutto si trasforma in merce in balia del profitto, incluso l’uomo e la salute.
Nell’ambito sanitario, il processo si è tradotto nel “curare solo malattie” rispetto al “prendersi cura delle persone” dato che la prima opzione genera profitto. La medicina che cura persone dà valore alle relazioni umane, migliora la qualità della vita e fa solo le cose che ritiene necessarie, talvolta nulla. Fornisce servizi utili alla comunità, ma non privilegia il profitto. La medicina che cura malattie ripara organi, come se fossero pezzi guasti di una macchina, utilizzando farmaci, esami e strumentazioni molto costose. Come si dice oggigiorno, converte in capitale il “valore estraibile” dalla salute del maggior numero possibile di esseri umani.
Cosa pensa delle cure palliative? nel suo libro la sedazione palliativa fa ogni tanto capolino nei gesti di ribellione del protagonista e dei suoi compagni. Pensa che anche fuori dal romanzo abbiano valori rivoluzionari rispetto alla biomedicina (da cui peraltro sono nate)?
Nel corso della professione, mi sono sempre interrogato su quale fosse il modo giusto di prendersi realmente cura dei pazienti. Memore degli insegnamenti dei miei vecchi maestri, Guglielmo Pandolfo, Giorgio Bert, degli scritti di Giulio Maccacaro, ho cercato di attuare una medicina che privilegiasse la cura delle persone e non delle malattie. Cosicché, negli ultimi anni del secolo scorso, mi sono battuto per istituire, nella mia realtà, una lungodegenza e una rete di dimissioni protette, vuoi per colmare i vuoti dell’assistenza pubblica e ridurre i costi dei ricoveri impropri nei reparti per acuti, vuoi per dare una risposta alle istanze di chi necessitava di un soccorso socioassistenziale piuttosto che tecnologico-strumentale. Ciò mi ha portato inevitabilmente a occuparmi di anziani, di malati terminali e dei tanti “dismessi” dai servizi ultra-specialistici. Questo impegno a contatto con i problemi della gente, in cui sofferenza e morte hanno fatto parte della quotidianità, mi ha reso consapevole che lottare per dare qualità e dignità alla vita del malato fino alla fine è una “rivoluzione copernicana” rispetto al modello di medicina imperante, perché mette la persona al centro dell’agire sanitario e non il profitto. Come Santiago, il protagonista dei libri, mi sono scontrato con gli organi del potere, ma mi sono riconciliato con una professione a cui dubitavo di voler ancora appartenere.
Ne Il Confine d’oriente lei scrive: “Pando affermava che ogni sanitario, nel suo corredo, doveva possedere uno strumento che gli permettesse di accorgersi del prossimo e della sua sofferenza: il cuore”. Il cuore manca ai medici suoi colleghi e contemporanei?
I passi in avanti della medicina hanno permesso progressi nel campo della diagnosi e della terapia ma questo, paradossalmente, ha portato a una relazione tra medico e paziente sempre più fredda e impersonale, orientata alla malattia oggettiva. Ma non esiste la malattia in sé: esistono i malati con le loro emozioni e le loro necessità. Per comprenderle, i sanitari devono avere capacità e volontà di dare spazio ai sentimenti, di mettersi in gioco come persone, di provare a immedesimarsi nei pazienti, ma non tutti sono in grado di farlo. D’altro canto, la formazione dei medici si basa su un oceano di nozioni in cui è facile naufragare, dal momento che non viene fornito alcun salvagente, alcuna cognizione del rapporto tra due persone, anche se questo sarà parte fondante della futura professione. Ci sono poi altri elementi come il condizionamento, l’adesione al sistema di potere, la competitività, il guadagno, che fanno sì che in molte situazioni il paziente venga visto, e trattato, come un oggetto.
In questo secondo libro lei parla di “stranieri” trattati come schiavi, e non considerati esseri umani: sta parlando della nostra società e del nostro paese?
Esattamente, ma non solo. Non voglio categorizzare o limitare ad aree geografiche. Intendo denunciare un mondo frantumato da disuguaglianze e ogni tipo di confine che emargina i più deboli e nega loro i diritti e le libertà fondamentali degli uomini. Per rimanere nell’ambito sanitario, oggi nella sanità del nostro paese molte prassi ergono barriere, confini e alimentano il meccanismo di una pervasiva “estrazione di valore”. Elevare a mo’ di totem decisore sovrano dei percorsi sanitari il software del CUP, e non le necessità dei malati; spacciare per appropriata e realistica la narrazione distopica delle normative burocratiche; utilizzare l’epidemiologia come indicatore di costi, ritardi, carenze e non uno strumento per influire sul corso delle malattie; non garantire omogeneità tra ospedale e territorio, tra pubblico e privato; separare gli aspetti sanitari da quelli sociali, fa del sistema sanitario un insieme di frontiere che discrimina le persone, portatrici di bisogni e fragilità. Le accomuna, alla fin fine, al popolo dei migranti descritto nel libro.
C’è qualcosa che avrebbe voluto dirmi e non le ho chiesto?
Vorrei evidenziare due argomenti che ho trattato. Il primo concerne l’importanza del condizionamento da parte del potere. Nel romanzo, per fugare ogni dubbio di dittatura, il Sistema dominante ha reso docili le menti. Gli abitanti di Kaleydos sono stati connessi artificialmente a Wash Out, la rete virtuale che elimina la libertà di pensiero e li omologa a entità prive di libero arbitrio; hanno accesso a una sorta di metaverso, e solo in quello vivono relazioni e passioni in una libertà fittizia.
Quando l’ho scritto, mi sembrava una cosa lontana dall’accadere, così come le psico-Tac o le psicoscopie. Ora, a distanza di pochi anni, stiamo parlando, in effetti, di persone le cui menti sono connesse a sistemi informatici, di strumentazioni in grado di decodificare i pensieri, dei rischi di una pervasiva intelligenza artificiale. Secondo lo storico Noah Harari, quest’ultima ha hackerato il sistema operativo della nostra civiltà e ora ci troviamo di fronte a una nuova arma che può annientare il nostro mondo e decretare la fine della storia umana. Secondo Harari: “… in futuro potremmo vedere le prime religioni fondate su testi sacri che non sono stati scritti da esseri umani”.
Il secondo riguarda l’amore per una giovane donna, Mary; cambierà per sempre la vita del protagonista e sosterrà la narrazione. Mary è bella, indipendente, libera dalle imposizioni del mondo in cui vive e, soprattutto, esponente del Movimento: il gruppo politico che lotta per una società più giusta nella quale la medicina è al servizio del malato e la politica uno strumento della democrazia e non un mero braccio del potere.