Si può dire morte
  • HOME
  • Aiuto al lutto
  • La fine della vita
  • Ritualità
  • Vecchiaia
  • Riflessioni
  • Chi Siamo
  • Contatti
  • Fare clic per aprire il campo di ricerca Fare clic per aprire il campo di ricerca Cerca
  • Menu Menu

Tag Archivio per: tecnologia

Intervista a Giuseppe Amato, medico-scrittore, di Marina Sozzi

7 Giugno 2024/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Giuseppe Amato, medico internista e scrittore, che ha da poco pubblicato due volumi di una distopia, I prigionieri dell’eternità e Il confine d’oriente, nei quali è descritta una violenta dittatura sanitaria, fondata sulla religione dell’immortalità fisica. L’accanimento terapeutico è la prassi, estremizzato fino alla plastificazione dei corpi, mentre è severamente vietato accompagnare con dolcezza le persone alla morte naturale. Solo pochi dissidenti si oppongono a questo regime perverso, e le loro avventure ci tengono con il fiato sospeso.

Benché alcune affermazioni contenute nelle risposte di Giuseppe Amato appaiano alla redazione di questo blog troppo pessimistiche sulla medicina, sulla tecnologia e sul mondo contemporaneo, pubblichiamo volentieri. Si può dire morte è soprattutto uno spazio di confronto. E certamente in queste righe ci sono molte considerazioni sulle quali val la pena riflettere. Buona lettura, e aspettiamo con curiosità i vostri commenti.

Con questi due libri lei ha voluto denunciare un rischio che corre la nostra medicina? Le sembra che l’“ostinazione terapeutica” come la definisce la legge 219/2017, sia ancora molto diffusa?

Più che un rischio, ho inteso denunciare lo stato attuale della nostra medicina. Si tratta infatti di libri in cui ogni riferimento con la realtà non è “da ritenersi puramente casuale”. Sono ambientati a Kaleydos, un “altrove” immaginario ma somigliante alla società in cui viviamo e mostrano un potere che, per incamerare profitti, non esita a creare confini, disuguaglianze e danni alle persone.

La scintilla si è accesa alcuni anni fa, quando venni a sapere che in un presidio ospedaliero, vicino a quello in cui lavoravo, i sanitari avevano approntato una seduta di dialisi a una persona che aveva appena ricevuto l’estrema unzione. Sperimentai una sorta di allucinazione a cui decisi di dare una forma narrativa per creare una letteratura di denuncia e riflessione. Ebbi l’illusione di un universo parallelo in cui la morte era proibita per legge, e io facevo parte di una fantomatica corporazione denominata “Polizia sanitaria”. Questa sosteneva il Sistema che aveva imposto una religione fondata sulla sacralità della vita umana e sul dogma dell’immortalità. Era composto da una minoranza elitaria che spartiva potere politico e introiti monetari ai danni di una massa di persone costrette a vivere in una condizione di subalternità e di totale controllo di ogni aspetto dell’esistenza. Gli esempi più eclatanti erano il sovvertimento dei concetti della vita e della morte e l’utopia di una terrena immortalità: in quel luogo il diritto di vivere era stato sostituito dal dovere di vivere.

Per il teologo Hans Küng questo asserto è valido anche nel nostro mondo. Stando al Rapporto della Commissione Lancet sul valore della morte del 2022: “Il modo in cui le persone muoiono è cambiato radicalmente nelle ultime generazioni… La morte e il morire si sono spostati dall’ambito familiare e comunitario all’ambito dei sistemi sanitari… Un trattamento inutile o potenzialmente inappropriato può continuare fino alle ultime ore di vita”. In questo modo la sanità fornisce prestazioni mediche come risposta a bisogni o incertezze, anche esistenziali, e noi medici prescriviamo indagini e terapie la cui necessità è discutibile, noncuranti delle sofferenze che provochiamo.

 La tecnologia, monopolio di una classe dominante senza scrupoli, la fa da padrona nella società di Kaleydos, nella quale i cittadini sono privati di coscienza e senso critico, e totalmente controllati dal potere. Crede che ci sia un rischio per la democrazia nello sviluppo della tecnologia, e in particolare della tecnologia medica?

La tecnologia dovrebbe essere utilizzata nei casi in cui si presume un beneficio per il paziente e non unicamente perché la si possiede, pur sapendo che non gioverà. Questa è una prassi frequente, soprattutto nei grossi presidi ospedalieri. Il problema, piuttosto, è come capire quando serve sul serio, ma la soluzione è semplice: curare le persone e non le malattie. Bisogna creare una rete di servizi connessi tra loro e metterci al centro la persona, non l’ospedale o i medici o la burocrazia o il profitto. Ma per fare ciò è necessario un sistema democratico, eliminare la corruzione e avere una politica al servizio della salute dei cittadini. Penso che sia un’utopia, come la pace: la invochiamo però continuiamo a costruire armi e lo giustifichiamo come un deterrente alla guerra. Ma la corsa agli armamenti non è sinonimo di pace così come l’iperproduzione di tecnologia non lo è della salute. Se investiamo nella tecnologia, poi la dobbiamo usare anche se sappiamo che non porterà giovamento.

Questi ragionamenti mi hanno fornito la percezione di ciò che ho esposto nei miei libri: la scienza ha subito di proposito una deriva tecnologica ed è stata sottomessa a un regime in cui la salute, la vita e la morte sono diventate le nuove frontiere di un consumismo senza limiti. Ben pochi, tra i medici e gli stessi pazienti, se ne sono resi conto e si sono ribellati a un sistema schiavo della logica del profitto. È stato più semplice sottomettersi senza metterlo in discussione e, con ogni probabilità, siamo stati condizionati a farlo.

Possiamo parlare oggi di una mercificazione della salute? E in che senso?

Lo scenario descritto per Kaleydos, volutamente estremizzato, è paragonabile a quanto è successo nel nostro mondo quando, dagli anni Novanta del secolo scorso, si è imposta la “globalizzazione”. Il pianeta ha dovuto adeguarsi a leggi e principi funzionali alla libera circolazione delle merci, veicolati da una pervasiva rete virtuale che ha sopito ogni spirito critico. I nuovi “stili di vita” hanno smontato certezze e valori del passato, dal welfare alla politica, ai concetti della vita e della morte. Il risultato è la crisi dello Stato e delle ideologie e lo smarrimento dei singoli individui. Tutto è diventato labile, tanto che Zygmunt Bauman ha definito “liquido” lo stato della società in questa nostra epoca. Ma in una società “liquida” che vive per il consumo tutto si trasforma in merce in balia del profitto, incluso l’uomo e la salute.

Nell’ambito sanitario, il processo si è tradotto nel “curare solo malattie” rispetto al “prendersi cura delle persone” dato che la prima opzione genera profitto. La medicina che cura persone dà valore alle relazioni umane, migliora la qualità della vita e fa solo le cose che ritiene necessarie, talvolta nulla. Fornisce servizi utili alla comunità, ma non privilegia il profitto. La medicina che cura malattie ripara organi, come se fossero pezzi guasti di una macchina, utilizzando farmaci, esami e strumentazioni molto costose. Come si dice oggigiorno, converte in capitale il “valore estraibile” dalla salute del maggior numero possibile di esseri umani.

Cosa pensa delle cure palliative? nel suo libro la sedazione palliativa fa ogni tanto capolino nei gesti di ribellione del protagonista e dei suoi compagni. Pensa che anche fuori dal romanzo abbiano valori rivoluzionari rispetto alla biomedicina (da cui peraltro sono nate)?

Nel corso della professione, mi sono sempre interrogato su quale fosse il modo giusto di prendersi realmente cura dei pazienti. Memore degli insegnamenti dei miei vecchi maestri, Guglielmo Pandolfo, Giorgio Bert, degli scritti di Giulio Maccacaro, ho cercato di attuare una medicina che privilegiasse la cura delle persone e non delle malattie. Cosicché, negli ultimi anni del secolo scorso, mi sono battuto per istituire, nella mia realtà, una lungodegenza e una rete di dimissioni protette, vuoi per colmare i vuoti dell’assistenza pubblica e ridurre i costi dei ricoveri impropri nei reparti per acuti, vuoi per dare una risposta alle istanze di chi necessitava di un soccorso socioassistenziale piuttosto che tecnologico-strumentale. Ciò mi ha portato inevitabilmente a occuparmi di anziani, di malati terminali e dei tanti “dismessi” dai servizi ultra-specialistici. Questo impegno a contatto con i problemi della gente, in cui sofferenza e morte hanno fatto parte della quotidianità, mi ha reso consapevole che lottare per dare qualità e dignità alla vita del malato fino alla fine è una “rivoluzione copernicana” rispetto al modello di medicina imperante, perché mette la persona al centro dell’agire sanitario e non il profitto. Come Santiago, il protagonista dei libri, mi sono scontrato con gli organi del potere, ma mi sono riconciliato con una professione a cui dubitavo di voler ancora appartenere.

Ne Il Confine d’oriente lei scrive: “Pando affermava che ogni sanitario, nel suo corredo, doveva possedere uno strumento che gli permettesse di accorgersi del prossimo e della sua sofferenza: il cuore”. Il cuore manca ai medici suoi colleghi e contemporanei?

 I passi in avanti della medicina hanno permesso progressi nel campo della diagnosi e della terapia ma questo, paradossalmente, ha portato a una relazione tra medico e paziente sempre più fredda e impersonale, orientata alla malattia oggettiva. Ma non esiste la malattia in sé: esistono i malati con le loro emozioni e le loro necessità. Per comprenderle, i sanitari devono avere capacità e volontà di dare spazio ai sentimenti, di mettersi in gioco come persone, di provare a immedesimarsi nei pazienti, ma non tutti sono in grado di farlo. D’altro canto, la formazione dei medici si basa su un oceano di nozioni in cui è facile naufragare, dal momento che non viene fornito alcun salvagente, alcuna cognizione del rapporto tra due persone, anche se questo sarà parte fondante della futura professione. Ci sono poi altri elementi come il condizionamento, l’adesione al sistema di potere, la competitività, il guadagno, che fanno sì che in molte situazioni il paziente venga visto, e trattato, come un oggetto.

In questo secondo libro lei parla di “stranieri” trattati come schiavi, e non considerati esseri umani: sta parlando della nostra società e del nostro paese?

Esattamente, ma non solo. Non voglio categorizzare o limitare ad aree geografiche. Intendo denunciare un mondo frantumato da disuguaglianze e ogni tipo di confine che emargina i più deboli e nega loro i diritti e le libertà fondamentali degli uomini. Per rimanere nell’ambito sanitario, oggi nella sanità del nostro paese molte prassi ergono barriere, confini e alimentano il meccanismo di una pervasiva “estrazione di valore”. Elevare a mo’ di totem decisore sovrano dei percorsi sanitari il software del CUP, e non le necessità dei malati; spacciare per appropriata e realistica la narrazione distopica delle normative burocratiche; utilizzare l’epidemiologia come indicatore di costi, ritardi, carenze e non uno strumento per influire sul corso delle malattie; non garantire omogeneità tra ospedale e territorio, tra pubblico e privato; separare gli aspetti sanitari da quelli sociali, fa del sistema sanitario un insieme di frontiere che discrimina le persone, portatrici di bisogni e fragilità. Le accomuna, alla fin fine, al popolo dei migranti descritto nel libro.

C’è qualcosa che avrebbe voluto dirmi e non le ho chiesto?

 Vorrei evidenziare due argomenti che ho trattato. Il primo concerne l’importanza del condizionamento da parte del potere. Nel romanzo, per fugare ogni dubbio di dittatura, il Sistema dominante ha reso docili le menti. Gli abitanti di Kaleydos sono stati connessi artificialmente a Wash Out, la rete virtuale che elimina la libertà di pensiero e li omologa a entità prive di libero arbitrio; hanno accesso a una sorta di metaverso, e solo in quello vivono relazioni e passioni in una libertà fittizia.

Quando l’ho scritto, mi sembrava una cosa lontana dall’accadere, così come le psico-Tac o le psicoscopie. Ora, a distanza di pochi anni, stiamo parlando, in effetti, di persone le cui menti sono connesse a sistemi informatici, di strumentazioni in grado di decodificare i pensieri, dei rischi di una pervasiva intelligenza artificiale. Secondo lo storico Noah Harari, quest’ultima ha hackerato il sistema operativo della nostra civiltà   e ora ci troviamo di fronte a una nuova arma che può annientare il nostro mondo e decretare la fine della storia umana. Secondo Harari: “… in futuro potremmo vedere le prime religioni fondate su testi sacri che non sono stati scritti da esseri umani”.

Il secondo riguarda l’amore per una giovane donna, Mary; cambierà per sempre la vita del protagonista e sosterrà la narrazione. Mary è bella, indipendente, libera dalle imposizioni del mondo in cui vive e, soprattutto, esponente del Movimento: il gruppo politico che lotta per una società più giusta nella quale la medicina è al servizio del malato e la politica uno strumento della democrazia e non un mero braccio del potere.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/06/blog.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-06-07 10:19:592024-06-07 11:06:12Intervista a Giuseppe Amato, medico-scrittore, di Marina Sozzi

Le tecnologie digitali nei cimiteri: una svolta democratica nel ricordo? di Davide Sisto

13 Maggio 2024/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

L’edizione 2024 di Tanexpo, una delle più prestigiose esposizioni internazionali di arte funeraria e cimiteriale, che si tiene ogni due anni a Bologna, ha testimoniato – una volta per tutte – l’ingresso trionfale delle tecnologie digitali anche nel campo dei riti funebri. Una considerevole parte di Tanexpo è stata, infatti, dedicata a un numero ragguardevole di iniziative private volte a favorire una graduale digitalizzazione dei cimiteri. Da una parte, possiamo osservare in maniera nitida le conseguenze odierne del ruolo fondamentale rivestito in tutto il mondo dai funerali in streaming durante il Covid-19. Se la pandemia li ha resi dei surrogati necessari nel momento in cui non potevamo per legge uscire dalle nostre abitazioni nemmeno in vista di un ultimo saluto al proprio caro, oggi sono aumentate considerevolmente le start up che offrono la possibilità di partecipare a distanza ai funerali, tramite gli schermi, a prescindere dall’emergenza sanitaria. Il servizio è indirizzato, soprattutto, a chi non può per ragioni contingenti essere presente nel luogo dove si svolge il rito (per esempio, a causa di una lontananza geografica significativa o per una disabilità, o ancora per problematiche di natura giudiziaria). Dall’altra, è possibile notare quante società private stiano investendo sui QR Code da posizionare sulle lapidi, di modo da creare un collegamento tra il cimitero e i luoghi online più rappresentativi del defunto, o su applicazioni per mobile device intente a riprodurre digitalmente la mappa dei cimiteri, consentendo ai cittadini di trovare più agilmente la tomba della persona amata. Al tempo stesso, queste applicazioni permettono di prolungare online i riti del commiato, tramite bacheche in cui ogni individuo può lasciare fiori e candele virtuali, nonché scrivere qualche ricordo specifico relativo al defunto.

Funerali in streaming, QR Code sulle lapidi, applicazioni per mobile device intente a fornire servizi funebri nella dimensione online: l’insieme di queste iniziative testimonia, a mio avviso, come la crisi assodata del cimitero tradizionale sia strettamente legata al bisogno collettivo di personalizzare il rito funebre. Questo bisogno corrisponde, di fatto, alle caratteristiche generali assunte dalle nostre società connesse e secolarizzate: l’abitudine decennale di utilizzare i social media, creando profili a cui far corrispondere la propria irripetibile biografia, ci ha spinto a non accettare più il carattere anonimo delle lapidi tradizionali, indistinguibili l’una dall’altra. Già negli anni Settanta antropologi rinomati come Louis -Vincent Thomas erano convinti che l’evoluzione tecnologica avrebbe portato implicitamente in primo piano il desiderio di democratizzare il ricordo, non rendendo duratura la sola memoria delle persone che si sono distinte in vita per meriti specifici o, semplicemente, che si possono permettere il lusso di acquistare a tempo indeterminato spazi all’interno dei cimiteri. Oggi, questo duplice processo di personalizzazione e di democratizzazione del rito e del ricordo è già ampiamente messo in moto, per esempio, dai funerali laici, dalla cremazione, dalla dispersione delle ceneri, leggi locali permettendo. Le tecnologie – come quella del QR Code sulla lapide – non fanno altro che portare alle estreme conseguenze la volontà di mantenere una propria unicità, ben rimarcata, anche dopo la propria morte. E i dibattiti sui social in merito a queste esigenze sono alquanto significativi: su Tik Tok, per esempio, a proposito del QR Code sulle lapidi c’è chi già immagina di imbastire il blog in cui lasciare le proprie ricette culinarie o in cui fare sfoggio delle proprie abilità fotografiche, conservando le fotografie scattate durante i propri viaggi nel mondo. Si comincia, in altre parole, a pianificare un’eredità specifica, legata alle proprie soggettive prerogative, da unire alle classiche informazioni di rito conservate nei cimiteri.

Questo cambiamento culturale potrebbe spingere i cimiteri, capaci di mettere a frutto le inedite esigenze dei cittadini contemporanei, a trasformarsi in veri e propri musei delle memorie popolari. In tal modo, potrebbero modernizzare il loro ruolo all’interno delle nostre città, recuperando una funzione che pare obsoleta in un’epoca storica in cui è sempre più ridotto il numero di chi associa il cimitero al luogo in cui si trova il proprio caro.

Voi cosa ne pensate di queste innovazioni tecnologiche? Troppo slegate dalle tradizioni acquisite? Oppure, semplicemente – come, ad esempio, io penso – la normale evoluzione di un percorso storico segnato dalla tecnologia? Attendiamo con interesse i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/qr-code-memorials-copia.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-05-13 09:50:482024-05-13 09:50:49Le tecnologie digitali nei cimiteri: una svolta democratica nel ricordo? di Davide Sisto

I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

22 Dicembre 2021/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato l’antropologa Cristina Vargas chiedendole come siano cambiati, a suo parere, i riti funebri in epoca Covid.

1. Il Covid, soprattutto durante la prima ondata, ha stravolto il nostro rapporto con la ritualità. Prima di questa esperienza di privazione dei riti, molti affermavano di essere piuttosto antiritualisti. Ma di fronte all’impossibilità di celebrare riti funebri, è parso che la consapevolezza dell’importanza dei riti sia aumentata. Condividi questa lettura?

Sì, sono d’accordo. Se intendiamo il rito funebri come il momento del funerale in senso stretto, allora il periodo di sospensione è circoscritto. Durante la prima ondata le cerimonie funebri, religiose e laiche, sono state sospese per poco più di tre mesi. Tuttavia, se adottiamo una prospettiva antropologica e intendiamo i riti funebri in un senso più ampio, come tutti quei gesti significativi che accompagnano la morte (l’ultimo addio, la preparazione e la cura della salma, la sepoltura o la cremazione e, infine, se presenti, tutti i momenti rituali che scandiscono il periodo di lutto) ci rendiamo conto che il problema è stato molto più ampio e ha toccato, in modi e misure diverse, moltissime persone.

I riti, in particolare i riti funebri, sono un bisogno profondamente radicato nell’essere umano, eppure la loro importanza qualche volta si perde di vista o tende ad essere data per scontata. Nelle scienze sociali – penso in particolare alla sociologia e all’antropologia – ci fu un interessante dibattito rispetto alla ritualità fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che può essere utile ripercorrere brevemente per capire come è mutato il nostro rapporto con i riti. Nodo centrale di questo dibattito è il concetto di “ritualismo”, proposto da Robert Merton per indicare tutte quelle circostanze in cui le persone si impegnavano in azioni e gesti rituali come una mera forma di aderenza alle prescrizioni sociali, senza che ci fosse né un’adesione profonda ai valori espressi da quei gesti, né un coinvolgimento interiore.

Il termine ebbe molto successo perché, di fatto, dava nome a un diffuso scollamento tra le forme rituali dominati e ciò che le persone percepivano come significativo nelle proprie vite. In un contesto sempre più urbano e secolarizzato, il senso dei riti si era svuotato e, per molti, quasi tutte le ritualità divennero “ritualismi”. I funerali cattolici tradizionali, per esempio, erano in molti contesti diventati dei “doveri sociali”, momenti standardizzati e freddi, incapaci di esprimere la dimensione profondamente personale di ogni perdita.

Eppure, come affermava l’antropologa Mary Douglas in quegli stessi anni, “in quanto animale sociale, l’essere umano è un animale rituale”. Il suo invito era quello di ripensare il rito senza pregiudizi, intendendolo innanzitutto come una forma di comunicazione essenziale tanto sul piano individuale quanto sul piano collettivo, poiché ha il potenziale di connettere la sfera simbolica, l’esperienza soggettiva e il gruppo sociale. Nella pandemia, il venir meno delle forme consuete per  accompagnare ritualmente la fine, ci ha reso consapevoli delle conseguenze della mancanza della funzione integrativa del rito funebre, senza il quale è difficile trovare dei linguaggi (e dei momenti) condivisi per dire addio e per socializzare il lutto.

Per tornare alla domanda iniziale, credo che quando il rifiuto della ritualità sia una scelta personale, allora esso abbia di per sé quella funzione comunicativa di cui parla Douglas: “dire di no ai riti esprime qualcosa di profondo su di me al mio gruppo sociale”. Se invece non è una scelta, ma una costrizione, l’impossibilità di ritualizzare priva chi resta di una delle più importanti risorse culturali di cui disponiamo per far fronte alla morte.

2. Il Covid ha determinato anche molte nuove esperienze rituali, con cerimonie “inventate”, come quelle celebrate in alcuni ospedali. Come vedi questo fenomeno?

Al pari di quanto è avvenuto in precedenti situazioni di crisi sociale (le guerre, le catastrofi naturali, altre epidemie che hanno colpito in passato l’umanità), le forme socialmente codificate per accompagnare la morte e per dare risposta al bisogno collettivo di ritualità si sono dimostrate impercorribili o inadeguate a tutti i livelli: individuale, familiare, comunitario e sociale. In questo scenario, nei contesti più consapevoli e attenti molte persone hanno cercato di dare risposta a questi bisogni e si sono adoperate a “costruire” nuovi linguaggi per dire addio. Questi momenti di commemorazione sono stati importanti anche per gli operatori, penso ad esempio al caso degli ospedali e delle Rsa, dove anche chi ha lavorato ha condiviso la fatica, la sofferenza e il trauma della morte non adeguatamente accompagnata.

Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo collaborato con la SOCREM Torino per proporre delle commemorazioni rituali presso il Tempio Crematorio di Torino. Nel rito sono stati centrali i nomi delle persone decedute, i simboli naturali – l’albero, il sentiero, la pietra – e le “parole non dette” che le famiglie hanno potuto deporre in una teca posizionata lungo il percorso. Nelle varie settimane in cui si sono svolte le commemorazioni molti pensieri, poesie, disegni, testimonianze d’affetto e di dolore sono state affidate ai bigliettini bianchi che settimana dopo settimana riempivano la teca.

Credo che questi tentativi siano importanti e abbiano un valore umano e sociale soprattutto quando riescono a mettere al centro il vissuto dei protagonisti e offrono loro spazi di espressione (quando non sono “ritualisti”, ma rituali… per riprendere la prima riposta).

Tuttavia “costruire” nuovi riti non è facile, perché richiede la capacità di identificare i linguaggi giusti, di riconoscere dei bisogni che non sempre sono espliciti e di offrire cornici – luoghi, tempi, oggetti e simboli – perché questi bisogni possano esprimersi in modi significativi, lontani dalle retoriche e vicini piuttosto al vissuto profondo di chi partecipa al rito.

3. In molti casi si è usata la tecnologia per partecipare virtualmente a riti funebri ai quali era impossibile essere presenti. I funerali in streaming esistevano già, per le molte persone che hanno, per svariati motivi, esistenze transfrontaliere e affetti in paesi diversi. Pensi che sia l’inizio di una prassi destinata a diffondersi?

Su questo tema ho una visione ottimista. In passato mi era capitato di assistere a funerali transnazionali e, seppur con notevoli ostacoli tecnici, era stato l’unico modo per “stare insieme” a parenti e amici nonostante la distanza geografica. Non penso che i riti in streaming siano destinati a sostituire i funerali in presenza, ma le tecnologie “virtuali” possono senz’altro essere una risorsa in più. Esse, come hai detto bene, già esistevano, ma sono diventate parte della nostra normalità durante la pandemia: ora siamo più attrezzati e possiamo usarle con maggiore dimestichezza e con maggiore consapevolezza rispetto al passato.

4. Dopo la Prima guerra mondiale, quando in ogni famiglia c’era stato un lutto, si era celebrato un rituale di lutto collettivo a Roma, con l’inumazione del Milite ignoto; e altre cerimonie locali avevano avuto luogo nell’intero paese. Credi che avremmo dovuto (anche se non siamo in guerra) fare qualcosa di analogo per il Covid?

Nonostante le molteplici differenze fra il Covid e la guerra, credo che una risposta rituale istituzionale (che ancora manca)  sia doverosa e necessaria. I riti funebri non hanno solo una dimensione individuale, ma hanno anche una funzione collettiva estremamente potente. A seconda dei linguaggi che vengono utilizzati, un funerale pubblico può aggregare o dividere, ricomporre o spaccare una società. Credo che in questo momento sarebbe utile puntare su ciò che unisce, pensare a ritualità collettive che ricordino la nostra comune vulnerabilità, il dolore subito da tutti, le forme di resilienza e solidarietà messa in campo a livello comunitario. Questo forse faciliterebbe il rafforzamento di legami sociali che oggi sono piuttosto tesi e rischiano di polarizzarsi ulteriormente.

L’esempio della prima guerra mondiale mi sembra utile anche per riflettere sulla dimensione monumentale, parte essenziale della memoria storica: come si racconterà la pandemia attraverso i monumenti? Quali aspetti si sceglierà di inscrivere nella pietra o nel marmo? Sono scelte importanti su cui, con i tempi e le modalità giuste, credo sia necessario aprire un dibattito pubblico.

4. C’è qualcosa che avresti voluto dire e che non ti ho chiesto?

Mi sento di dire che il Covid è stata un’esperienza epocale che, in un modo o nell’altro, ha modificato le vite di ciascuno di noi. La pandemia, e tutto ciò che ad essa si può ricondurre, ci ha costretto a misurarci con il peso della solitudine e della vulnerabilità, a rivedere le nostre priorità e a ripensare molte cose che in passato tendevamo a dare per scontate, non solo la ritualità. Molti lavori in ambito storico e sociologico hanno rilevato che, quando le paure si attenuano, le grandi epidemie sono sovente seguite da fenomeni di amnesia sociale. Credo, dunque, sia necessario attivarsi fin da subito per non rimuovere la sofferenza individuale e collettiva che ha caratterizzato questo tempo complesso che siamo stati chiamati a vivere. Mi sembra che dare spazio a una pluralità di prospettive sulla pandemia, come stai facendo tu in questo blog, sia un primo passo fondamentale in questa direzione.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/12/153701-md-e1640162751163.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-12-22 09:48:482021-12-22 09:48:48I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

I funerali in streaming nel mondo non occidentale, di Davide Sisto

12 Gennaio 2021/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Nei primi giorni del 2021 si è diffusa nel mondo la notizia relativa al fatto che Microsoft sta pensando di utilizzare l’intelligenza artificiale per creare un “chatbot” che ci permetta di dialogare con i nostri cari defunti. In termini meno tecnici, si tratta di dare autonomia a tutte le tracce dell’esistenza del singolo individuo, che sono state progressivamente condivise nel mondo online sotto forma di parole scritte, registrazioni vocali e video: tali tracce vengono cioè rielaborate artificialmente, in modo tale da creare lo spettro digitale del morto, il quale ha il compito di sostituire il suo gemello biologico una volta che è deceduto.

Di questi temi ho parlato spesso nel blog, quindi non mi soffermo ulteriormente sulle conseguenze di una simile invenzione. Menziono però questa notizia perché per la prima volta un colosso commerciale come Microsoft si è interessato a un simile fenomeno, finora diffuso soltanto tra scienziati particolarmente propensi a rendere reali i propri sogni fantascientifici. Ciò testimonia in maniera cristallina il segno dei tempi: la tecnologia interferisce sempre di più nel legame tra il vivere e il morire, dunque dovremo abituarci a tenerne conto in tutti i percorsi formativi che concernono le problematiche riguardanti il fine vita. Ne dovremmo tener conto ancor di più una volta superata l’emergenza pandemica che stiamo vivendo: le reclusioni casalinghe dei corpi, nel corso dei vari lockdown, hanno infatti accelerato il processo che tende a sostituirli o a prolungarli tramite i “corpi digitali” proiettati attraverso gli schermi.

Se gli spettri digitali dei morti rappresentano la conseguenza più estrema dell’interferenza tecnologica tra il vivere e il morire, vi sono altri aspetti di natura culturale o rituale che fanno ora ampiamente parte della nostra vita quotidiana: sto pensando, per esempio, ai funerali in streaming, i quali hanno permesso ai dolenti di partecipare – a distanza – alle funzioni funebri nelle fasi più restrittive del lockdown.

Ma i funerali in streaming sono un’esclusiva del mondo occidentale fortemente tecnologizzato o sono diffusi in tutto il mondo, al di là delle differenze religiose, culturali, sociali, ecc.? La risposta, sulla base di ciò che si legge sui giornali internazionali, va nella direzione della seconda opzione. Non vi è, cioè, territorio nel mondo che non abbia deciso di adottare le tecnologie digitali per le ritualità funebri, di modo da evitare assembramenti nocivi alla salute dei cittadini e ciò è accaduto al di là del numero di cittadini dotato di una funzionante connessione al web.

Ad esempio, in Africa, risalta la situazione che si è verificata in Ghana, paese prevalentemente cristiano. I suoi eccentrici riti funebri sono famosi in tutto il mondo: i funerali possono durare anche sei-sette giorni, coinvolgendo centinaia di persone, tra le quali vi sono anche coloro che vengono pagati per piangere il caro estinto. Durante il Covid-19, il presidente del Ghana ha sospeso questo tipo di ritualità: non più di 25 persone possono partecipare al funerale, il quale è trasmesso online e in streaming per permettere a tutte le altre persone della comunità di essere presenti. Una giornalista locale ha evidenziato la stranezza di stare in jeans o, addirittura, in pigiama durante la cerimonia funebre, a cui ha partecipato stando davanti allo schermo. La CNN ha addirittura parlato di una tradizione funebre centenaria che, di colpo, si è radicalmente tecnologizzata, affrontando una metamorfosi i cui esiti futuri sono del tutto incerti.

In India non vi è pluralità religiosa che tenga: tutti i riti si sono trasferiti ugualmente sulla piattaforma Zoom. I luoghi sacri in cui si celebra il funerale vengono invasi da telecamere e microfoni i quali permettono la celebrazione del rito. Si stima, invece, che i siti web dei cimiteri pubblici di Shanghai abbiano ricevuto quasi un milione di visite da metà marzo a fine aprile 2020. Mentre in Giappone è divenuta quotidiana l’espressione “net yohai” per descrivere il funerale trasmesso in streaming: net significa “essere online” mentre yohai indica l’atto del pregare senza visitare il tempio o la chiesa. In molti altri paesi orientali, soprattutto la Corea del Sud e la Cina, la mutazione digitale delle ritualità tradizionali è in corso da diverso tempo: i cimiteri, da molti anni, sono dotati di telecamere e di connessione wifi per permettere ai cittadini lavoratori di prendere parte ai funerali o di far visita alla tomba del proprio caro tramite gli schermi, non potendo lasciare il posto di lavoro.

Le interpretazioni di questi fenomeni sono alquanto complesse e varie, richiedendo – a mio avviso – la capacità di mantenere un atteggiamento che non sia né eccessivamente apocalittico né superficialmente entusiastico. Man mano che passano gli anni, il mondo sarà sempre più popolato da cittadini “iperconnessi” fin dalle scuole elementari. L’integrazione tra mondo online e mondo offline obbliga, pertanto, a compiere riflessioni che tengano conto del mutamento ritualistico in corso, implicando uno studio attento delle caratteristiche sia tecniche sia psicologico-antropologico-filosofiche degli strumenti digitali. Solo così, riusciremo a evitare gli effetti più negativi di questa invasività tecnologica (la distanza, la solitudine, l’assenza), mettendo a frutto il nuovo modo di stare al mondo. Voi cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti e le vostre esperienze.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/01/messa-in-streaming-e1610387650392.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-01-12 09:24:512021-01-12 09:24:53I funerali in streaming nel mondo non occidentale, di Davide Sisto

Vuoi sapere quando scrivo un nuovo articolo?

Iscriviti alla nostra newsletter!

Ultimi articoli

  • Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi
  • Le app per il lutto: opportunità o rischio? di Davide Sisto
  • La morte nel Buddhismo e la spiritualità nei contesti ospedalieri, di Cristina Vargas
  • Il lutto della vedova, ieri e oggi, di Marina Sozzi
  • Quando la musica e il canto sono al centro del rito funebre, di Cristina Vargas

Associazioni, fondazioni ed enti di assistenza

  • Associazione Maria Bianchi
  • Centre for Death and Society
  • Centro ricerche e documentazione in Tanatologia Culturale
  • Cerimonia laica
  • File – Fondazione Italiana di leniterapia
  • Gruppo eventi
  • Soproxi
  • Tutto è vita

Blog

  • Bioetiche
  • Coraggio e Paura, Cristian Riva
  • Il blog di Vidas
  • Pier Luigi Gallucci

Siti

  • Per i bambini e i ragazzi in lutto

Di cosa parlo:

Alzheimer bambini bioetica cadavere cancro cimiteri coronavirus Covid-19 culto dei morti cura cure palliative DAT Death education demenza dolore elaborazione del lutto Eutanasia Facebook felicità fine della vita fine vita formazione funerale hospice living will Lutto memoria morire mortalità Morte morti negazione della morte pandemia paura paura della morte perdita riti funebri rito funebre social network sostegno al lutto suicidio Suicidio assistito testamento biologico tumore vita

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy
  • Copyright © Si può dire morte
  • info@sipuodiremorte.it
  • Un Progetto di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/clessidra.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-16 10:59:552025-05-16 10:59:55Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/evidenza.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-05 10:39:252025-05-05 10:39:25Le app per il lutto: opportunità o rischio? di Davide Sisto
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/04/kisa.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-04-18 10:11:012025-04-18 10:15:55La morte nel Buddhismo e la spiritualità nei contesti ospedalieri, di Cristina Vargas
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/Carl_Wilhelm_Huebner_-_The_Mourning_Widow_1852_-_MeisterDrucke-569456-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-04-02 11:17:302025-04-02 11:17:30Il lutto della vedova, ieri e oggi, di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/foto-evidenza.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-03-24 09:10:252025-03-24 09:11:32Quando la musica e il canto sono al centro del rito funebre, di Cristina Vargas
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/reddit.png 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-03-08 09:43:542025-03-07 15:35:21Reddit e le comunità online sul lutto, di Davide Sisto
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/toscana.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-17 10:55:232025-02-17 10:57:34La legge toscana sul suicidio assistito. Intervista a Francesca Re, di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/paura-della-morte-1-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-04 10:24:362025-02-04 10:24:36Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/01/Piano-condiviso-delle-cure-1-2048x1163-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-01-20 10:01:552025-02-03 18:22:38Pianificare le cure: nuovi strumenti per il dialogo tra operatori e pazienti, di Cristina Vargas
Prec Prec Prec Succ Succ Succ

Scorrere verso l’alto Scorrere verso l’alto Scorrere verso l’alto
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkLeggi di più