WhatsApp e il messaggio diretto al morto, di Davide Sisto
Ero al bar con una mia amica e, a un certo momento, cominciamo a parlare a proposito dell’elaborazione del lutto. Lei mi racconta che le è morto il fidanzato qualche mese prima e di quanto fosse a lui legata. Al punto che, il giorno della sua laurea, diversi mesi dopo la morte, non appena viene proclamata Dottoressa ha l’istinto di prendere il cellulare, andare su WhatsApp e mandargli un messaggio per informarlo.
Non ho voluto chiederle perché lo abbia fatto. Non mi è sembrato lì per lì il caso. Però, questo aneddoto mi ha fatto molto riflettere, soprattutto perché – nei miei attuali studi filosofici – sto cercando di capire quanto la cultura digitale influisca sul nostro rapporto con la morte e con il lutto, modificandolo. Già a luglio 2016, su questo blog, avevo scritto a riguardo del legame tra la morte e Facebook, oggi il più grande cimitero (virtuale) che vi sia al mondo, quotidianamente davanti agli occhi di tutti.
Il messaggio diretto alla persona morta su WhatsApp apre, però, un altro orizzonte di considerazioni, molto particolare, che in un certo senso lambisce l’orizzonte dei vari social network, ma ampliandone la portata. Innanzitutto, non ha nulla a che vedere con le parole di commiato pubblicate su Facebook o, in alternativa, con la canzone e la poesia composte per esprimere la propria sofferenza e dare forma all’addio: tutti questi casi sono, che ci piaccia o no ammetterlo, documenti pubblici che, pur rivolti direttamente al morto, vogliamo vengano letti e condivisi anche dagli altri. Non ha nemmeno nulla a che vedere con il diario personale, perché il diario non presuppone vi sia un lettore. Lo scrivo per me stesso, per esprimere i miei pensieri e i miei sentimenti; magari, idealmente e simbolicamente, penso che quelle parole saranno lette dalla persona che ci manca, tuttavia – anche se utilizzassi uno stile di scrittura rivolto al morto – le parole resterebbero tra me e me. Al massimo, c’è il rischio che vengano lette da chi si appropria, con o senza il mio permesso, del diario.
Il messaggio diretto al defunto su WhatsApp è un messaggio privato, confidenziale, che viene letteralmente “spedito”; la ragazza ha spedito un’informazione direttamente al compagno che non c’è più. L’ha indirizzata proprio a lui e a nessun altro. Pertanto, tale messaggio può essere letto, a rigor di logica, soltanto dalla persona viva che lo scrive e, ipoteticamente, dalla persona morta che lo riceve. Nel momento in cui viene dato sul proprio cellulare l’invio, ci può forse essere la speranza di vedere sullo schermo, prima, la comparsa della doppia spunta quale segno del messaggio recapitato e, poi, il divenire blu di questa doppia spunta quale segno del messaggio letto. Ma, al di là di una simile speranza, c’è un gesto simbolico ben preciso, apparentemente in contrasto con la razionalità e con la realtà: la volontà di comunicare una notizia gioiosa – la laurea – alla persona con cui la si sarebbe voluta maggiormente condividere.
E, allora, WhatsApp, se utilizzato in un’ottica appunto simbolica, con la chiara coscienza della realtà della morte, può divenire un tramite romantico tra chi è rimasto e chi non c’è più. Un modo per mantenere vivo, nella propria mente e nel proprio sentire, il legame. Magari immaginando la felicità e l’orgoglio che avrebbe provato lui, fosse stato lì in vita, vedendo la sua compagna laurearsi. Personalmente, non sottovaluterei la portata simbolica e romantica di questo gesto, anzi mi sembra un modo di esprimere quel “legame continuo” tra l’aldiquà e l’aldilà, teorizzato da numerosi filosofi del passato (il romanticismo tedesco ottocentesco, per esempio) e da diversi psicologi odierni e, mai come oggi, avvalorato da quel corpo tecnologico – che è il digitale – in cui si conserva lo spirito delle persone, vive o morte che siano. Inoltre, il fatto che rimanga, dinanzi agli occhi di chi ha spedito il messaggio, la sola spunta della spedizione, senza quella della ricezione, può essere un modo in più per prendere coscienza dello stato delle cose presenti. Quindi, per comprendere l’assenza e la perdita definitive, per farsi una ragione del carattere irreversibile della morte e, dunque, per unire alla natura benefica dell’immaginazione quella pratica del raziocinio.
Vi è mai capitato di scrivere un messaggio o una lettera direttamente a un vostro caro deceduto? E come valutate questa esperienza? Attendo testimonianze e pensieri.
Caro Davide, questa volta sono parzialmente in disaccordo con te, o forse, anche per ragioni generazionali, vedo questa opzione di mantenimento del ricordo dei defunti (il messaggio di whatsapp in particolare) più come un pericolo che come una risorsa per l’elaborazione del lutto.
Gli psicologi hanno spesso affermato che occorre innanzitutto, per poter cominciare a elaborare la perdita, prendere coscienza dell’avvenuta morte. Sembra scontato ma non lo è. I dolenti spesso raccontano di avere l’impressione di riconoscere le fattezze del proprio caro tra la folla, o di sobbalzare per un rumore sentito in casa, o per l’impressione che la porta di casa stia per aprirsi. Prendere coscienza che la persona che abbiamo amato non c’è più, in modo irreversibile, non è un immediato dato di fatto, ma un percorso interiore, spesso faticoso. Siamo sicuri che poter inviare al defunto un messaggio diretto (seppur senza doppia spunta azzurra…) non alimenti l’illusione della presenza, rinviando di fatto l’inizio di una sana elaborazione della perdita? Sarei curiosa di conoscere l’opinione dei nostri lettori! (Marina Sozzi)
Anche io sono in disaccordo, e non credo si tratti di gap generazionale. Trovo che stiamo “esagerando” forse anche nel parlarne ..Whatsapp è totalmente inutile riguardo ad una persona defunta! Scusate ma non trovo vie di mezzo. E cerchiamo di dare alle cose, il suo giusto posto, o la sua funzione.
Occorre considerare anche che- il cellulare del defunto, può essere usato da un familiare ,o ..soppresso.
quindi.. trovo corretto E condivido, – iniziare una SANA Elaborazione della perdita.
Serena Oro.
Rispetto la sua opinione e anzi la ringrazio per il commento. Le dico, secondo me, non stiamo esagerando nel parlarne, poiché è un problema che tocca molte persone. Molto più di quanto possiamo immaginare. Penso, comunque, che non ci sia nulla di male a fare quello che ha fatto la mia amica e che ho raccontato nel post, ovviamente se per lei ha un significato che si accompagna a una sana elaborazione del lutto. Le due cose non si escludono. Vi sono, comunque, oggi molti studi sulla cosiddetta Digital Death e sui problemi futuri che il web e la cultura digitale in genere generano nel nostro rapporto con il lutto. Non li sottovaluterei, benché io per primo penso che occorra fare molta attenzione. Comunque, grazie ancora per l’opinione.
Scrivo ogni giorno a mia madre da due mesi…come sempre….se non lo faccio mi sembra di perderla…mi fa male il cuore
Mi dispiace, non vorrei essere provocatorio, ma molti interventi di Davide, soprattutto questo, mi sembrano fuori luogo e depistanti da questioni vere. Marina riporta il parere degli psicologi. Perché allora non invitare, o citarne uno, o ancora un sociologo, sulla nostra paura/rimozione della morte e di quanto le è connesso (malattia grave) nella nostra società occidentale? Posto che abbiamo da tempo individuato questo cardine del problema, credo che sarebbe un punto di vista utile per analizzarlo in tutte le sue sfaccettature.
Condivido, in parte, le vostre perplessità. Soprattutto la lettura del lato patologico di questo tipo di legame. Tuttavia, trovo interessante – dal mio punto di vista – un altro lato della questione. Quello che si riconduce al concetto di “Continuing Bond” elaborato da alcuni psicologi nella seconda metà degli anni ’90. Vale a dire, in parole molto povere, di come non sia detto che sia nocivo portare avanti, dopo la morte, il legame che abbiamo avuto con le persone amate. “Il legame continuo” è, cioè, il tentativo di elaborare il lutto, continuando a portare avanti il legame con la persona amata in forme differenti rispetto al legame avuto in vita (forme ovviamente simboliche). Un testo di riferimento, a riguardo, è questo: “Continuing Bonds: New Understandings of Grief (Death Education, Aging and Health Care)” di tre autori, Klass, Silverman e Nickman. Tra l’altro, il “Continuing Bond” si lega molto al concetto filosofico tedesco di “Band” (=legame come corrispondenza amorosa) tra mondo naturale e mondo spirituale, elaborato nel XIX secolo. Al di là degli aspetti teorici, trovo che questa teoria si applichi bene alla situazione odierna in cui ci troviamo con l’uso dei mezzi digitali. Certo, comprendo le perplessità e mi rendo conto anche dei rischi di sostenere questa posizione, qui appena accennata. Tuttavia, potrebbe essere una teoria utile per affrontare la perdita in un’epoca in cui gli strumenti digitali non fanno altro che impedirci, quotidianamente, di staccarci da chi non c’è più.
Se mi è concesso, riguardo al “Continuing Bond”, ho scritto in passato mie opinioni riguardo alla metafisica e sviluppo della percezione della presenza del -ns caro passato in altra dimensione.
Anche questo è un modo per elaborare e , fare un passo in piu- ovviamente quando la persona lo sente ed è pronta interiormente. Qui si possono avere dei veri contatti , sempre rispettando chi ci crede o meno.
Cari saluti.
a margine del commento precedente, oggi vi è una relazione posta, da parte degli studiosi, tra gli strumenti digitali e il Continuing Bond. Non è detto che il collegamento sia corretto, però occorre tenerne a mente, A parte ciò, concordo con ciò che scrive.
Ciao serena.. Sarei interessata a questo lato della cosa, dove posso trovare i tuoi scritti?
Trovo interessante la considerazione di Davide sul concetto di “Continuing bond”, citata a questo proposito (anche se naturalmente l’idea del legame che continua si riferisce al posto da trovare al morto nella vita che continua…che in nessun caso può essere lo stesso posto che aveva in vita, altrimenti siamo nel lutto patologico).
Alla sollecitazione di Giovanni di parlare di paura della morte risponderemo presto, vero Davide?
Assolutamente, ne parleremo a breve. E le osservazioni di Giovanni sono sempre molto puntuali.
Grazie a Davide per il chiarimento: così capiamo meglio. E certo, gli attuali strumenti digitali – sempre più dominanti – vanno presi in considerazione, anche se non smuovono di molto questo tipo di problemi. Grazie anche a Marina: attendiamo dunque novità. Se posso aggiungere un’altra proposta, certo di difficile realizzazione, in ogni caso impegnativa: creare un maggior “collante”, un dialogo fra i vari interventi, come è avvenuto in questo caso. Tempo fa c’era in misura maggiore. Penso, ad es., a certi drammatici appelli come quello di Maria Cristina Rinaldi, in fondo al post “La nuova frontiera delle cure palliative”; ma anche lasciare un commento e poi non avere nessuna risposta a volte è demotivante. Infatti, se posso dire, gli interventi mi sembrano un po’ diminuiti ultimamente…. O sbaglio? Grazie.
Leggo con interesse i vostri post e commenti.
In effetti, sono una di quelle persone che ha lasciato commenti che non hanno ricevuto risposta ma la cosa non mi ha demotivato.
Concordo con Giovanni che la nostra società è terrorizzata dalla morte e la tiene lontana il più possibile dalla vita di tutti i giorni, il che crea non pochi problemi quando la morte si presenta a reclamare ognuno di noi.
Avendo vissuto due lutti importanti come quello di mio fratello e mio papà a poca distanza l’uno dall’altro, ho trovato che non è sempre facile elaborare il lutto e parlarne perché dopo il primo periodo c’è la tendenza a rimuovere la cosa. E anche la gestione dell’evento morte secondo me è assolutamente poco rispettosa e adeguata, anche negli aspetti più pratici, come la preparazione della salma ad esempio.
Io sono infermiera e nel mio lavoro noto anche che perfino gli operatori fanno fatica a confrontarsi con la morte e spesso non sanno bene come approcciare chi rimane dopo un decesso.
Mi piacerebbe se ne parlasse di più
Grazie, Elena, del commento. Il problema è proprio alla base: la difficoltà ad affrontare il pensiero e la realtà della morte. Per me è naturale occuparmene, perché non mi ha mai spaventato particolarmente. Fa parte della vita. Purtroppo o, a volte, per fortuna – a seconda delle singole esperienze di vita – sappiamo che ogni nostra attività, ogni nostra gioia, così come ogni nostra preoccupazione potrebbero interrompersi da un momento all’altro. Ecco: non mi spaventa particolarmente perché fin da bambino ho sempre percepito questa spada di Damocle sopra la testa. In effetti, mi spaventa di più la morte delle persone a me vicine. Mi spaventano di più la sofferenza e il dolore che provoca. Ma cerco di vivere consapevole della precarietà e della limitatezza della vita. E sono pure una persona solare quanto basta. Credo che vivremmo tutti meglio se la tenessimo più all’interno della nostra vita e se imparassimo a convivere con lei. Daremmo un peso diverso alle cose superflue, probabilmente ci renderemmo pure conto di quanto siano belle le piccole e grandi cose che viviamo ogni giorno. Inoltre, sapremmo creare meglio il legame sociale attorno al lutto; non ci ritroveremmo in quella condizione in cui ognuno non sa come comportarsi, cosa fare, cosa dire. E sapremmo anche meglio comprendere, nel tuo campo di lavoro, quando è necessario lasciare andar via il paziente. Proveniendo dal mondo della filosofia, sono convinto che sarebbe molto utile incentivare le collaborazioni lavorative tra il campo umanistico e quello scientifico in riferimento al fine vita. Nel caso specifico del post, mi viene da pensare come la tecnologia e la cultura digitale creino nuove risorse e nuove problematiche in riferimento al fine vita. Problematiche che, appunto essendo inedite, necessitano di studi e di interazioni disciplinari. L’impulso a continuare a cercare la persona che non c’è più tramite gli strumenti comunicativi quotidianamente usati, come WhatsApp, ha infatti conseguenze sia positive, come penso in parte io, sia negative, come pensano Marina e Giovanni. Discuterne fa bene. Certo, come dici tu, c’è ancora tanto lavoro da fare per evitare di rimuovere la morte, perché la si sente inopportuna all’interno della nostra vita quotidiana.
Come te. anch’io sono più preoccupata della morte e del dolore delle persone a me care.
Pensavo che la perdita dei miei cari portasse con sé una maggiore comprensione della vita, e la capacità di godere pienamente ogni istante. In realtà, forse per il fatto di aver vissuto tre lutti a breve distanza l’uno dall’altro, e di questi due traumatici e inaspettati, e forse anche una mia personale difficoltà ad adattarmi alla situazione, a me è rimasta soprattutto una grande ansia riguardo alla precarietà della vita, che anziché permettermi di godermela al meglio, mi fa temere ogni imprevisto. Ci sto lavorando.
Concordo sull’importanza di affrontare le tematiche relative al fine vita, soprattutto quando si tratta di persone anziane, e vorrei si affrontasse anche il problema della cura della salma dopo la morte e dei rituali di sepoltura e ricordo, che nella nostra società sinceramente hanno perso molto del rispetto e della sacralità che hanno sempre avuto.
Vorrei aggiungere un’altra cosa: nella nostra società è come se, dopo la morte, le persone non appartenessero più a chi le ha conosciute o amate, ma diventassero ostaggio di regole burocratiche che decidono che fine farà il loro corpo, pur nel rispetto delle scelte del defunto o dei familiari. Solo io ho questa sensazione? La mancanza di tempo da passare con la salma, la sensazione che tutto debba essere fatto in fretta così da chiudere questo capitolo….
Grazie a Elena per la sua testimonianza, sia come donna che come infermiera. Quello che dice, come conferma Davide, centra i fulcro dell’eterno problema della società occidentale: il pessimo rapporto con la morte, e di quanto le è connesso. Confermo che, nel lutto, a parte di primi giorni, si rimane soli, tagliati fuori dal ritmo vitalistico della nostra società, tanto è vero che, per elaborare un lutto, spesso ci si rivolge allo psicologo, o è necessario rivolgersi a un gruppo di sostegno (come insegna l’attività di Marina a Torino). Lo stesso avviene per la malattia grave: ci sono persone che pretendono il te stesso che eri “prima” e, se non lo ritrovano, si stancano e ti abbandonano (se non si sono eclissati già prima, davanti alle cattive notizie): non si sa più come approcciarsi a queste questioni, si è inetti e impreparati. Occorre del vero e proprio coraggio, una spinta empatica, per farsi avanti, per sostenere una persona malata o in lutto. Personalmente non mi sono mai mancati, ma devo dire che mi hanno stupito in senso negativo non poche amicizie.
Elena affronta anche un argomento nuovo: la cura della salma. Il film giapponese “Departures”, per chi l’ha visto, ci insegna quanto siamo lontani e indietro in questo campo. Personalmente ho avuto giusto 5 minuti per stare accanto a mia madre morta, poi gli infermieri mi misero fretta, e una persona amica presente commentò: “meglio non stare troppo vicino ai morti, occorre staccarsi”. Pochi minuti dopo, mentre salutavo infermieri ed altri degenti, vidi correre per il corridoio una sorta di feretro in metallo, dentro il quale veniva portato via il corpo. L’indomani portai i vestiti nell’orrenda, spoglia, disadorna, vergognosa camera mortuaria e, quando mi fu concesso di vederla, mi accorsi che nessuno aveva avuto nemmeno l’accortezza rispettosa di chiuderle la bocca. Lo stesso notai nelle salme vicine, malamente separate da misere tende. Tutto doveva avvenire in fretta, ma senza un minimo di accorgimento per dare all’iter una parvenza di umanità e rispetto. Benchè mia madre non fosse credente, scelsi una breve messa nella chiesa all’interno del cimitero addetto alla cremazione, dove vi è anche uno spazio laico per sostare per parenti e amici. Ma anche quello, in un gran via-vai di bare, mi apparve un luogo tetro e disadorno: non si sapeva quasi più cosa eravamo lì a fare. Ci si deve rivolgere a se stessi, per smaltire un lutto si deve trovare un modo, da soli. Personalmente ho trovato una mia strada scrivendo.
Per quanto riguarda la “nostra” morte, ringrazio anche Davide, e confesso che gli invidio tanta serenità al riguardo. Dalla sua provenienza filosofica saprà senz’altro quanto secoli di magnifiche costruzioni della filosofia e delle religioni abbiano cercato di dare un senso alla vita umana, proiettato anche dopo la morte. Cadute queste illusioni, l’uomo – specie occidentale – è più esposto al vuoto di significato, soprattutto di fronte alla morte: anche perchè – nel nostro “horror vacui”, la nostra vita viene riempita fino all’inverosimile da mille stimoli (incluso internet, che per altri versi trovo utilissimo) che ci distraggono e sembrano avere proprio lo scopo di distrarci e non pensare. E’ vero, esistono filosofie/religioni che sottolinenano l’impermanenza di tutte le cose terrene (vedi il Buddismo, e l’Oriente in genere); esistono paesi – dal Giappone all’India all’Africa – dove la cultura è molto più radicata nella terra, nelle leggi della natura, che vengono accettate più serenamente, a volte fin con un eccesso di fatalismo. In Occidente andiamo in direzione opposta.
Poi, se ho inteso bene, Davide è molto più giovane e, a quell’età l’intensità del vivere è così forte tanto da essere vicina alla vita quanto alla morte. E’ quando, con fatica, simbolicamente si costruisce una propria casa nel mondo, che la prospettiva tende a cambiare. Per “casa” intendo, una famiglia, degli affetti, delle passioni, che costituiscono la nostra identità. Che il nostro essere individuale vada perso è un dato naturale, inevitabile. Quello che fa male è il taglio brutale dei legami affettivi, come ammette lo stesso Davide: che, tale e quale avviene per chi ci sta vicino quando la morte ci riguarda in prima persona. Tanto che, da malato di cancro, non so se preferirei sopravvivere a chi mi sta accanto per proteggere l’altro dal dolore, ma nemmeno so immaginare chi dei due sarebbe in grado di sopravvivere meglio; oltretutto, invecchiando, questo senso di precarietà rende ancora più fragili. Nel senso migliore del termine, vivendo noi “costruiamo” il nostro stare al mondo. Lasciandolo, non solo perdiamo noi stessi, ma provochiamo la distruzione di quanto affettivamene abbiamo creato, che sopravvive solo nel ricordo. Fino a che anche quello sarà spento, con l’avanzare delle generazioni. E’ la vita, è la morte: ci tocca. Ma dobbiamo trovare il modo di vivere meglio entrambe le cose. E’ questione di importanza cruciale.
Sulla cura della salma: concordo con entrambi. Era uscito qualche tempo fa, su un quotidiano, un articolo che paragonava le azioni che si svolgono nei momenti successivi al decesso a una specie di catena di montaggio, apatica, veloce e senza un briciolo di umanità. Poiché non c’è tempo, ci sono troppi pazienti, e via dicendo. Il film citato, “Departures”, sulla figura del tanatoesteta in Giappone è bellissimo e ci dovrebbe riportare all’interno di uno spazio pubblico in cui si concede tempo alle persone. Ma, basta guardare il mondo lavorativo: troppo spesso, a malapena ti viene dato il tempo di partecipare al funerale. Figurarsi se ti si concede il tempo per affrontare il dolore successivo alla perdita. La nostra società, da questo punto di vista, funziona molto male. E, anche in casi come questi, occorrerebbe una maggiore cultura della morte e della perdita sul piano dell’educazione civica.
Per il resto, sì, sono abbastanza giovane e ho una formazione filosofica, che sto portando avanti nella precarietà accademica successiva al dottorato di ricerca. Conosco bene come si è trasformata la nostra cultura della morte, da un punto di vista filosofico. In fondo, filosofia e società si incrociano costantemente. E da tempo viviamo, rispetto al passato, un rapporto più problematico con il fine vita. Si riuscisse, anche in questo caso, sul piano educativo a mutare la situazione e a creare sin dall’inizio cittadini che fanno i conti con l’intreccio tra vita e morte, qualche strumento in più per affrontare tutte le paure e le ansie riguardo alla mortalità nostra e degli altri lo avremmo. Anche se bisogna comunque fare i conti con la sofferenza e il dolore che la mortalità porta con sé
Mi fa piacere vedere che sia Giovanni che Davide conoscono il film “Departures”. Io non lo conoscevo e ne sentii parlare per la prima volta da mio fratello quando, chino sulla salma della sua ex fidanzata, lamentava la poca cura delle salme che abbiamo nel nostro Paese, per poi andare in una toilette dell’obitorio a bagnare un fazzoletto di carta e pulirle così le labbra e le narici dove vi erano alcune crosticine che nessuno aveva pensato di togliere.
Non immaginavo che dopo poco più di un mese avrei visto lui sul tavolo dell’obitorio. A causa del motivo della sua morte, un incidente stradale, il suo corpo è stato sottoposto ad un’autopsia ed io, ingenuamente, il giorno dell’esame autoptico, ho preso da parte il medico che si stava apprestando all’esame e l’ho pregata (era una donna) di avere cura del corpo di mio fratello e di essere delicata. Che ingenua davvero!
Il giorno del funerale, quando l’ho rivisto, ho rivisto un corpo che non era più quello di mio fratello. Un corpo guastato non solo dalla morte ma anche dalle mani dell’uomo. E pensare che dopo l’incidente sembrava che dormisse….
Quando è mancato mio padre, pochi mesi dopo, ho chiesto espressamente che a prepararlo non fosse il personale dell’obitorio dell’ospedale ma quello delle pompe funebri. Ho dovuto firmare un modulo in obitorio nel quale dichiaravo che sceglievo io di avvalermi di un servizio a pagamento e sono contenta di averlo fatto. La salma di mio padre è stata trattata con maggior rispetto pur in un ambiente squallido come quello dell’obitorio di un ospedale. E credo che da noi in Italia la tanatoestetica sia assolutamente sottovalutata
Per fortuna “Departures” aveva vinto l’Oscar come miglior film straniero, altrimenti, con quel tema, penso non sarebbe mai arrivato sui nostri schermi. Non credo comunque sia necessaria una tanatoestetica fin eccessiva come quella che avviene in America, dove la salma viene imbellettata e a volte semi-imbalsamata, ma che questa venga trattata da mani rispettose e, se possibile, amorose. Cosa ancor possibile oggi? Elena, tu ti sei affidata alle pompe funebri con un risultato sicuramente più accettabile. Ma penso – senza alcun rimpianto, sia detto – alla famiglia patriarcale, dove – correggetemi se sbaglio – la vestizione del morto era compito delle donne di casa. Perduto questo senso del rito collettivo, chi se la sente più, oggi, di far questo, magari da solo? Però nel film, i momenti più toccanti – quando anche la moglie finalmente “capiva” – erano quando il protagonista si occupava dell’anziana amica, e poi del padre. In quei casi finalmente quel lavoro socialmente disprezzato acquistava quel surplus di profondamente umano.
Caro Giovanni, a tale proposito, la settimana scorsa è morta mia zia che viveva a Taranto.
E’ morta in ospedale, ma le sue figlie hanno chiesto di poterla portare a casa e l’hanno vestita loro, e così fece anche una mia collega con la sua mamma. Credo che alcune persone non abbiano perso questa capacità di toccare con amore il corpo di chi da vivo magari ha toccato e curato loro con amore. In fondo restituiamo in questo modo parte delle cure che abbiamo ricevuto. Ma mi rendo conto che non tutti sono disposti a farlo e non tutti se la sentono.
In Giappone la pratica della tanatoestetica, trattata nel film Departures, è molto importante da un punto di vista simbolico, anche perché rientra all’interno di una cultura in cui il rapporto anima e corpo è differente dal nostro, cioè si pensa a una maggiore unità tra le due componenti. Noi difficilmente ci stacchiamo dalla tradizione dualistica in base alla quale c’è una netta distinzione tra i due. Distinzione che rende particolarmente problematico il ruolo simbolico del corpo del defunto. Consiglio, a proposito, il bel libro di Gian Vittorio Avondo, “Geografie della memoria. Viaggio tra i riti e i luoghi di sepoltura nel mondo”, libro patrocinato da Infine Onlus, che stasera abbiamo presentato al Circolo dei Lettori di Torino. Questo libro tratta di tutti i diversi culti funebri delle diverse tradizioni nel mondo. La parte sul Giappone e sulla tanatoestetica è molto ben scritta e ricca di descrizioni.
Grazie per aver segnalato questo testo lo cercherò perché l’argomento è davvero appassionante.
E grazie per questo blog dove si possono affrontare questi argomenti con sensibilità e competenza.
Grazie, Davide, della precisazione sulla cultura giapponese. Di discorso in discorso quanta strada si è fatta: da WhatsApp alla salma agli obitori ai cimiteri, al Giappone…Di sicuro il nostro atteggiamento verso il cadavere è anche un retaggio del dualismo anima-corpo, di matrice cristiana. Anche se penso che ben pochi, ormai, oltre ai credenti, confidino più nell’esistenza dell’anima; piuttosto c’è una vaga concezione di “spirito”. Il fatto è che comunque sgomenta un corpo privo del soffio vitale, cui c’è da aggiungere la paura ancestrale verso i morti. Forse dovremmo ripensare anche il nostro rapporto con il corpo, visto come un involucro da esibire, da piegare alle nostre esigenze, ma ai cui bisogni si dà poco retta, se non quando si ammala: e che quando si muore, spaventa. Il nostro corpo diventa ostaggio, o un prolungamento della nostra testa. Una visione “olistica” è certo più corretta e più sana. Comunque, per quel che so, anche per i giapponesi, l’anima lascia il corpo: solo che occorrono almeno un paio di giorni dopo la morte: di qui, forse, anche il lungo ed elaborato cerimoniale. Piuttosto, ho scoperto, leggendo, che in Giappone è anche compito dei parenti scegliere (con appositi suggerimenti) i frammenti di ossa da conservare nell’urna (mettendo quelli di piedi, gambe in fondo, e la testa in cima, quasi a ricomporre il corpo!): cosa che a noi può apparire macabra e spaventosa. Ebbene, circa 40 anni fa esisteva un’unico forno crematorio a Milano, nel celebre Cimitero Monumentale. Là si fecero cremare una coppia di miei zii. Non solo assitemmo all’uscita da forno dei resti su malconci binari, ma, esterrefatto, vidi mia zia scegliere con cura amorevole i frammenti di ossa del marito da mettere nell’urna. Cosa, ovviamente, oggi non più possibile. La salma viene affidata a mani estranee (terribile la mia esperienza con gli impiegati addetti), e le ceneri consegnate a scatola ermeticamente chiusa in data imprecisata. Un rito totalmente spersonalizzato. Nel tempo si sono anche scoperti – nella carenza di forni – scambi o mischiamenti di ceneri fra una città e l’altra. No comment.
Grazie anche della segnalazione del libro di Avondo: ci faccio un pensiero.
Se mi è permesso:-l’Anima “esce “subito dal corpo/involucro di carne. Rimane comunque li, intorno..per del tempo. Un tempo diverso e seconda della consapevolezza maturata dall’individuo. Anche per qs motivo la cremazione non è motivo di..preoccupazione ,anzi ,per la mia visione, aiuta il processo del morire. Ringrazio Marina ancora una volta , e pure Davide, Giovanni, Elena. . compagni di viaggio in qs vita e alle riflessioni di questi argomenti
Solo un’altra domanda. Dove è possibile trovare il libro? L’ho cercato online senza trovarlo.
Grazie
Avete letto questo articolo?
http://www.corriere.it/tecnologia/social/cards/come-prepararsi-morte-web-destino-profili-social-nostri-dati/i-social-post-mortem_principale.shtml
Cara Elena, a quanto mi risulta il libro puoi trovarlo sul sito di vendita online http://www.ibs.it, oltretutto scontato del 15%.
Per quanto riguarda il secondo spunto, non sono iscritto a nessun social network, per cui almeno questo problema non mi riguarda.
Piuttosto, mentre ripensavo al nostro dialogo, mi è venuto in mente che in questo blog sono stati spesso nominati libri legati agli argomenti via via trattati, ma molto raramente film. Certo i libri vanno più in profondità, ma il pregio dei film è anche la fruizione immediata. Il primo collegamento in questo senso è stato: oltre a “Departures” esiste un altro film sui funerali asiatici – in questo caso coreani. Trattasi di “Festival” di Im Kwon-taek, il veterano del cinema coreano (da noi è arrivato solo il suo “Ebbro di donne e di pittura”). Rispetto a “Departures” trattasi di un film tutt’altro che agiografico e sentimentale, anzi piuttosto critico verso la società coerana. Infatti, durante la lunghissima cerimonia (che dura giorni), sono descritti litigi e ipocrisie fra parenti, sbracature, ubriacature e perfino giochi a carte fra gli addetti al cerimoniale; ma il film ha una sua poetica nella voce narrante della nipotina della nonna morta (malata, fra l’altro, di Alzheimer). Per noi, il film è altrettanto interessante per la descrizione minuziosa e pittoresca di tutto il rituale connesso ai funerali. Purtroppo il film è inedito in Italia. Potete trovarne e scaricarne (iscrivendosi) i sottotitoli in italiano sul sito http://www.asianworld.it (dove potrete leggerne anche ampia descrizione e recensione). Penso si sia capito che sono un cinefilo. Se non siete in grado di reperirlo, contattatemi privatamente tramite Marina o lo stesso Davide che conoscono la mia mail.
Poi, altri film mi sono venuti in mente. Sull’eutanasia il bel “Miele”, italianissimo, di Valeria Golino, e il coraggiosissimo francese “Quelques heures de printemps” de Stéphane Brizé: anche quest’ultimo inedito in Italia, sottotitoli reperibili su http://www.opensubtitles.org . Vale il discorso fatto per “Festival”.
Sulla morte e il lutto, i miei “must” sono “Sussurri e grida” di Bergman, “The dead” di John Huston, e “Tre colori, Film blu” di Kieslowski. Questi tutti reperibili in Italia.
Giusto per dare qualche spunto a chi è interessato.
Grazie, di nuovo, a Giovanni per i tanti riferimenti e spunti di riflessione.
Elena, ho controllato, ma io riesco a prenotarlo su Amazon. Comunque, potresti contattare Neos Edizioni (trovi on line il sito). Grazie per l’articolo. Sto proprio scrivendo un libro su questi temi, dal punto di vista filosofico, quindi mi è utile assai.
Grazie a te Davide per i… ringraziamenti.
Coi film potrei continuare: miglior film sull’Alzheimer (soprattutto riguardo il vissuto doloroso dei parenti), AWAY FROM HER della canadese Sarah Polley.
Sul cancro (oltretutto di un bambino), bellissimo e speciale è il francese LA GUERRA E’ DICHIARATA di Valérie Donzelli: speciale perchè è una storia vera, e regista e attrice protagonista è la stessa mamma del bimbo; lo stesso per il papà attore. Entrambi sono usciti in Italia.
Chiudendo con i film, e tornando ai libri, mi chiedevo: avete mai pensato, tu e Marina, di pubblicare un libro che contenga le tematiche e le risposte più significative dei vari post? Penso di sì, ma ovviamente non sono in grado di immaginare le eventuali difficoltà. Credo però che potrebbe crearsi un circuito virtuoso fra questo blog e la carta stampata, e viceversa. Giusto per raggiungere più persone.
Grazie per tutti i riferimenti cinematografici. Credo che molti lettori ne saranno felici e si appunteranno un po’ di titoli. Per il libro non sarebbe mica male. Bisognerebbe veramente pensarci. Buon fine settimana!
Il messaggio al morto mi ricorda la scena – che trovai agghiacciante – in un film di Verdone, in cui un telefono chiuso in una bara comincia a squillare. Mi pare che il telefono fosse del marito e fosse caduto nella bara della moglie, ma l’idea mi parve orribile.
Quanto al mantenere una continuità di “rapporto” con gli scomparsi, non mi pare che si debba aver bisogno di uno smarphone. Mia nonna non avrebbe saputo come usarlo, e quando voglio contattarla penso a lei e va bene lo stesso. Magari per alcuni si può trattare di un rito, della manipolazione di un oggetto come potevano fare stregoni e sciamani con bastoncini e incensi per comunicare coi defunti. Adesso si smanetta sulla tastiera….
Per la cura dei corpi e l’orrenda mancanza di “rispetto” in Italia, concordo con voi. Mia nonna morì all’ospedale, fu il primo cadavere che vidi e mi fece un effetto spaventoso. Le avevano messo del cotone nella bocca semiaperta. Per anni la sognai, svegliandomi di colpo con un senso di soffocamento.
Mio padre è morto a luglio e mia madre due settimane fa. Tutti e due a casa e per tutti e due se n’è occupata un’agenzia privata che li ha ricomposti in maniera dignitosa. Io non me la sono sentita, soprattutto per mia madre, ma quando mio marito mi ha detto che potevo vederla, perché sembrava addormentata serenamente, mi sono sentita leggermente sollevata dalla visione da incubo di mia nonna.
Dopo la cremazione, siamo andati nell’area riservata ai loculi – permanenti – delle ceneri, passando attraverso la zona del cimitero dove le bare vengono sepolte per un certo numero di anni e poi rimosse per far posto ad altre. L’ho trovato orribile, così come i cimiteri italiani con i loro recinti di marmo, le lapidi, le foto e le bare che non preservano niente ma rallentano solo la decomposizione. E’ un vero schifo, compreso questo rito di seppellimento e de-seppellimento.
Visto che la morte è inevitabile e il lutto dufficile da elaborare, si dovrebbe cercare di migliorare sia il modo in cui vengono trattate le salme, sia il modo in cui si dispone dei corpi.
Grazie mille, Daniela, per il tuo contributo. Per quanto riguarda WhatsApp: credo si tratti di una novità generazionale, quindi di un problema che riguarda le persone più giovani, la cui formazione sarà sempre più condizionata dall’influenza – positiva e negativa – della cultura digitale. Sto leggendo a proposito diversi libri che analizzano come stanno mutando i rapporti tra le persone abituate a sovrapporre la vita virtuale a quella reale.
Per il resto, capisco molto bene il tuo racconto. E il “lavoro sociale” da fare nell’ambito dei corpi morti, dei riti funebri e via dicendo è veramente tanto. Certo che sarebbe opportuno che la società desse più spazio pubblico a chi – come me, Marina e molti altri – si occupano quotidianamente del ruolo della morte nella nostra società.
Grazie ancora.
Mi stupisce come molti riescano ad accettare (o ignorare) il fatto che il “riposo eterno” di chi decide per la sepoltura, sia in realta’ un contratto di affitto. L’eternita’ dura per quanto uno riesce a pagare. Una delle mie nonne ha un “contratto” di 30 anni e l’altra 10….. la seconda gia’ rimossa. Cosi’ si puo’ speculare ancora sul dolore dei parenti e chiedere ulteriori pagamenti per disporre della salma.
Io sono a favore della cremazione e anche della dispersione delle ceneri, come fanno in certe societa’ orientali. Sono anche a favore di un angolo dedicato a chi ci e’ piu’ caro (con foto, un oggetto, candela o fiori veri). Mi pare piu’ adatto al ricordo personale e alla meditazione di una lapide in un cimitero.
Infine, mi sembra piu’ intimo, piu’ privato e piu’ immediato se ho bisogno di supporto, ricorrere ad un oggetto o ad una foto di un momento felice. Gli ultimi tre anni abbiamo avuto altri due lutti e per la mamma di mio marito abbiamo un sasso bianco col suo nome nel piccolo giardino zen che rastrello regolarmente.
Per la mia mamma appena scomparsa ho una foto di noi due, con la statua di un gatto-Buddha di legno, ma si tratta di un arrangiamento provvisorio. Ovviamente, mia mamma amava i gatti…. non c’entra niente con la realta’ virtuale, ma sto ancora assorbendo lo shock della perdita.
L’idea del contratto in affitto è molto cristallina. Mia madre, ancora viva, dice sempre che odia la sepoltura. Vuole essere cremata e vivere per sempre nel ricordo e nello spirito di chi l’ha amata. Ha trovato spiritualmente odioso dover ripagare la tomba di suo padre (mio nonno) e infatti sua sorella (mia zia) ha pagato il dazio. Ognuno ha la sua sensibilità. Non me la sento di criticare chi crede invece nel valore simbolico della sepoltura, benché anch’io tendenzialmente la penso come te. Meglio un progetto come Arborvitae.
leggo i commenti e penso…chi e’ in grado di dire cosa sia giusto o sbagliato…il lutto e’ soggettivo e ognuno di noi reagisce in maniera diversa mandando o meno messaggi in whats sap….ho perso mia madre il 17 dicembre 2016…e’ stato ed e’ il dolore piu’ grande della mia vita…un dolore che lacera dentro tanto da toglierti il respiro…a volte le scrivo….so’ che non c e’ piu’ e mai piu’ purtroppo tornera’…ma mi capita di scrivere lettere che non leggera’ mai…ovviamente non le spedisco…ma le scrivo…e non mi sento pazza per questo…non c e’ giorno che non pensi a lei…so’ che e’ il ciclo della vita…ma non si e’ mai pronti a questo…e soprattutto non si ha nemmeno idea del male che fara’ quando accadra’…una delle mie paure piu’ grandi e’ sempre stata quella di perdere le persone che amo…sinche’ e’ arrivato quel maledetto giorno…ed e’ dura…anche se lo sappiamo …siamo anime di passaggio su questa terra presa in prestito ma che ti verra’ tolta senza chiederti il permesso….e’ difficile da digerire….ero molto legata a lei….e ora mi manca il mio punto di riferimento… ho sempre avuto paura della morte…dei morti….eppure…lei l ho guardata….l ho toccata…bisogna si’ prendersi cura anche della salma dei nostri cari…quando ho sentito le sue mani cosi’ fredde…sono andata ancora piu’ in crisi….pensando che avesse freddo…le mie sorelle…forse x assecondarmi in un momento cosi’ doloroso…le hanno messo una coperta….le ho messo i fili che lei usava x ricamare….le ho messo la sua sveglia…le ho messo delle calze di ricambio…le caramelle x la tosse….un angioletto….un libro di ricette che le avevo regalato…e altre cose…penso che nessuna bara sia stata cosi’ piena di cose….forse un po’ da fuori di testa per chi e’ al di fuori….ma x me e x i miei fratelli e sorelle andava bene cosi’….e’ stata forse la nostra maniera di prenderci cura di lei…cercando di nn farle mancare nulla delle sue cose piu’care nel passaggio con l aldila’…e’stata dura ed e’ ancora dura….e se viene voglia di scrivere….uno scritto…un messaggio….a qualsiasi nostro caro volato via….che male puo’ fare? ognuno deve fare cio’ che si sente…e nessuno puo’ giudicare cio’ che magari viene fatto x sentirsi meno tristi….. grazie e scusate se sono andata fuori tema….
ciao Cristina, anche io ho perso mia madre il 20 dicembre 2016…anche io ogni tanto le mando dei messaggi sul suo telefono..sms..whatsapp..so che non mi potrà mai rispondere..ma è un gesto che faccio per farle sapere che non ho smesso di pensarla, di parlarle..di scriverle…ci sono magari persone che preferiscono andare tutti i giorni al cimitero..penso che ognuno affronti la perdita di una persona cara in modo diverso..
Anche io e mio fratello abbiamo messo gli oggetti più cari a mia madre nella bara…come ad esempio la settimana enigmistica e gli occhiali…una frase scritta su un foglio di carta..cose simboliche che la accompagnassero nell’ultimo viaggio…
Le cose che hai scritto le provo anche io…
Cristina, ti ringrazio molto per il tuo commento e ti capisco molto bene. Proprio per le ragioni che dici tu (e che riguardano anche la mia amica, da cui ho preso lo spunto per il post) ho pensato di scrivere queste righe su WhatsApp e il rapporto con i morti. Come al solito, quello che più conta è riuscire a non rimanerne intrappolati, ovviamente per il proprio benessere. Ma se, all’interno di una vita equilibrata in cui quell’assenza è stata così dolorosa, ti senti di voler scrivere a tua madre, usando questo o un altro strumento, personalmente non ci vedo niente di male. Ripeto, l’importante è sempre e solo riuscire ad accettare il distacco, ad affrontare il presente e il futuro, tenendo stretto a sé quel passato che se ne è andato, ma senza rimanerne inghiottiti. Quando si riesce ad affrontare, pur nel dolore della perdita e nella nostalgia per chi non c’è più (specie se si tratta della propria madre), il presente, trovo che sia – anzi – romantico questo tipo di azione di scrittura. Anche perché, sia nel caso in cui siamo consapevoli della morte come elemento costitutivo della vita sia nel caso in cui invece non siamo preparati, non possiamo in alcun modo alleviare il naturale dolore per il distacco. Ecco, quello che cerchiamo di fare io e Marina (e molti altri) è cercare di predisporre noi stessi e gli altri ad affrontare la morte altrui e propria con consapevolezza, di modo da eliminare quella rimozione che fa soltanto danni. Grazie di cuore e un abbraccio.
Per forza di cose (nuova tornata di esami per il mio tumore che sempre più non promette alcunchè di bene), mi ero preso una pausa da questo blog. Leggo solo ora le testimonianze toccanti e commoventi di Daniela e Cristina, e trovo anche molto bella e “creativa” la loro capacità di aver cercato e trovato un rituale e un modo per ricordare più personale riguardo le persone care scomparse.
Non c’è alcun criterio obiettivamente “giusto” nè per i funerali (auspicherei solo più spazi per funerali laici per evitare specie a chi non è credente la solita cerimonia asettica e formale), nè per sepoltura/cremazione, nè per l’elaborazione del lutto. A volte è l’istinto, il nostro cuore che ci guida verso ciò che ci fa stare meglio; se non ce la si fa, occorre avere il coraggio di farsi aiutare.
Questo spazio aiuta anche in questo: quindi grazie e a loro e a Davide. Con un solo appunto: Marina ha parlato molto anche delle malattie gravi, coraggiosamente del suo doppio cancro e del pericolo di morte. Spero che fra gli scopi di questo blog rimanga portare un aiuto ad affrontare non solo la morte altrui, ma anche – cosa ancor più difficile – la propria. Quando una malattia si fa incurabile e non lascia scampo, è possibile elaborare anche un lutto per se stessi e per chi dobbiamo lasciare? Questa è la questione che vorrei rilanciare. Grazie.
Ciao, mi chiamo iolanda, mia madre è morta il 20 novembre e io quando mi sento le invio un messaggio su w app, nn xche credo che facendo così torni da me ma semplicemente x mantenere vivo il legame parlandole del più e del meno come facevo fino a 3 mesi fa… Io nel mio intimo spero sempre che lei da lassù possa leggerli ed essere contenta, nn c è una versione romantica del dolore, c’è solo un diverso approccio alla morte ovvero si cerca di “illudersi” con la consapevolezza che aimè non mi risponderà mai, ma… X me è difficile accettare la cosa… Quindi anche questa è una sorta di terapia del dolore, chiamala terapia di questo secolo, sempre terapia è.
E se fosse il defunto a mandare i messaggi su wp? Più delle volte indecifrabili. Quando noi elaboriamo un lutto ma il defunto ci comunica con segni inconfutabili che è con noi. Cosa ne dite? So che mio figlio è in un altro mondo nn so dove. Ogni volta che prendo coscienza che nn c’è più arrivano I suoi segni. Mentre messaggio con delle persone a lui care ci troviamo a leggere cose che nessuno delle due abbiamo scritto. Prima nn ci credevo ma ora nn é più una coincidenza. Nn sono messaggi che riusciamo a capire ma ci dicono con certezza che sono vivi. La loro anima è viva e per me questo è un dono. Nn bisogna per forza dare una spiegazione a tutto, bisogna accettare che ci sono delle cose che non si possono spiegare.
Ciao ho 60 anni, da 2 mesi ho perso la mia compagna che proprio oggi ne avrebbe compiuti 52 e stanotte ho avuto l’impulso di fargli gli auguri su whatsapp sono distrutto, sono andato al cimitero e quando sono tornato a casa le ho scritto di nuovo.