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Tag Archivio per: fine vita

Consapevolezza? di Marina Sozzi

17 Gennaio 2023/31 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/01/consapevolezza-e1673885447393.webp 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-01-17 11:02:532023-01-17 11:02:53Consapevolezza? di Marina Sozzi

Narrare la fine, di Cristina Vargas

5 Ottobre 2022/8 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nel 2019 venne diagnosticato un mieloma multiplo a Marilyn Yalom, studiosa di letteratura francese e autrice di numerosi libri sulla storia delle donne. Nonostante fosse sofferente tanto per causa della malattia che la affliggeva quanto per gli effetti collaterali della chemioterapia, Marilyn, conscia di avere solo alcuni mesi di vita, chiese a suo marito (il noto psichiatra e psicoterapeuta esistenziale Irvin Yalom) di scrivere un libro insieme per documentare le difficoltà di quei mesi finali. I due coniugi ottantasettenni cominciarono a scrivere spinti dal bisogno di trovare significato e soccorso nella scrittura, ma anche dalla speranza di essere utili ad altri che, come loro, stavano lottando contro una malattia terminale. Nacque così il volume “Una questione di morte e di vita” (Neri Pozza, 2022) che, alternando i capitoli fra i due autori, raccoglie in modo profondo e intimo le riflessioni, le emozioni, i pensieri e le sofferenze di ciascuno dei due lungo il percorso di cura. Nelle pagine finali, Irvin, ormai vedovo, si rivolge a Marilyn dicendo “Sei stata così saggia a invitarmi a scrivere questo libro con te… no, no, non è corretto: non mi hai invitato; hai insistito perché mettessi da parte il libro che avevo iniziato e, piuttosto, scrivessi queste pagine insieme a te. E ti sarò per sempre grato per la tua insistenza: questo progetto di scrittura mi ha tenuto in vita da quando sei morta, centoventicinque giorni fa.”

Meglio di qualsiasi riflessione teorica, queste parole colgono con vivida chiarezza il ruolo della narrazione nelle fasi finali della vita e nel lutto. Byron Good, antropologo e pioniere nel campo della medicina narrativa, descrive il narrare come “uno sforzo di dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e nello spazio”. Raccontare è proprio questo, non tanto (o non solo) un modo per registrare o ripercorrere gli eventi vissuti, ma soprattutto un atto che conferisce significato all’esperienza, costruendo una trama che aiuta a integrare la sofferenza e la perdita nella propria autobiografia.

Nel fine vita e nel percorso di elaborazione del lutto la narrazione è infatti una risorsa importante, che ha lo straordinario potere di restituire, quantomeno parzialmente, un senso a un tempo sovente percepito come vuoto, caotico, incerto e disorientante.

La narrazione, e in particolare la narrazione autobiografica, è uno strumento terapeutico che integra e arricchisce il lavoro degli operatori sanitari. Si pensi, ad esempio, alle numerose esperienze di medicina narrativa nelle cure palliative e nell’assistenza ai pazienti affetti da malattie cronico-degenerative; oppure alla terapia della dignità di Harvey Max Chochinov, un intervento psicologico che aiuta il malato a soffermarsi sulle cose che per lui contano di più sul piano esistenziale e che vorrebbe fossero ricordate dalle sue persone care, per aiutarlo a produrre una testimonianza scritta da lasciare ai suoi parenti e amici.

La narrazione è anche una straordinaria risorsa nelle mani di chiunque abbia il desiderio e la motivazione di dare parola al proprio vissuto. Christine Valentine, ricercatrice dell’Università di Bath, ha mostrato come le bereavement narratives siano un modo per preservare il legame con le persone scomparse e per socializzare il dolore del lutto, affrontandolo senza tuttavia patologizzarlo.

Nella mia esperienza di lavoro nel campo del fine vita ho incontrato molte persone che hanno trovato forza e conforto nella scrittura e in altre forme di narrazione. Per alcuni il bisogno di raccontare la propria esperienza è molto forte. Nelle riunioni dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto, una delle donne ricordava come nei primi mesi si sentiva quasi soffocata dall’urgenza di parlare della malattia e della morte di suo figlio. Aveva quindi deciso di cominciare a scrivere un diario e, sulle pagine, aveva riversato le parole che premevano per uscire dalle sue labbra e che non sempre poteva pronunciare. Un uomo, invece, aveva usato la scrittura per riorganizzare la memoria di sua moglie scomparsa. Nei primi mesi, egli era attanagliato da timore di dimenticarla e, simultaneamente, faceva un’enorme fatica a ricordare: guardare le foto di lei era straziante e le uniche immagine che gli veniva spontanee erano quelle degli ultimissimi giorni in ospedale. Con sforzo, un giorno come tanti altri si era messo davanti al computer e aveva intrapreso il compito di scrivere i ricordi della vita trascorsa insieme. Gradualmente, egli era riuscito a ricontattare momenti felici, piccoli aneddoti, persino liti e discussioni finite con un abbraccio. Scrivere, inoltre, lo stimolava a “fare” delle cose: telefonare un vecchio amico per ricostruire insieme un episodio di un passato molto lontano; aprire e riordinare i cassetti con i documenti della moglie, che per mesi erano stati intoccabili tanto era doloroso il solo pensiero di avvicinarsi.

Questi due esempi sono eloquenti del ruolo terapeutico della narrazione. Quando raccontiamo si attiva un processo mentale diverso rispetto a quello del pensiero individuale, che sovente assume la forma di un monologo interiore. Raccontare, per quanto si faccia in solitudine, presuppone un atto comunicativo: c’è sempre un “altro” – un lettore, un ascoltatore, un osservatore/osservatrice – al quale “dire” qualcosa. Questo comporta la necessità di spiegare ogni passaggio per renderlo comprensibile al nostro interlocutore; obbliga a trovare le parole giuste per esprimere sensazioni ed emozioni che sovente sono confuse e soverchianti; spinge a esplorare la propria interiorità, a cercare di comprenderla, per poterla condividere con altri.

Che si tratti di storie orali, di scrittura autobiografica oppure di narrazioni che usano altri linguaggi artistici, il narrare è un movimento all’insegna dell’incontro, dell’apertura e della condivisione; un viaggio dentro il sé che, simultaneamente, avvicina all’altro, sostenendo chi soffre nel lungo processo di riconnettersi con la vita.

Voi avete mai usato la scrittura autobiografica o la narrazione in momenti di sofferenza? quale ruolo ha avuto per voi l’esperienza di raccontarvi?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/10/foto-articolo-econarrazione-e1664957899740.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-10-05 10:23:432022-10-05 10:23:44Narrare la fine, di Cristina Vargas

La vita estranea. Intervista a Mario Balsamo, di Marina Sozzi

15 Giugno 2022/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Mario Balsamo, regista documentarista, scrittore e docente di regia cinematografica, perché quest’anno è uscito il suo ultimo libro, La vita estranea, “romanzo tra escapologia e fine vita”.

Ci racconti l’esperienza che ti ha portato a scrivere questo libro, La Vita estranea?

Se vogliamo andare indietro negli anni, l’esperienza della mia malattia grave, un tumore dentro la gamba destra, mi ha portato a riflettere non solo sulla mia morte ma anche su come è concepita la morte nella nostra società. Da lì ho cominciato a impegnare la mia capacità narrativa intorno a questo tema. Non sono uno studioso, quindi ho pensato a storie da raccontare (a cominciare dalla mia ‘avventura’) che poi sviluppassero questo argomento.
In particolare, in La vita estranea mi è venuto in mente un escapologo, cioè una figura alla Houdini: chi esce fuori da qualsiasi contenitore chiuso e inchiavardato, si liberi da qualsiasi tipo di legaccio. Mi pareva che potesse essere una metafora (attraverso un personaggio di fantasia) adatta a raccontare il nostro rapporto con la morte in questa società, attraverso chi la sfida ogni giorno, a chi pensa di beffarla.
Possiamo sfuggirle da sotto le dita all’infinito? Naturalmente no, perché è un aspetto della natura umana. Da un bel po’ sono convinto che il modo migliore per affrontarla è quello di dialogarvi e quello di conoscerla per quanto possibile, mettendo in conto la sua imprevedibilità.
Di vederla come un qualcosa che fa parte del ciclo della vita, piuttosto che negarlo.
Il protagonista di La vita estranea, da presuntuoso e illuso paladino dell’immortalità, deve cominciare a confrontarsi con quella che sarà la sua, di morte, tra l’altro imminente, scoprendo delle verità inaspettate. Che lo portano a familiarizzare col fatto che lui dopo poco non ci sarà più.

Nel tuo libro ci sono due voci, l’io morto e l’io in vita del protagonista Leo, che hanno due stili di scrittura diversi. Come hai immaginato l’Aldilà? Cosa succede alla personalità del protagonista alla luce della morte?

Ho un pensiero un po’ particolare sull’Aldilà, condito dalla fantasia propria dei narratori. E’ come se l’Aldilà sia per ognuno come se l’è immaginato in vita. Quindi non con delle punizioni per le cose negative commesse, quanto continuando a vivere con i difetti che aveva nella sua vita terrestre. Qui però all’infinito, per l’eternità. Quindi se la persona ha delle cose irrisolte, ha delle situazioni che non è mai riuscito a dipanare, se le ritroverà addosso anche nell’Aldilà: e questo credo che sia piuttosto gravoso, tormentoso, soprattutto se le cose irrisolte occupano la maggior parte di sé. Mi trovo anche a riflettere se esista o meno la reincarnazione. In effetti questa idea, reincarnarmi fino a quando il mio kharma non sarà “pulito”, è interessante: pone le basi di una giustizia compensatoria delle ingiustizie di cui il mondo è pieno, seppur una compensazione che avverrà attraverso l’arco di più vite.

Mi ha colpito la definizione dell’hospice: “L’hospice è un luogo in cui chi sta per passare oltre viene aiutato a spiccicare qualche parola con la morte, nel tentativo di trovare un senso alla fine”. Che immagine ti sei fatto, in realtà, dell’hospice?

Gli hospice, almeno nella loro filosofia, nella realtà di quello dove ho fatto il volontario e in quello dove sto girando il mio documentario “In ultimo” (la struttura “Anemos”, gestito dalla fondazione Luce per la vita), sono dei luoghi in cui si cerca di dare al malato terminale una morte dignitosa, da una parte togliendogli – per quanto possibile – il dolore fisico, dall’altra assistendolo sul piano psicologico e spirituale. E’ difficile far pace con la propria morte, credo però che gli hospice possano alleviare quello che in molti casi è il terrore della morte, intanto svincolandolo dal dolore fisico. Sono temi molto delicati per cui è difficile dire in quanti casi ci si riesca. Quello che so è che negli hospice da me visitati ho respirato un’aria di serenità: e questo credo che sia già un grande risultato.

Il protagonista ha il terrore della morte, e non voleva pensarci (da vivo), anzi afferma di sentirsi (o addirittura di essere) immortale. Rispecchia una situazione autobiografica, o piuttosto un problema della nostra cultura?

Credo che rappresenti sia un dato autobiografico (superato) sia una convinzione che purtroppo ha preso piede nella nostra società: la convinzione che la tecnologia medica non solo possa allungare la prospettiva di vita, ma anche, addirittura, arrivare, prima o poi, a farci conquistare l’immortalità. Questa follia ha un risultato negativo immediato: le persone sempre più spesso muoiono impreparate. Cioè, per fare degli esempi, non si sono accomiatate dai propri cari, non hanno potuto lasciare una sorta di eredità spirituale a chi sta loro vicino, o hanno dovuto lasciare dei brutti conti in sospeso (non risolvere le incomprensioni che hanno portato allo scontro o all’allontanamento di persone care). Riuscire a fare tutto ciò in termini proficui significa un bene per tutti.

A un certo punto del libro scrivi: «Il paradosso è che la vita e la morte fanno parte l’una dell’altra, eppure sono inavvicinabili.» Cosa intendi esattamente?

Sì, è un paradosso, però estremamente vero. La vita fa parte della morte quanto la morte fa parte della vita. Forse io, in quanto Mario Balsamo, e quindi al di fuori dei personaggi del romanzo, sono convinto che in fondo la cosa stia come la disse Carl Gustav Jung: la morte è il fine della vita, non la sua fine.

Leo quando scopre di avere un tumore ha soprattutto una grande angoscia, quella di perdere la dignità. Cos’è per te la dignità alla fine della vita?

Il concetto della dignità della morte è complesso da esaminare. In generale penso si possa affermare che consista nel non perdere i fondamenti (fisiologici e spirituali) dell’essere umani. Il cosa significhi poi nello specifico varia in ciascuna persona. C’è anche chi ritiene che, seppur le attività corporee e parte delle funzioni cerebrali siano minate, la vita conservi una sua dignità. In costoro permane una straordinaria, robustissima voglia di vivere. Per quanto mi riguarda, credo che la dignità dell’essere umano stia nel mantenere tutte le funzioni di cui siamo normalmente dotati, sia sul piano fisico, sia mentale, sia spirituale. Aggiungo anche che per garantire a ciascuno la propria convinzione di quale sia la dignità della vita e della morte, debba essere permessa per legge la determinazione della propria fine; quindi, il diritto a un suicidio assistito qualora la persona lo decida; certo, monitorato ed esaminato attentamente da coloro che sono preposti ad esprimere un parere su tali richieste. Io non so, qualora diventassi un malato terminale con gravi menomazioni, se me la sentirei di scegliere la soluzione del suicidio assistito, forse no, però vorrei che questo fosse un diritto mio come di tutti gli altri.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/06/immagine-documentario-In-ultimo-e1655282412758.png 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-06-15 10:41:042022-06-15 10:43:46La vita estranea. Intervista a Mario Balsamo, di Marina Sozzi

Intensiva.it, di Marina Sozzi

28 Dicembre 2020/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Prima del Covid19, le terapie intensive erano luoghi del tutto sconosciuti alla maggioranza delle persone. Si sapeva, magari, che sono luoghi in cui vengono praticate complesse cure salvavita, talvolta nella più grande incertezza del risultato. Sono luoghi che fanno paura. La mente va a Eluana Englaro e a tutti coloro che la biomedicina ha lasciato sospesi tra la vita e la morte, in stato vegetativo. Per questo nelle disposizioni anticipate di trattamento, rese cogenti in Italia per i medici dalla legge 219/2017, i cittadini che testano lasciano spesso l’opzione di non essere sottoposti a rianimazione cardio-respiratoria, né ad alimentazione artificiale.

La conoscenza delle terapie intensive non è molto migliorata con il Covid, a parte i numeri che vengono forniti quotidianamente, e che quantificano il grado di saturazione delle terapie intensive in Italia. Si sa che all’inizio della pandemia erano presenti circa 5179 posti letto in terapia intensiva, e che durante questo terribile anno sono stati portati a 6.458. Ma poco sappiamo di cosa accade in una terapia intensiva. Da quando c’è la pandemia, chi viene ricoverato in ospedale e poi magari in terapia intensiva sparisce quasi nel nulla, a parte le telefonate che i familiari ricevono dai curanti.

Parlando con i rianimatori, sappiamo che la mortalità in terapia intensiva prima del Covid si aggirava tra 22 e 25% circa, mentre con il Covid è brutalmente salita al 50%, con grave disagio e angoscia degli stessi operatori.

È bene tuttavia essere al corrente di un mutamento in corso: come è già accaduto in altre branche della medicina, anche i rianimatori si stanno interrogando sul proprio operato e sull’appropriatezza delle terapie e degli interventi, e stanno lavorando per migliorare la comunicazione con pazienti e familiari, nell’ottica di un’umanizzazione di questi reparti.

Mi fa piacere segnalare un gruppo di intensivisti, sostenuti dalle loro società scientifiche e dai sindacati (SIAARTI, ANIARTI, AAROI-EMAC) sparsi negli ospedali di tutta Italia che da anni stanno conducendo un lavoro eccellente (cominciato ben prima del Covid e portato avanti indipendentemente dall’epidemia) per modificare le prassi delle terapie intensive, a beneficio di pazienti, familiari e operatori. Hanno costruito un sito, www.intensiva.it,  che in Home page porta queste parole:

“La Terapia Intensiva (o Rianimazione) è una realtà molto dura, difficile da accettare. Ma in certi casi è l’unica possibilità per poter continuare a vivere. Quando una persona ha un incidente, una grave malattia, una grossa operazione chirurgica… quando c’è un organo vitale che non funziona, si viene ricoverati qui. Ci sono macchinari e medicine molto potenti che hanno bisogno di un controllo continuo e di personale specializzato. Lo scopo è quello di dare tempo a una persona gravemente malata, perché possa iniziare a guarire da una malattia acuta.
Avere un proprio caro in Rianimazione molto spesso cambia il modo di vivere, di considerare la vita. Naviga su questo sito per capire razionalmente cos’è la Rianimazione e ancora di più, per comprendere meglio le tue emozioni. E per non sentirti solo.”

Navigando, si trovano spiegazioni su come è organizzata un’unità di cura, e a cosa servono i macchinari che si trovano intorno al letto; c’è un filmato con le interviste ai pazienti che sono guariti, che raccontano le loro sensazioni e le loro emozioni; c’è una pagina in cui viene data voce ai familiari, una in cui parlano gli operatori. Un’altra pagina, dedicata alla morte in terapia intensiva, spiega in parole semplici anche la morte cerebrale: “In alcune malattie, invece, accade che il cervello muore, mentre il cuore continua a battere se sostenuto da medicine e da macchine. Nonostante sia presente il battito del cuore, questa condizione coincide con la morte dell’individuo: è forse più difficile comprendere e accettare che il tuo caro è morto, ma quando il cervello muore, tutto l’individuo muore.” Non manca una sezione dedicata alla donazione di organi, vista dalla parte di chi ha perso un congiunto. Tutto questo, insieme ad alcuni poster da appendere nelle sale d’attesa delle terapie intensive italiane, e ad alcune brochure dedicate ai familiari, completano il progetto di cui il sito internet è il perno centrale.

Ci sono due punti che mi preme ancora sottolineare di questo rilevante progetto. Il primo è la convinzione, che anima i promotori, che le terapie intensive debbano essere aperte, e che i familiari siano alleati degli operatori, e non ostacoli nelle procedure di cura. Questo aspetto è di primaria importanza, e occorrerebbe forse allargare questa riflessione, e chiedersi se sia corretto impedire l’ingresso ai familiari anche per i pazienti Covid, naturalmente con le medesime protezioni impiegate dagli operatori.

Il secondo è che occorre far maturare in tutti, nei medici come nei familiari, la consapevolezza che anche gli straordinari mezzi delle terapie intensive possono diventare futili, qualora sia chiaro che non è più possibile salvare la vita, o una qualità di vita accettabile per il paziente. Di quali siano le volontà del paziente, bisogna informarsi, mediante le DAT qualora siano presenti, o attraverso il dialogo con i familiari. E bisogna rispettarle. Occorre  quindi desistere, utilizzare ottime cure palliative e accompagnare il nucleo familiare del paziente alla fine della vita.

Cosa ne pensate? Avete esperienze dirette o indirette di terapia intensiva?

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Leggi sul fine vita: non dimentichiamo le vecchie per le nuove, di Marina Sozzi

27 Settembre 2019/13 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

La Corte Costituzionale si è espressa, giudicando non punibile chi presta aiuto al suicidio assistito, purché si tratti di un malato tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, o affetto da una patologia irreversibile che provochi sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili dal soggetto. Il paziente, inoltre, deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Per ora abbiamo solo il comunicato stampa della sentenza, ma molti hanno affermato, primo tra tutti Cappato, che da ieri gli italiani sono più liberi. Certamente, visto che, come spesso accade, la giurisprudenza ha anticipato la politica, sarà necessario che il Parlamento legiferi sul suicidio assistito.

Si tratta di una buona notizia. Certo non si poteva condannare Marco Cappato o Mina Welby per il loro impegno di accompagnamento.
Ci sono però alcune cautele che non sono marginali, e che occorre ribadire continuamente, affinché il meglio non sia nemico del bene.

Noi abbiamo due buone leggi sulla fine della vita, conosciute (secondo recenti sondaggi) da meno di un terzo dei cittadini italiani: una è la legge 38/2010, sul diritto a ricevere cure palliative e terapia del dolore, l’altra è la 219/2017, che tratta di consenso informato, di disposizioni anticipate di trattamento (testamento biologico), di pianificazione condivisa delle cure, di sedazione palliativa.
I lettori di questo blog sanno certamente che cosa sono le cure palliative, ma costituiscono una minoranza della popolazione (allego comunque in calce a questa pagina il decalogo delle cure palliative, prodotto dal Centro di Promozione Cure Palliative istituito dalla Rete oncologica del Piemonte e della Valle d’Aosta, e che contribuisce a chiarire le idee).

La legge 219, che afferma il dovere del medico di informare il paziente sulle sue condizioni di salute, sulla sua aspettativa di vita, sugli effetti collaterali delle terapie, sulla possibilità di successo di queste ultime, costituisce un’innovazione dirompente in sanità, ma corre il grosso rischio di restare lettera morta. La stessa fine ingloriosa (l’oblio), può fare lo splendido richiamo a considerare la relazione medico/paziente come tempo di cura; e la possibilità per i cittadini di lasciare le proprie disposizioni anticipate di trattamento corre il pericolo di coinvolgere una percentuale irrisoria di popolazione.

Inoltre, è evidente la difficoltà dei medici a comprendere appieno di cosa parliamo quando diciamo pianificazione condivisa delle cure. I medici sono piuttosto abituati a prendere decisioni “al posto” del paziente, “per il suo bene”, “in scienza e coscienza”, ma certo faticano a decidere “con, insieme” al paziente. Con le debite eccezioni, naturalmente.

Per quanto riguarda le cure palliative, poi, sappiamo che ci sono ancora nel nostro paese enormi disparità di applicazione, non solo tra regione e regione, ma anche tra una provincia e l’altra di una stessa regione. Molto lavoro resta da fare per estendere le cure palliative a tutte le patologie e ai cittadini anziani, e altrettanto per infrangere il tabù culturale sulle cure palliative, sovente temute come una condanna a morte, prima di conoscerle e quindi di comprenderle.

Allora, pur essendo d’accordo sull’esigenza di una legge sul suicidio assistito (che riguarda soprattutto i casi estremi come quello di Fabiano Antoniani, più che non i casi di terminalità dovuti a una patologia progressiva), mi preoccupa questo correre sempre avanti al prossimo obiettivo (Cappato parlava già di eutanasia): mi preoccupa perché così si tralascia di lavorare pazientemente affinché le norme già stabilite abbiano un futuro, possano incidere e cambiare la biomedicina in meglio, permettendo ai pazienti di essere più consapevoli, e quindi – davvero –  più liberi.

Infatti, non c’è libertà senza consapevolezza, senza sapere cosa è probabile che ci accada, per poter riflettere con la maggior serenità possibile su cosa siamo in grado di sopportare e cosa no, dove si arresti la nostra voglia di vivere e la capacità di stare nel mondo insieme ai nostri affetti. Già. Essendo noi non individui isolati gli uni dagli altri, ma esseri strutturalmente in relazione reciproca, dipendiamo inevitabilmente, che ci piaccia o meno, dagli altri, e siamo condizionati da ciò che abbiamo vissuto. La nostra libertà è dunque sempre segnata dal limite e non coincide con l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra noi e il nostro volere, ma anzi, si raggiunge solo insieme agli altri, con un’azione mutualmente emancipatrice. Questo principio vale per molti aspetti della vita umana, e in particolare per la fine della vita e le scelte che l’accompagnano. Scelte che richiedono una ardua e attenta triangolazione tra malato, familiari e curanti.

Salutiamo quindi con favore la decisione della Corte Costituzionale, che peraltro ha fatto riferimento anche alla 219 per motivare la sua scelta, e ci auguriamo che il Parlamento faccia un buon lavoro su questo tema, ma chiediamo anche che venga fatta una campagna pubblica per far conoscere ai cittadini le due leggi precedenti e che sia investito denaro per formare il personale sanitario alle nuove norme: che si faccia, insomma, ciò che è necessario affinché le leggi che già abbiamo nel nostro paese sulla fine della vita entrino in vigore non solo formalmente ma concretamente.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/09/Depositphotos_102757036_s-2019-e1569531148767.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-09-27 10:12:022019-09-27 10:12:02Leggi sul fine vita: non dimentichiamo le vecchie per le nuove, di Marina Sozzi

La proposta di un nuovo umanesimo: alla cauta ricerca di una “vita sensata”

22 Marzo 2014/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Ricevo, e con piacere pubblico, questa breve riflessione (che fa della vicenda di Ariel Sharon un caso esemplare della condizione di tutti noi alla fine della vita) da parte di una persona che preferisce restare dietro le quinte.

Ci sono tutte le sfumature del mistero nell’itinerario della vita e della morte di Ariel Sharon, e non solo per le controversie che continueranno a dividere il giudizio degli storici del Medio Oriente e del mondo intero. Mi interroga la fine di quest’uomo dai due volti, eroe venerato e criminale di guerra, caduto infine in un coma durato otto anni che si è voluto chiamare “malattia”. Mi inquieta pensare a questa condizione forzata in uno stato di confine compassionevole, tra la vita che non è più vita e la morte che non è ancora morte.
Non conosceremo, né ora né mai, se vi sia stata la volontà espressa e anticipata di Sharon; se, ai comprensibili dilemmi della famiglia si sia sovrapposta la ragion di stato, che ha determinato la sospensione di un destino segnato.
Tuttavia, mi sono chiesta quanto la vicenda di Sharon – per molti versi eccezionale – non rispecchi dolorosamente quei casi che sono presenti e vicini al nostro universo di relazioni e di affetti.
Sarebbe fin troppo facile, nel corso di queste brevissime considerazioni, tentare delle risposte che suonano come etichette: accanimento? eutanasia? testamento biologico?
Allora è forse meglio allontanarci dalle parole che imbrigliano le menti e le coscienze perché pregne allo stesso tempo di ambiguità e di rigidezza: ambiguità in quanto non è facile (e da noi infatti non accade) formarsi e informarsi su temi complessi e coinvolgenti, e ancor meno giungere all’accordo, superando le contrapposizioni di principio; e rigidità nelle posizioni contrarie, capaci di scatenare conflitti insanabili e incapaci di progredire verso qualche mediazione dignitosa.
Non è forse meglio, su questioni tanto delicate e sensibili, pronunciarci con cautela, provare a sottrarci tanto alle dinamiche ideologiche quanto alla cieca fiducia nelle tecnologie; e portare uno sguardo plurale agli ambiti della scienza, dell’etica e della filosofia, nella ricerca di un nuovo umanesimo, di un’antropologia ancora una volta completamente rinnovata che appoggi il dibattito sull’inizio e sulla fine della vita, che riproponga le questioni dei diritti umani senza dimenticare che primo fra tutti si pone il diritto della persona a una vita sensata. Una vita, cioè, densa di significati personali, ma anche di sensi proiettati nella società e nel mondo, là dove il diritto alla vita (sempre, e qualche volta anche in modo più incisivo) si dilata e diviene un fatto sociale, per la ragione stessa che è la relazione ad essere costitutiva della persona. (G.P.)

Vi chiedo: cosa ne pensate di questa proposta di un nuovo umanesimo, anti ideologico e tutto incentrato sul dialogo tra antropologia e bioetica, e sulla valutazione della “vita sensata” per ciascuno?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2014/03/uomo-con-teschio-.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2014-03-22 18:36:542014-03-22 18:36:54La proposta di un nuovo umanesimo: alla cauta ricerca di una “vita sensata”

Fine vita: essere o non essere coinvolti?

4 Marzo 2013/13 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Palliative Medicine e diretta da Barbara Daveson, che si è proposta di comprendere se effettivamente i cittadini europei vogliano essere coinvolti nelle decisioni (la ricerca è scaricabile gratuitamente al link: http://pmj.sagepub.com/content/early/2013/02/13/0269216312471883)
I risultati, per quanto riguarda l’Italia, sono i seguenti (vicini alla media europea): il 78% dei nostri connazionali aspira a essere coinvolto sulle decisioni di fine vita se lucido e cosciente. Nel caso di uno scenario d’incapacità decisionale, invece, solo il 47% affiderebbe alle direttive anticipate la propria volontà, mentre il 53% preferirebbe delegare, al coniuge o ai medici.
Le persone che desiderano maggiormente un proprio coinvolgimento sono, per lo più, benestanti e con istruzione superiore, di genere femminile, in un’età compresa tra trenta e cinquantanove anni, e sono inclini a dare più importanza alla qualità della vita che alla sua quantità. Mentre chi è economicamente svantaggiato e gli anziani sembrano inclini a lasciare ad altri il compito di scegliere per loro, e pensano che sia bene morire in ospedale. Dati su cui varrebbe la pena riflettere, e sui quali anche chi fa informazione dovrebbe fare un esame di coscienza.
L’Italia rappresenta la media europea, ma è ancora distante dalle alte percentuali rilevabili, ad esempio, in Germania (il 91% di cittadini desidera partecipare alle decisioni, e ben l’83% anche se non più cosciente, mediante living will). C’è chi sta peggio di noi, ad esempio il Portogallo, dove solo il 17% degli intervistati preferirebbe scegliere in prima persona se si trovasse in stato d’incoscienza.
Tuttavia, come mai nel nostro paese è così difficile pensare di lasciare direttive anticipate? C’è ancora molto da fare sul piano culturale: la logica dell’alleanza terapeutica non si è ancora affermata in tutti i contesti, manca una legge sul testamento biologico (siamo gli unici, insieme al Portogallo, a non averla), c’è una grande confusione sui concetti che hanno a che fare con la fine della vita, sfruttata a fini propagandistici sia dai cattolici che dai laici.
Manca, prima di tutto, l’informazione approfondita. Quando i cittadini sono ben informati di quali siano le decisioni che dovrebbero prendere, e come; di quali siano le implicazioni fisiche, psicologiche e etiche delle loro scelte, riflettono di più e rispondono in modo più maturo. Lo dimostra l’evento tenutosi a Torino da Avventura Urbana nel 2009, nel contesto di Biennale Democrazia: in quel caso, dopo una capillare e imparziale informazione dei partecipanti al Town Meeting, il 74% affermò che se il testamento biologico avesse valore legale, avrebbe preso la decisione di scriverlo, mentre solo l’11% si sentiva certo che non lo avrebbe fatto.
Chiedo a voi: avete scritto il vostro testamento biologico, anche se non ha ancora valore legale? Se lo avesse, lo scrivereste?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/03/imgres-51.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-03-04 08:09:542013-03-04 08:09:54Fine vita: essere o non essere coinvolti?

Verità, speranza e morte

12 Novembre 2012/16 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Pochi giorni fa, in un Comitato etico, si è discusso con i colleghi il caso di un paziente a cui non era stata detta la verità: aveva un tumore con metastasi, le cure attive erano diventate futili, e gli era stato invece detto che occorreva un periodo di riposo per poter riprendere la chemioterapia. L’oncologo che aveva preso la decisione di interrompere la chemio, e che non aveva avuto il coraggio di spiegarne le ragioni al paziente, si era poi difeso di fronte ai colleghi dicendo: “Non è possibile togliere la speranza ai pazienti”.
Camminando a passi lenti verso casa sotto la pioggerellina fitta e pungente di novembre, e guardando i fari gialli delle auto, pensavo alla speranza. Che vuol dire speranza? Ne parliamo molto più per proverbi che facendo una vera riflessione. “La speranza è l’ultima a morire”, “Chi di speranza vive disperato muore”, “Finché c’è vita, c’è speranza”, “Chi vive sperando muore cantando”. E’ curioso che, sia nei proverbi che in molte frasi celebri, i due concetti di speranza e di morte stiano insieme, in un abbraccio inscindibile, a definire la condizione umana. L’uomo, più che un essere bipede implume, pare un essere mortale e speranzoso. Per qualcuno la speranza è salvezza, soprattutto per i cristiani che hanno fede in una vita futura, tanto che la speranza è una delle tre virtù teologali (insieme a fede e carità): ma non solo. La speranza è positiva per tutti coloro che fondano la vita sulla ricerca del significato personale dell’esistere, valorizzando i sentimenti e le emozioni. Viceversa, per altri la speranza è sinonimo d’illusione, di offuscamento della razionalità. Norberto Bobbio affermò che, in quanto laico, la speranza gli era estranea.
Su questo non mi sento d’accordo con Bobbio. A mio modo di vedere, comunicare una prognosi infausta non significa togliere la speranza. Giustamente, anche i nostri proverbi parlano di una speranza che si esaurisce con la vita, non con la consapevolezza che la nostra vita sta volgendo al termine. Per un credente, non è addirittura una bestemmia affermare che sapere di dover morire coincida con la fine della speranza? Semmai, alla fine della vita si dovrebbe intensificare la sua fede e la sua speranza nella salvezza.
Ma, senza fare appello alle religioni, resto nel mondo laico della biomedicina, e nella società secolarizzata nella quale viviamo. Ci sono molte cose in cui potrò sperare quando mi diranno che il mio tempo sta per scadere: vorrò occuparmi di tutte le relazioni per me importanti, salutare i miei amici, accertarmi che i miei figli possano vivere in armonia, disporre dei miei beni (tanti o pochi che siano), donare ciò che potrò. Non è speranza il desiderio di lasciare la propria stanza in ordine, speranza che chi viene dopo di noi faccia meglio? Proprio in quanto laica, che ripone la propria speranza nell’umanità dell’uomo, ho bisogno di pensare che il mondo procederà in una direzione più giusta.
Per questo vorrei sapere tutta la verità sulla mia condizione di salute, sempre, senza esitazioni. La speranza, in quanto emozione, non è statica, assume sfumature diverse per ogni individuo in ogni momento della vita, ed è duttile e capace di adattamento. E voi? Vorreste sapere? Preferireste essere all’oscuro? E perché?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/11/speranza.jpg 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-11-12 17:53:172012-11-14 22:55:36Verità, speranza e morte

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