Verità, speranza e morte
Pochi giorni fa, in un Comitato etico, si è discusso con i colleghi il caso di un paziente a cui non era stata detta la verità: aveva un tumore con metastasi, le cure attive erano diventate futili, e gli era stato invece detto che occorreva un periodo di riposo per poter riprendere la chemioterapia. L’oncologo che aveva preso la decisione di interrompere la chemio, e che non aveva avuto il coraggio di spiegarne le ragioni al paziente, si era poi difeso di fronte ai colleghi dicendo: “Non è possibile togliere la speranza ai pazienti”.
Camminando a passi lenti verso casa sotto la pioggerellina fitta e pungente di novembre, e guardando i fari gialli delle auto, pensavo alla speranza. Che vuol dire speranza? Ne parliamo molto più per proverbi che facendo una vera riflessione. “La speranza è l’ultima a morire”, “Chi di speranza vive disperato muore”, “Finché c’è vita, c’è speranza”, “Chi vive sperando muore cantando”. E’ curioso che, sia nei proverbi che in molte frasi celebri, i due concetti di speranza e di morte stiano insieme, in un abbraccio inscindibile, a definire la condizione umana. L’uomo, più che un essere bipede implume, pare un essere mortale e speranzoso. Per qualcuno la speranza è salvezza, soprattutto per i cristiani che hanno fede in una vita futura, tanto che la speranza è una delle tre virtù teologali (insieme a fede e carità): ma non solo. La speranza è positiva per tutti coloro che fondano la vita sulla ricerca del significato personale dell’esistere, valorizzando i sentimenti e le emozioni. Viceversa, per altri la speranza è sinonimo d’illusione, di offuscamento della razionalità. Norberto Bobbio affermò che, in quanto laico, la speranza gli era estranea.
Su questo non mi sento d’accordo con Bobbio. A mio modo di vedere, comunicare una prognosi infausta non significa togliere la speranza. Giustamente, anche i nostri proverbi parlano di una speranza che si esaurisce con la vita, non con la consapevolezza che la nostra vita sta volgendo al termine. Per un credente, non è addirittura una bestemmia affermare che sapere di dover morire coincida con la fine della speranza? Semmai, alla fine della vita si dovrebbe intensificare la sua fede e la sua speranza nella salvezza.
Ma, senza fare appello alle religioni, resto nel mondo laico della biomedicina, e nella società secolarizzata nella quale viviamo. Ci sono molte cose in cui potrò sperare quando mi diranno che il mio tempo sta per scadere: vorrò occuparmi di tutte le relazioni per me importanti, salutare i miei amici, accertarmi che i miei figli possano vivere in armonia, disporre dei miei beni (tanti o pochi che siano), donare ciò che potrò. Non è speranza il desiderio di lasciare la propria stanza in ordine, speranza che chi viene dopo di noi faccia meglio? Proprio in quanto laica, che ripone la propria speranza nell’umanità dell’uomo, ho bisogno di pensare che il mondo procederà in una direzione più giusta.
Per questo vorrei sapere tutta la verità sulla mia condizione di salute, sempre, senza esitazioni. La speranza, in quanto emozione, non è statica, assume sfumature diverse per ogni individuo in ogni momento della vita, ed è duttile e capace di adattamento. E voi? Vorreste sapere? Preferireste essere all’oscuro? E perché?
Personalmente vorrei sapere, è logico che forse non sarebbe così facile accettare la verità, almeno non fin dall’inizio, non sarebbe certo una passeggiata, ma ci sono vari modi di comunicare, di dire. Si può chiedere al paziente fino a che punto vorrebbe sapere, si possono organizzare più incontri e dire le cose un po’ per volta. Non penso sia “onesto” non dire, c’è bisogno di prepararsi, di chiudere cose rimaste in sospeso, di andarsene il più possibile in pace e più tardi viene comunicata la prognosi, meno possibilità abbiamo di arrivare ad accettare e riappacificarci.
Penso che la paura di comunicare la prognosi significhi una non risolta paura della morte, la presenza di dubbi spirituali, risposte che si stanno ancora cercando, o che non si è ancora cercato. La paura c’è sempre, ma si ha meno paura di quello che si conosce, e come si può conoscere la morte… a parte alcuni casi di esperienza di N:D.E. nessuno è tornato per dirci cosa c’è dopo, e non tutti considerano tali esperienza sono valide e significative. Ma il farsi carico in modo olistico della cura, a mio avviso, può portare ad una conoscenza del processo del morire e delle varie fasi fino all’accettazione della nostra morte, fino al non aver più paura di parlarne, di ascoltare e accogliere quello che i pazienti a cui comunichiamo una prognosi infausta ci diranno.
Speranza: è vista in modo molto diverso dalle varie religioni, spiritualità., al seguente link il pensiero di un monaco Zen sulla speranza:
http://www.ilcerchiovuoto.it/contents/newsletter/2-ott08.pdf
Nel Buddhismo la speranza non è trattata. Nei testi, sia antichi che moderni, la speranza non viene nemmeno citata, e pertanto si può dire che il Buddhismo non annovera la speranza tra le possibili condizioni dello spirito………..
Mi è successa la stessa cosa. Ho capito quanta distanza umana abita il cuore di chi ogni giorno guarda la malattia dell’altro, la studia, la vede come pane quotidiano per poter guadagnare o semplicemente come corollario del proprio lavoro e della propria vita. Magari in cuor suo sentirà di essere importante, coraggioso, e si, proprio così. Ma invece ai nostri occhi queste persone sono solo corpi senza spirito, degni prodotti di questa cultura, giudici implacabili e fredde della nostra sorte. E magari capita pure di affezionarti in quei momenti tragici anche a un leggero tremolio della voce, se c’è, ad un sguardo meno severo e crudo, e più compassionevole, magari te lo inventi. Ma poi pensi, ma che vita sto vivendo, e la morte può riuscire anche a piacerti in certi frangenti, forse ti spinge pura a rilassarti per vedere quanto la natura delle cose sia molto più compassionevole di questi addetti ai lavori, e sperimenti l’abbandono a tutto e a tutti, solo con il tuo mondo umano interiore che riflette in te il suo sorriso e auspica il tuo riposo e la tua naturale dipartita.
Quando mi è stato qualche anno fa, che avevo un tumore e avrei dovuto sottopormi ad un’opetrazione seguita da sedute di chemioterapia e radioterapia (preferisco sempre che non farmi mancare nulla, per carità) ovviamente è stato un momento difficile, ma non tanto perchè mi fosse stata detta la VERITA’, quanto per il modo sbrigativo e noncurante delle mie emozioni in cui questo era stato fatto…..al telefono, da un medico sconosciuto, in una situazione delicata.
Preferisco in assoluito la verità (il medico ha il dovere assoluto di informarmi, io ho il diritto di decidere) ma, trattandosi di una verità brutale, vorrei che mi fosse comunicata a voce, magari guardandomi negli occhi.
Alla mia protesta mi fu risposto da un’amica dottoressa che tutto viene lasciato alla sensibilità della persona, in tanti anni di Medicina nulla viene mai detto sulla questione “comunicazione” : forse il nocciolo è qui, nella totale mancanza di umanità.
Sono d’accordo con entrambi, ciò che manca è la formazione del medico (non la sua umanità), la sua frequente incapacità di affrontare il difficile e delicato compito di comunicare in modo corretto. Complice la paura della morte, la sua indicibilità. Per questo segnalo anche una bella iniziativa di formazione a Mantova sulla speranza del malato. Aiutatemi a diffonderla!
Se speranza è il sostantivo,è la preposizione che fa la differenza.Speranza di….Di non soffrire troppo;di riuscire ad accettare l’idea della propria fine e di non sentirsi derubati di qualcosa;di “non essere più dopo essere stati”.Non ricordiamo il momento in cui siamo diventati “essere” ma facciamo grande fatica ad accettare che il “non essere” non è un tradimento della Vita.
Alla domanda vorresti sapere? La mia risposta e’ assolutamente si! Certo e’ fondamentale il modo. La mia esperienza personalissima dice che al problema della brutalità nel comunicare una prognosi infausta si somma la mancanza di chiarezza nella comunicazione: a volte la terminologia medica non e’ immediatamente percepibile. Nella mia ignoranza non associavo il rischio morte alla parola “melanoma”….!!! Il medico ha dunque l’importante dovere di comunicare in termini precisi la prognosi,di assicurarsi che questa sia stata ben compresa,e deve farlo ricordando di avere di fronte un essere umano,con tutto ciò che questo comporta. Bel compito…considerando che nelle nostre facoltà di Medicina non e’ previsto alcun insegnamento in merito. Chiudo sottolineando che il nostro diritto considera truffa fornire false informazioni od ometterle inducendo altri in errore,cagionando in conseguenza un danno od un profitto ingiusto a terzi. ( si pensi all’atto testamentario ad esempio).
Caro Sandro, concordo. Molti medici ritengono di aver “detto la verità” quando hanno esplicitato la diagnosi in termini medici. La maggior parte dei pazienti non capisce, ma non osa chiedere per il timore reverenziale nei confronti della figura del medico.
Dire significa accertarsi della comprensione dell’interlocutore, lasciargli il tempo e il modo di chiedere ciò che desidera sapere.
Il problema è sempre lo stesso: il medico non è formato per affrontare un discorso – come quello della morte – che vive ancora come una sconfitta personale e che continua a essere socialmente negato.
Sentenziare la morte ad un paziente è forse un atto deontologicamente obbligato ma esistenzialmente problematico. Mi sembra che solo due figure abbiano un simile potere: il medico e il giudice. Ambedue possono trovarsi a fronteggiare un conflitto personale spesso irrisolvibile, perché si tratta di applicare regole che vengono proposte come oggettive ma oggettive non sono e fanno a pugni con la propria soggettività, le proprie credenze, il proprio codice morale.
Io vorrei sapere e quindi se mi trovassi al posto del medico vorrei che il mio paziente sapesse, ma so per certo che la consapevolezza non è sempre un bel regalo e che se ci si vuol prendere cura di una persona bisogna occuparsi anche delle sue volontà, che quasi mai sono esplicite, perché pochi ti diranno che non vogliono sapere la propria scadenza ma alcuni sperano che tu prenda questa decisione per loro, per consentire loro di usufruire dell’illusione come ultima e unica possibilità per non dover fronteggiare qualcosa di incomprensibile.
Ma io, che non ho avuto alcuna diagnosi di morte e sono convinto di vivere ancora per alcuni decenni, mi faccio un’altra domanda: perché ho bisogno di quella diagnosi per decidere di occuparmi di tutto ciò che mi è più caro prima di andarmene? Perché non me ne occupo adesso?
E’ vero anche questo, Massimo. Alcuni (non moltissimi, per la verità) non vogliono sapere. E te lo fanno capire, dicono gli operatori sanitari. La strada è ardua proprio perché non ci sono cartelli segnaletici chiari e univoci. Dire, non dire, dire fin dove il paziente vuole sapere, dire ma senza togliere la speranza. Siamo noi ad aver dato quel potere al medico, dal quale ci aspettiamo l’onnipotenza. Ma ora i nostri principi etici mettono al centro il paziente. Dal punto di vista culturale, etico, psicologico, questa questione è davvero complessa. Per questo vale la pena di approfondirla, chiarendoci innanzitutto se speranza è solo speranza di guarire. Io penso di no, nonostante (ma forse in virtù) delle mie posizioni laiche.
Il triste percorso di mio marito, morto di recidiva tumorale dopo che per 4 anni ci si era aggrappati alla speranza utopica di una vera guarigione, mi ha insegnato alcune cose. La prima é che dobbiamo ricevere dai medici informazioni corrette sul nostro vero stato di salute, in modo da poter scegliere, consapevolmente, se accanirci con infusioni chemioterapiche inutili quanto devastanti, oppure accettare di finire con dignità e – soprattutto – senza soffrire. Per arrivare a questo occorre tuttavia tempo e accompagnamento, ciò che nel nostro caso non si é potuto avere altro che nell’ultimo pezzo di strada. La seconda é che per alcuni tra noi, e purtroppo lui era tra questi, l’idea di morire é davvero inaccettabile, sicuramente anche in relazione al tipo di patologia terminale: quando si stia “bene” e si sia compiuto un percorso di guarigione, é assai più difficile accettare di colpo l’idea che “non c’é più niente da fare”. A questo si unisca una vita vissuta in piena laicità ed impegno civile, in opposizione ad una concezione religiosa, subita da bambini, sotto le forme dell’ignoraznza e della superstizione… Non so, certo il dolore di chi resta dopo una simile esperienza é davvero difficile da trasformare, nonostante più che validi supporti. Anche in questo temo che la solitudine delanostra attuale realtà sociale non sia di grande aiuto, speriamo in tempi migliori!
Gentile Patrizia è vero, tutto rema contro l’accettazione del morire nostro e di chi amiamo. E da questo punto di vista, la comunicazione medico/paziente dovrebbe essere onesta in ogni fase, senza forzature pessimiste se il paziente sta meglio, ma senza lasciare sperare fittizie guarigioni. Adeguarsi alla morte che si avvicina richiede tempo, capacità di contrattare col dolore. Come può un essere umano fare questo percorso se crede di essere vicino alla ripresa? E un familiare che aveva condiviso la fiducia nella guarigione come può accettare la perdita ?
L’errore è, naturalmente, umano. Ma la quantità di storie analoghe fa comprendere che il non dire del medico non è in genere errore, ma terrore, incapacità, fuga.
…non vorrei che nessuno mi esentasse dal conoscere la verità, mai, perchè nessuno può permettersi di sapere al posto mio e non rivelarmi, qualunque situazione che mi riguarda decidendo per me cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa potrebbe farmi soffrire o cosa no. Ho imparato a mie spese che difficilmente in questo ambito si omette la verità senza essere tragicamente certi, mentre lo si sta facendo, che chi ascolta capisce benissimo quello che non stai dicendo. Inoltre, il tempo che coinvolge la speranza di vita e la (quasi) certezza di morte, non è solo utile per prepararsi al proprio passaggio o fine che sia, ma è una crescita enorme per le persone che ti stanno accanto, terrena e spirituale. Sapranno, da allora, proprio grazie a questo tempo, vivere in maniera più consapevole, più felice, più emozionata, meno ipocrita. M.
Ero con la mia sorellina di 28 anni quando le hanno sentenziato la morte, dopo anni di sacrifici, sofferenza e un trapianto di fegato che ha visto una delle persone a cui più voleva bene sottoporsi a un intervento pesante per donarle l’organo.
Metodo e modi, certo contano, ma siamo sicuri che a una persona di 28 anni, che tutte le cose da “mettere a posto” non le ha ancora fatte (fare una famiglia, avere degli eredi ecc…) sia etico dire tutto? Ho impiegato tutte le mie forze per screditare il chirurgo, per dipingerle una realtà, non del tutto falsa, che le togliesse la sofferenza più grande, il terrore.
Martina è andata via senza angoscia, senza dolore, senza lasciare problemi aperti. Per me è stato etico.
Alessandro
Caro Alessandro, senz’altro lei ha fatto bene, perché ha sentito che era giusto così. Non ci sono, in questa materia, regole generali, a mio parere. L’importante è restare in ascolto di ciò che desidera chi ci sta lasciando.
Mi hanno appena detto che mi è rimasto poco da vivere da un medico che ha rivendicato un sempre sincero e franco rapporto. In realtá non potevano esimersi dal farlo perchè devono essere prese delle decisioni da me che incideranno sulla qualità della vita che mi è rimasta. Ho saputo da mia moglie che all’inizio dell’ultimo ciclo di chemio non credevano nella guarigione, ma speravano solo di bloccarlo. Ho pensato che almeno mi avevano lasciato la speranza e la leggerezza di vivere. Certo non sono stato informato, mi è stata nascosta la veritá e solo ora intervenendo in
Questo forum ne stò prendendo coscienza. E allora cosa avrei preferito? Fino a questo momento mi sono detto che forse non avrei voluto sapere nemmeno ora. Vivere senza speranza, illusioni come si fá? Stò cercando delle risposte sul forum. Cosa avrei fatto di diversamente? Ora mi interrogherò su questo? E poi? Pensavo di poter dire la mia con autorevolezza, ma non è così. La veritá mi ha sconvolto, sono 3gg che sono scioccato, è un percorso troppo personale. Certo di fronte alla veritá si restituisce all’individuo e alla sua famiglia la facoltá di autodeterminarsi. La veritá sempre e comunque.
Caro Bruno, provo a mettermi nei suoi panni e so che in questo momento di sconvolgimento nessuna parola pronunciata da altri può avere senso, o consolarla della perdita della prospettiva futura. Solo lei può trovarlo, questo significato, che riguarda ogni suo singolo giorno di vita. Le auguro con tutto il cuore di riuscirci. Nessuna impresa, forse, è più creativa. Se vuole condividere dei pensieri, questo blog è a sua disposizione.