“Get ready with my boyfriend’s funeral”. Il lutto su Tik Tok, di Davide Sisto
Recentemente, durante un mio incontro pubblico sui temi della morte digitale, una partecipante mi ha chiesto un parere riguardo alla versione funebre del celeberrimo acronimo GRWM usato su Tik Tok, YouTube e Instagram. L’acronimo sta per “Get Ready With Me”, “preparati con me” o “prepariamoci insieme”, e indica l’abitudine – da parte soprattutto degli utenti social più giovani – di creare dei tutorial relativi al make-up e al look da indossare durante specifiche circostanze, per lo più solari e disimpegnate. Siamo oramai tutti consapevoli di quanto sui social media vada di moda questo tipo di tutorial, per mezzo dei quali gli influencer sponsorizzano o, comunque, consigliano abiti, modi per fare la perfetta skin care e cose simili. Non immaginavo, però, che spopolasse anche la seguente versione dell’acronimo indicato: “get ready with me for my boyfriend’s funeral” o “get ready with me for my mom’s funeral”. Dietro queste sigle si nascondono centinaia, se non addirittura migliaia, di video in cui vediamo persone molto giovani che si truccano o si vestono davanti alla telecamera in vista della partecipazione al funerale del proprio partner o genitore. I video durano uno o due minuti, hanno generalmente un sottofondo musicale malinconico e contengono qualche concisa frase di spiegazione. In realtà, il funerale solitamente ha già avuto luogo. Il video è, dunque, una specie di messinscena per sottolineare un momento particolare del lutto appena avvenuto, su cui spesso si pone poca attenzione: appunto, il momento preciso in cui ci si deve vestire e truccare per andare al funerale di una persona amata, quindi una situazione di estremo dolore legata a una perdita appena avvenuta. I video, generalmente, uniscono atmosfere drammatiche con altre più ilari o ironiche, guadagnando milioni di visualizzazioni e di like, nonché centinaia di migliaia di commenti di coetanei che raccontano esperienze luttuose simili o che condividono il proprio calore virtuale alla persona immortalata.
Ne cito un paio: Karine, una ragazza che ha appena perso la madre, la quale in un minuto di video mostra il tipo di make up e di abito nero che ha indossato per il suo funerale. Gli hashtag usati, oltre a GRWM, sono #funeral #fyp #foryoupage #foryou. Il video, in cui vediamo la ragazza a tratti in lacrime a tratti con un sorriso disincantato, conta quasi diciotto mila commenti, nonché più di due milioni di like. Ancora più significativo è il video dell’influencer Paige Gallagher che si è truccata davanti alla telecamera per la morte del suo compagno. Durante il video chiede a chi ha vissuto un lutto significativo se ha avuto, durante la fase del rito funebre, la sensazione simile alla sua di essere dentro un gioco in realtà virtuale, in cui si perde il contatto con la tangibilità del reale. Tra i milioni di followers che hanno visto il video alcuni la ringraziano per dare testimonianza a questa particolare situazione del lutto, altri invece la condannano radicalmente. Costoro ritengono, infatti, che sia di cattivo gusto ridurre il necessario raccoglimento per la perdita patita all’ennesima esposizione narcisistica di sé, dando rilievo a cose del tutto futili come l’abito o il make up per andare al funerale.
Durante gli ultimi giorni ho osservato numerosi video simili su Tik Tok per cercare di farmi un’idea sul valore di questa particolare scelta. Da una parte, mi sembra che la versione funebre del GRWM sia parente di tutte quelle iniziative che hanno finora segnato la presenza della morte sui social media, come – per esempio – i selfie ai funerali condivisi su Instagram qualche anno fa o i video narrativi sulla perdita di un genitore condivisi su YouTube. Queste iniziative, per lo più portate avanti da persone molto giovani, tendono a creare narrazioni in parte drammatiche in parte ironiche, cercando quindi di condividere pubblicamente il proprio dolore mediante scelte stilistiche agrodolci. La condivisione pubblica del dolore, unito a una qualche forma di ironia, nasconde l’esigenza di parlare insieme ai propri coetanei del lutto, di mostrarne i segni, di invitare a ritrovare nel tempo la risata e dunque di eliminare quel carattere di riservatezza che, almeno per alcuni, genera più sofferenza che sollievo. Inoltre, va detto che la scelta del look per la partecipazione al funerale richiama alla mente svariate ritualità funebri, ciascuna con le sue regole e le sue abitudini. Ci sono, come sappiamo, culture che danno un’importanza fondamentale al modo di presentarsi al funerale. Dunque, non c’è niente di particolarmente offensivo né di inusuale nel dare spazio visivo, sui social, a questo tipo di preparazione, magari determinando una riflessione collettiva sul tema. Inoltre, è sempre molto difficile dover giudicare in maniera radicalmente netta registri comportamentali e stilistici spesso molto differenti, come quelli che separano le generazioni pre-social da quelle abituate a usarli quotidianamente. Se questo tipo di iniziativa è una scusa per affrontare il lutto in pubblico e per ragionare sul dolore che accompagna il rito funebre, allora non mi pare che ci sia nulla di male.
Dall’altra parte, ovviamente, il dubbio che la messinscena a funerale avvenuto nasconda, dietro un proposito positivo, la mera capitalizzazione del like e della visibilità è altrettanto plausibile. Quando qualcosa diventa tendenza, rischia molto spesso di creare atteggiamenti superficiali o tesi semplicemente a trarre vantaggi dalla fragilità ostentata. E se l’essere umano di per sé è abile a mostrare il peggio di sé anche nelle circostanze in cui si richiede empatia, raccoglimento e calore reciproco, allora non c’è da stupirsi se qualcuno si approfitta della versione funebre del GRWM per trarre vantaggi economici o di mera visibilità.
Da studioso dei meccanismi che caratterizzano le relazioni sui social in presenza di un lutto riesco a vedere gli elementi positivi di questa nuova iniziativa, che spinge le persone più giovani a mettere in discussione una certa riservatezza, a volte ipocrita, a volte figlia dell’imbarazzo relazionale, che caratterizza i primi momenti di una perdita. Per me il bicchiere è mezzo pieno, non mezzo vuoto. Ovviamente, occorre fare attenzione affinché non si banalizzi un momento così delicato come quello relativo al rito funebre. Ma questa attenzione vale sia dentro che fuori i social media.
Voi cosa ne pensate? Vi sembra una scelta inopportuna? Oppure, trovate un aspetto positivo in questo tipo di iniziativa? Ancora: cogliete in cose del genere un distacco generazionale piuttosto marcato? Attendiamo le vostre risposte.
Non volevo scrivere un commento qui, perché le note di un filosofo richiedono commenti seri, non pettegolezzi da ignoranti. Perciò cercherò di riformulare quel che ho scritto su Facebook, argomentando meglio. Secondo me, tutta la questione attiene al teatro, alla rappresentazione, alla distinzione quasi impossibile tra vero e falso nella rappresentazione teatrale. Sappiamo che il teatro presuppone una serie di convenzioni che vanno rigorosamente rispettate e al tempo stesso trascese: vanno fatte sparire affinché il pathos si realizzi e la rappresentazione sortisca il suo effetto liberatorio. Valeva nel teatro greco (ricordate le maschere?), valeva al tempo degli elisabettiani, vale in Brecht. Teatralizzare significa assegnare all’esperienza una sua collocazione nel grande rito collettivo della vita, ma al tempo stesso significa alludere a significati altri, che sorgono dal profondo dell’animo dell’attore e del singolo spettatore, significati che sfuggono alla concettualizzazione e rassomigliano a visioni di sogno, apparizioni fuggevoli sul fondo di una caverna, rivelazioni. Possiamo collocare questa azione scenica sullo sfondo di un teatro greco, o sul palcoscenico di uno sgangherato varietà di provincia, non conta. Possiamo agire la rappresentazione in un video su Tik Tok, oppure possiamo concentrarci in un seminario di psicoterapia. Quando ero giovanissima, tra le fondamenta del palazzo in cui abitavo fu rinvenuta una grotta in cui Giovan Battista Della Porta e i suoi amici avevano allestito un teatrino alchemico: rappresentavano la Grande Opera in un modo che sarebbe riuscito incomprensibile a chiunque li avessi visti dall’esterno, senza essere iniziato al significato di quei quadri viventi. Ciò che si mette in scena ha effetto su chi ne conosce il linguaggio e accede al trauma benefico del risveglio, su chi cade – per così dire – nell’esperienza rivelatrice. Qualsiasi rappresentazione rientra in queste categorie.
Ovviamente esistono anche altri piani di lettura, esiste la semplice beffa, esiste lo scimmiottare la vestizione di una diva di un film dark, come possiamo elencare tutte le possibilità? Dato un certo numero di “attrezzi di scena”, una ben definita scelta di trucco e parrucco, la libertà di improvvisazione è totale.
Per me la ritualità della morte è – purtroppo – rigidamente definita da una serie di esperienze che vorrei non aver avuto il tempo di sviscerare. Preferisco buttarla in caciara come ho fatto su Facebook.
Per chi è giovane e alle prime armi con la Mietitrice, un video può essere un buon inizio, perché no?
Però il maquillage mi fa l’effetto della “spillatrice” per controllare l’espressione del cadavere, è troppo davvero. Saremo pure una colonia americana, ma siamo pur sempre mediterranei: meglio la maschera tragica.
Scelta inopportuna.Punto.
Mi succede raramente di dare un giudizio netto, reciso. Ma questa volta lo è: secondo me questa è una forma di spettacolarizzazione di un dolore che, se vogliamo forzare la frase, forse non c’è nemmeno. È vero che questa è la società dei social e del narcisismo, ma rimane (anzi: proprio per questo rimane) nella mia personale sensibilità, una linea di demarcazione tra le cose giuste e quelle sbagliate. Il lutto ha bisogno del rito, ha bisogno di condivisione, e un funerale (laico o religiono poco importa) è un momento collettivo, mentre qui ci sono singole figure di una folla solitaria che puntano a qualcosa che, temo, ha poco a che fare con il dolore e con la perdita: vuoi negare una faccina triste a una persona che ha appena perso il didanzato o un genitore? Si tratta di gesti che ricordano troppo da vicino le situazioni in cui, mentre si svolge un episodio estremo, le persone si mettono a firmarlo invece di intervenire. Il virtuale non è il reale in altra forma, ma un’altra realtà: e questa realtà, nel caso di cui si parla, non la posso condividere.
Ho aperto un profilo Tiktok da poco più di un anno, nel quale parlo di morte e ritualità, di visite ai cimiteri e di sensazioni legate alla morte. Sono video piuttosto casarecci e, infatti, non stanno riscuotendo grandi reazioni e numeri, se non che, questi, raggiungono sensibilmente maggiori reazioni rispetto FB e IG e, quindi, sto continuando perché voglio vedere come va a finire…
Quancun* mi ha anche lasciato dei messaggi, dicendomi di continuare perché trovava interessanti i miei video, mentre qualcun altr* ha detto che sono disturbata. Ho notato che all’inizio l’algoritmo di Tiktok mi sottoponeva riti funebri o commemorativi svolti proprio nelle chiese e una serie di momenti video dove le persone raccontavano della morte dei loro cari, video italiani tra l’altro, girati anche durante la tumulazione nel cimitero o durante una semplice visita.
Non ci trovo nulla di male ad esternare le emozioni. Soprattutto nei giovani, che fanno una fatica pazzesca a trovare una collocazione emotiva in un mondo che offre loro poche prospettive, che è sempre più reazionario e foraggia tabù ormai obsoleti. Ogni religione ha il suo trucco e parrucco rituale, nessuno ha mai detto fosse ridicolo, inopportuno o macabro (anche se ce ne sarebbe da dire per tutti) Penso che, se si sono sdoganati più velocemente ben altri tabù attraverso l’uso dei social, non possa far male a nessuno parlare anche della morte, in ogni sua forma. E il bello dei social è che, compatibilmente con la liceità dei contenuti, se non ti piace quello che vedi, puoi benissimo passare al successivo reel…
Leggendo i commenti penso, una volta ancora, che mai come oggi sia gigantesco il gap generazionale a causa dell’uso dei social. Credo che sia normale una reazione di repulsione da parte di chi è cresciuto con altri valori maturati nelle epoche pre-social. Credo anche che sia opportuno analizzare questi fenomeni nuovo con un’attenzione lenta e aperta alla comprensione dei cambiamenti in corso. Rimango dell’idea che nessun fenomeno sia mai del tutto bianco o del tutto nero. Proprio il mix dei due colori mostra invece una esigenza di esprimersi la quale intercetta anche il bisogno di avere un pubblico. Si può trovare un compromesso tra la prima esigenza e il secondo bisogno, sapendo che non tutto quello che diamo di solito per assodato nei comportamenti “nostri” è esente di ipocrisie et similia.
Sì, assolutamente, comprendo il tuo punto di vista e condivido la tua prospettiva positiva riguardo a questa nuova tendenza sui social. È incoraggiante vedere che i giovani stiano abbracciando la possibilità di condividere apertamente le loro esperienze di lutto, sfidando la riservatezza che talvolta può essere percepita come ipocrita o derivante da quell’imbarazzo relazionale di cui scrivi.
La capacità di affrontare apertamente i momenti difficili della vita, inclusi i riti funebri, può favorire una maggiore unione emotiva e un senso di comunità tra i giovanissimi. Tuttavia, è fondamentale mantenere un equilibrio e garantire che questa condivisione non diventi superficiale, o banale. La sensibilità e il rispetto per la natura delicata di questi momenti dovrebbero rimanere al centro, sia all’interno che all’esterno dei social media.
Ogni nuova forma di espressione sui social può rappresentare un’opportunità, se gestita con rispetto e consapevolezza.