Cosa vuol dire morire? Riflessioni a partire da un fatto di cronaca, di Davide Sisto
I quotidiani nazionali hanno dedicato, negli ultimi giorni di gennaio 2020, un ampio spazio alla notizia di una bambina siciliana – di appena nove anni – morta suicida in circostanze tutt’altro che chiare (perlopiù collegate all’uso del social network TikTok, per quanto sia ancora una supposizione priva di riscontro oggettivo). Al di là delle svariate analisi giornalistiche che si sono succedute per diversi giorni, mi ha colpito leggere più volte le seguenti parole: “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”.
Questa affermazione implica una serie di ragionamenti, che sono – di fatto – alla base degli articoli che da anni fanno parte di questo blog. Innanzitutto, cosa vuol dire morire? Quando ciascuno di noi – adolescenti o adulti, poco importa – si pone questa domanda, si rende immediatamente conto che non vi è modo di andare oltre a quanto sostiene il filosofo tedesco Gadamer: «Un pensiero della morte, che lascia che io continui a vivere, non sembra essere molto diverso né essenzialmente differente da tutti gli altri sogni di vita che noi sogniamo e nei quali viviamo. Ci troviamo, a quanto pare, di fronte a un’aporia, la quale tiene separati la morte e il pensiero. Pare che il pensiero della morte trasformi di già la morte in qualcosa che essa non è». Una volta che ne facciamo esperienza non abbiamo ovviamente modo di descriverla e di spiegarne il significato; possiamo, molto banalmente, soltanto attribuire un significato all’esperienza che facciamo della morte altrui.
Ovviamente, l’affermazione summenzionata allude ad altro, cioè alla ipotetica scarsa consapevolezza che i bambini e gli adolescenti del XXI secolo hanno nei confronti della propria connaturata mortalità, aspetto che li porta – sempre ipoteticamente – a sottovalutare la fragilità e la precarietà della propria esistenza.
Non mi interessa sapere se ciò sia vero oppure no. Mi interessa semmai, facendo finta che sia plausibile tale pensiero, evidenziare un altro aspetto: se “molti ragazzini oggi non sanno cosa vuol dire morire”, non è forse colpa degli adulti impegnati costantemente a eludere ogni tipo di discorso relativo alla morte? Sono oramai decenni che parliamo di rimozione della morte e che sottolineiamo la necessità di percorsi educativi per mezzo dei quali “imparare a morire” (dunque, a vivere). Tuttavia, ancora oggi non riusciamo a superare l’imbarazzo che ci irretisce ogniqualvolta occorre prestare attenzione al limite della nostra esistenza e di quella dei nostri figli. Un imbarazzo che risulta poi fatale nella vita quotidiana.
Riprendiamo un attimo il discorso relativo alla pandemia da Covid-19: è palese che la maggior parte dei comportamenti negativi dei cittadini sia riconducibile al non voler pensare di essere mortali. Tra i tanti atteggiamenti oggettivamente riconducibili alla negazione del pensiero della morte e di cui abbiamo già parlato nel blog, uno mi ha, ultimamente, colpito in maniera particolare: diversi miei conoscenti, che sono stati contagiati (e che, per fortuna, sono guariti), si sono ammalati perché, se da una parte hanno chiaramente riconosciuto il pericolo della pandemia, dall’altra lo hanno applicato soltanto alle altre persone e non a se stessi. Vale a dire: ho notato un’enorme premura nel consigliare ai propri cari di prendere tutte le necessarie precauzioni e, al tempo stesso, una altrettanto grande sciatteria nel prenderle personalmente. Come se, di nuovo, si proiettasse il rischio di morte sugli altri, perché consci del dolore che deriva da una perdita, ritenendo però se stessi immuni da tale rischio. Della serie: io, comunque, non corro il pericolo di morire. Io sono immortale. Mi ha impressionato soprattutto un conoscente che, scoperto di essere positivo al Covid, mi ha chiesto: “tanto non si muore mica di Covid, vero?”. Non me lo ha chiesto a fine febbraio 2020, quindi in una fase in cui ne sapevamo ancora poco, ma nel periodo natalizio appena trascorso, dopo mesi di reportage giornalistici e di trasmissioni televisive dedicate al tema. Capisco molto bene la paura, la quale può spingerci a evitare i pensieri più drammatici (cfr. il famigerato “andrà tutto bene”), ma questo tipo di rimozione posteriore al contagio è lo stesso tipo di rimozione che ha reso possibile il contagio. Dunque, tornando alla domanda di partenza: come possono i ragazzini sapere cosa vuol dire morire se i loro punti di riferimento adulti non lo sanno o non lo vogliono sapere?
In conclusione, è fondamentale parlare della morte a tutte le età, a partire dall’infanzia. Ma per poterne parlare in maniera consona e vincente da un punto di vista educativo è necessario, in primo luogo, che gli adulti si sforzino di sottrarsi alla rimozione e al tabù. In caso contrario, non saranno mai capaci di educare attentamente i propri figli e i propri studenti, limitandosi poi – quando hanno luogo drammatici casi di cronaca – a fare affermazioni come quella indicata, dal sapore ipocrita e moralistico. In altre parole, ci si toglie di dosso ogni tipo di responsabilità, colpevolizzando chi – a soli 9 anni – dovrebbe lucidamente conoscere ciò che gli adulti stessi ignorano.
Cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti e le vostre riflessioni.
Buongiorno,
Vi seguo da un pò e apprezzo moltissimo le occasioni di riflessione che suggerite…..
Nel caso specifico concordo con l’individuazione dell’ipocrisia e della morale falsa che troppo spesso attribuisce ai bambini, quanto invece è responsabilita degli adulti , sempre più confusi …
Grazie per queste occasioni di riflessione.
Mentre leggevo tanti concetti condivisibili, è salita alla mente l’immagine di un bambino morto, su un letto con due candele ai lati. Era su un libretto di catechismo (nel complesso assurdo) e mi faceva impressione: lo avevo dovuto colorare, oltre a leggere le varie domande e affermazioni. Un tempo – anni cinquanta – si andava poco per le lunghe in fatto di educazione, al contrario di ora che nel tentativo di non traumatizzare i bambini parlando loro della morte o semplicemente dicendogli che un nonno, o un altro caro è morto, si mettono le radici per la comparsa di traumi futuri. D’altra parte la morte era visibile, quando ero bambina, i funerali frequenti e quelle lunghe processioni non si possono dimenticare, i morti erano nelle case, ci si poteva poi confrontare tra pari su cosa si provava al loro cospetto, quando si andava a salutare un parente. I grandi ci badavano poco.
Come ovviare a questo contrasto tra prima e adesso?
Sono del parere che la morte vada ‘vista’ più che spiegata, anche per superare il lutto. Tante persone adulte che hanno perso i loro cari a causa della pandemia, non si danno pace per non averli visti dopo e salutati prima. Figurarsi i bambini che vedono ‘scomparire’ un nonno o un genitore… Qualcuno dice “è scomparso”, anziché “è morto”, come se scomparire fosse meno grave.
Penso si debba iniziare dagli adulti a ridimensionare il senso di immortalità. La medicina a mio avviso, come è concepita adesso, riguardo gli anziani tende a trovare sempre rimedi, analisi, farmaci, cure, che allungano la vita, ma… fino a quando?
Silvina Petterino
Grazie a entrambe per gli ulteriori spunti di riflessione. Un caro saluto. Davide