Articoli

Alzheimer e demenze: tragedie e buone prassi, di Marina Sozzi

La mia prima esperienza con l’Alzheimer risale, ormai, a più di venti anni fa. Mia suocera viveva con noi alcuni mesi l’anno, e le volevo bene. Era una donna napoletana con un’innata nobiltà, alta e dritta nonostante l’artrite. Cucinava per noi meravigliose teglie di verdure, e invitavamo quasi ogni giorno qualcuno a cena. Una sera arrivarono i nostri più cari amici, con i quali condividevamo quotidianità e bambini da crescere, oltre che le teglie della “nonna”: erano a casa nostra almeno tre volte la settimana. Lei li accolse dicendo: «E chi sono questi bei ragazzi?». Restammo senza parole ma la prendemmo sul ridere. Non sapevamo nulla dell’Alzheimer, e ci vollero altri mesi e altri episodi prima di arrivare a una diagnosi. Dal neurologo la portammo dopo che la trovammo una notte, col cappotto indosso, accanto alla porta, seduta con la schiena eretta, il suo bastone da passeggio, che ci chiedeva di accompagnarla dal parrucchiere. Fu una rapida discesa agli inferi verso il nulla, che si impossessava della sua mente e che ci riempiva di tristezza e ansia. Nessuno ci aveva parlato dei sintomi, di ciò che avremmo dovuto aspettarci, di come sarebbe stato bene comportarci. Avevamo la fortuna di poter pagare una badante. Ma nulla poteva proteggere mio marito dal dolore di non essere più riconosciuto da sua madre. Ho letto recentemente l’osservazione di uno scrittore, la cui madre è stata colpita dalla malattia. Se mia madre non mi riconosce, scrive, chi sono io? Qual è la mia identità? Probabilmente è stata questa la sua percezione di allora, vista con gli occhi più consapevoli di oggi.

Le fu risparmiato il peggio, la perdita completa del controllo del corpo. Una sera la sentii scottare, aveva una polmonite, complicazione frequente. Convinsi mio marito a lasciarla andare, non la portammo in ospedale, veniva un infermiere a farle un’inutile flebo di liquidi e antibiotici: lui non riusciva più a entrare nella camera di sua madre, e passò interi giorni a misurare a passi incerti il corridoio. Lei soffrì, credo, era molto agitata, ma di cure palliative sapevamo ancora poco, ed erano previste solo per i malati di cancro. Poi entrò in coma, e un giorno dopo morì.

Sono passati quindici anni e la malattia d’Alzheimer si è diffusa, con l’ulteriore invecchiamento della popolazione. Oggi, se non ricordiamo un nome, diciamo scherzosi “ho l’Alzheimer!”. E’ noto che si fa spesso dell’umorismo su ciò che ci fa più paura: e infatti sulle demenze senili vi è ancora un pesante stigma, e le diagnosi continuano a essere tardive, perché i sintomi vengono spesso ricondotti al semplice fatto di essere vecchi.

Abbiamo nel frattempo capito che le demenze sono l’ultimo flagello della nostra civiltà, ne parliamo in libri e film, e speriamo nell’onnipotenza che attribuiamo alla medicina, affinché produca un vaccino, una cura, qualcosa che possa evitare o fermare lo sgretolarsi del cervello. Sappiamo anche che chi cura un malato di Alzheimer ha a sua volta un terribile bisogno di cure, perché la sua integrità psicofisica è a rischio: isolamento, depressione e malattie organiche sono frequenti. Il rapporto Censis sull’Alzheimer del 2016 ci dice che i caregiver hanno in media sessant’anni: ci sono, tra questi quasi-anziani, figli non più giovanissimi, ma anche vecchi di ottant’anni che trascorrono l’ultimo periodo della loro vita in un lago di dolore, senza molti aiuti, impegnati in un lavoro di cura al di sopra delle loro forze. Ogni tanto accade una tragedia, un ottantenne così disperato da uccidere il coniuge, un figlio che soffoca la madre. Allora tutti diciamo: che sia l’ultima volta!

Nel frattempo la crisi economica ha provato le famiglie, primo nucleo della cura nel nostro paese. Molte devono aiutare i figli disoccupati o con un lavoro che non permette loro di mantenersi. La badante non ci sta, anche unendo le forze di più nuclei, e nemmeno la retta dell’RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale). E dal sistema sanitario e dai servizi sociale il sostegno arriva col contagocce, nonostante la buona volontà di molti funzionari: pochi e insufficienti i centri diurni, dove è possibile lasciare i propri cari malati durante il giorno, a fare terapia occupazionale o stimolazione cognitiva, per rallentare la malattia. Il terzo settore (di cui Infine Onlus fa parte), con il finanziamento delle fondazioni di erogazione, propone Alzheimer caffè e gruppi di sostegno per i familiari, ma riesce a fare interventi puntiformi in una distesa di disagio: un po’ per la mancanza di coordinamento, e di denaro, e un po’ per la scarsa collaborazione delle amministrazioni. Ma anche perché le famiglie al cui interno c’è un malato tendono a richiudersi su se stesse, esauste, e a ritirarsi dal mondo. Non è semplice far arrivare loro l’informazione che l’aiuto è disponibile, e talvolta sono così abituate a far da sole che sono diffidenti con chi vorrebbe dare una mano.

So di aver dipinto uno scenario a tinte molto fosche. Voglio chiudere con una nota di ottimismo: da settembre, a Torino, dieci volontari di Infine Onlus, che hanno seguito un lungo corso di formazione, saranno disponibili a sostituire chi cura un malato di demenza a domicilio per alcune ore la settimana, dandogli un po’ di sollievo (grazie al finanziamento di Fondazione Specchio dei Tempi). Avete altre esperienze di buone prassi? Credo sarebbe molto positivo condividerle, per portare alla luce tutto il supporto che esiste.

(L’immagine in primo piano è di Pier Luigi Fagioli uno dei vincitori del contest fotografico “Immagini di vita” organizzato  da Infine Onlus http://www.infine.it/news/infine-onlus-proclama-i-vincitori-del-contest-fotografico-immagini-di-vita/)

 

 

Un blog rinnovato

LOGO_INFINE_petrolioCari amici e lettori, non scrivo da un paio di mesi, e voglio raccontarvi cosa è accaduto in questo periodo, e quale evoluzione avrà questo blog.

Vi parlo prima di tutto di me. Un anno e mezzo fa ho voluto coinvolgervi nella mia esperienza di malattia, e vi sono davvero grata per la vicinanza che molti di voi mi hanno dato, scrivendomi e chiamandomi. So che vi farà piacere sapere che il cancro col quale faccio i conti da allora è in completa remissione: per parlare di “guarigione”, per questa patologia, è presto (occorre lasciar passare i fatidici cinque anni), tuttavia la mia speranza di vita si è di nuovo allungata, e approfitto di questo post per dire grazie anche ai medici che mi hanno curata: il dottor Paolo Morato, il mio medico di famiglia, che mi ha fatto fare una PET perché non capiva un mio dolore “intercostale” (salvandomi così la vita); il dottor Alessandro Comandone, il mio oncologo, per la sua grande competenza e umanità; il dottor Rovea, che ha scartabellato per trovare la mia cartella clinica di vent’anni fa, e mi ha inviata a Milano; il dottor Beltramo, a Milano, con la sua straordinaria terapia, ancora poco conosciuta, il Cyberknife. Grazie anche all’équipe del Day Hospital del Gradenigo, a Torino, dove mi sono sentita a casa.

E veniamo al blog: ho scritto poco, in questo periodo, perché mi sono occupata di me e dell’associazione che ho fondato. Infine Onlus rappresenta infatti, per i contenuti che avete spesso letto in questo blog, il passaggio all’azione. Si occupa di aiuto alle persone in lutto e di cultura del morire e del post mortem, e affronta in molti modi anche il tema della vecchiaia e delle malattie spesso connesse con l’invecchiare, da quelle croniche alle diverse forme di demenza. Cerchiamo di aiutare gli altri (e noi stessi) a vivere meglio tutti i nodi difficili dell’esistenza, attraverso la consapevolezza, la solidarietà, il sostegno: valori che ad Infine Onlus cerchiamo di praticare, sebbene non sia facile nella nostra complessa ed egocentrica civiltà. Infine Onlus è un’associazione, quindi un’impresa collettiva, con tutto ciò che di bello e di difficile questo progetto porta con sé.

E’ giusto, quindi, che il blog Si può dire morte non sia solo a immagine del mio pensiero, ma che rispecchi maggiormente i diversi contributi che molti giovani studiosi e professionisti stanno offrendo all’associazione. Pur con il mio coordinamento, credo che Si può dire morte sarà più ricco di spunti e riflessioni, con post più regolari, se diverse persone collaboreranno ad alimentare il dibattito.

Sporadicamente, ci sono già stati nel mio blog altri interventi: ma ora questa pluralità di voci si farà sentire maggiormente. E in primo luogo mi sta a cuore presentarvi subito un giovane tanatologo, filosofo come me, che mi aiuterà nel compito di proporre temi e animare questo luogo di condivisione virtuale: Davide Sisto.

Inoltre troverete su questo blog anche il tema dell’invecchiare. Non sottovalutate l’importanza della riflessione sulla vecchiaia. Come non si può dire morte, oggi non si può pronunciare la parola “vecchio”: ci avete pensato? E’ in opera la medesima negazione. Il vecchio, e ancora più la vecchia, ci ricordano la mortalità. E cerchiamo, pertanto, di non pensarci, a come invecchieremo, e a cosa possiamo fare per invecchiare con maggiore serenità.

Spero che vi interesserà provare, invece, a pensarci, a raccogliere anche questa sfida. A presto, dunque!

E INFINE…si può dire morte

Cari amici,
come sa chi mi conosce personalmente o ha letto Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, sono vent’anni che studio la controversa relazione di noi esseri umani con il proprio e l’altrui morire, con i lutti, con i riti, con la memoria dei defunti, con i luoghi dei morti; con la malattia, la medicina, le cure palliative e le scelte che si possono fare alla fine della vita; con la paura d’invecchiare, con l’estrema vecchiaia, con le demenze dei propri cari.

Tutti temi che fanno tremare anche i più coraggiosi tra noi, che fanno fare gli scongiuri ai più superficiali, ma che rappresentano pure il destino comune a tutti, anche ai tanti che preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Temi, inoltre, che restituiscono, a chi vi si addentra, un significato non solo al proprio diventare vecchi e morire, ma soprattutto alla vita di ciascuno, nella sua pienezza.

Da un paio d’anni scrivo questo blog, ma ora sento l’esigenza di agire, negli anni che mi restano, per aiutare chi soffre e per condividere con quante più persone possibile un messaggio che mi ha cambiato la vita: la consapevolezza della morte ci insegna che ogni singolo istante è unico e, se sappiamo assaporarlo, restando nel presente, ciò che ci viene restituito è il tempo, che di solito fugge impietoso. E inoltre, se sentiamo (nel corpo, non solo nella mente) il senso della fragilità, della vulnerabilità umana, possiamo essere più solidali e responsabili, e dare il giusto peso alle relazioni (in questo mondo frammentato, regno dell’autismo di massa).

Molti sono coloro che mi hanno invitata a fare qualcosa di più sull’invecchiare e il morire, temi sui quali le persone, oggi, desiderano riflettere. Mi hanno convinto facilmente, perché ci stavo pensando. Ho pensato a un’associazione, che trasformi i mei studi in aiuto a chi attraversa una difficoltà o un dolore, e in azione sociale.
Vorrei, prima di definire in modo preciso il profilo di questa associazione, avere le vostre considerazioni. E, vi prego, andate a ruota libera. Se esistesse una siffatta associazione (chiamiamola INFINE Onlus…), quali dovrebbero essere le sue priorità?
Quali i temi su cui impegnarsi a fondo, sia in ambito sociale sia sul piano della ricerca e della divulgazione?
Quali i contesti in cui agire? Quali battaglie condurre? Con quali strumenti?
Vi sono grata in anticipo per le vostre opinioni e i vostri suggerimenti, che sono certa arriveranno numerosi.
A presto in associazione!