Eredità digitale: come conservare la memoria dei nostri cari defunti? di Davide Sisto
Durante l’ottobre 2024 quotidiani e riviste scientifiche, nazionali e internazionali, hanno commentato una notizia piuttosto inquietante. Nel cuore di una notte l’americano Drew Crecente ha ricevuto sul proprio smartphone la notifica di una mail. Questa mail è stata inviata da Google Alert, la funzione di Google che il padre ha attivato per essere avvisato ogni volta che sua figlia Jennifer Ann viene nominata online. La ragazza, infatti, diciotto anni prima era stata vittima di femminicidio e il padre ha fondato un’associazione in suo ricordo. Google Alert rende ora noto al padre che la ragazza ha creato un profilo personale su Character AI ed è attiva (!). All’interno di questo sito, l’uomo vede la foto della figlia e una sua breve descrizione: «Jennifer Crecente è un personaggio esperto e amichevole creato con l’AI, che può fornire informazioni su un’ampia gamma di argomenti, tra cui videogiochi, tecnologia e cultura pop». Poco dopo viene aggiunto: «è anche un’esperta di giornalismo e può offrire consigli sulla scrittura e sull’editing». In altre parole, Character AI, startup americana che permette agli utenti di intrattenere relazioni con personaggi di fantasia creati a computer e in grado di conversare in virtù dell’intelligenza artificiale, ha indebitamente utilizzato l’identità di Jennifer Ann per costruire un essere fittizio al servizio delle persone in carne e ossa. Non è stato per niente semplice da parte della famiglia far cancellare la riproduzione artificiale della donna e far ammettere da Character AI il madornale errore commesso, basato su un problematico riutilizzo di dati precedentemente condivisi da una persona defunta da quasi vent’anni.
Questa storia fantascientifica alla Black Mirror non è altro che la punta di un iceberg. Da svariati anni, infatti, chi si occupa di Digital Death sa quanto sia complicata sul piano psicologico ed emotivo, giuridico e sociale la gestione dell’eredità digitale di un morto. Ciascuno di noi condivide ogni giorno enormi quantità di dati personali sui social network, nelle caselle di posta elettronica, nelle applicazioni di messaggistica privata, nei blog e così via. Un recente studio di NordPass ha rivelato che un utente della Rete può arrivare ad avere circa 170 account digitali, ciascuno con le sue specifiche credenziali di accesso. Questa produzione mastodontica di dati è praticamente incontrollabile nella sua totalità, per cui possono capitare vicende distopiche come quella di Jennifer Ann Crecente. Mentre la legge fa fatica a stabilire regole oggettive e trasparenti in merito alla gestione e alla razionalizzazione dell’eredità digitale, ogni utente della Rete dovrebbe, innanzitutto, interrogarsi su cosa fa e su chi è nel mondo online. Dovrebbe, in primo luogo, comprendere che quando si iscrive a un social network stabilisce – di fatto – un prolungamento digitale della propria identità, per cui il suo profilo corrisponde solo a lui. In altre parole, nessun altro può stabilire come gestire i suoi profili social dopo la sua morte. Egli, pertanto, dovrebbe ragionare anticipatamente sul destino post mortem dei suoi resti digitali e, dopo un’attenta riflessione con i propri cari, andare nelle impostazioni di tutti i suoi profili social e prendere una decisione prematura sul loro destino. Ogni social media, infatti, offre delle soluzioni, più o meno ampie, di cosa fare del proprio account in caso di morte: può essere conservato così com’è, si può far chiudere previo invio di un certificato di morte, si possono scaricare i contenuti dell’account sul computer e poi lasciarli in eredità, su Facebook si può scegliere un contatto erede che gestisca i post pubblici, ecc. L’utente dovrebbe quindi, in secondo luogo, ragionare sulla complessa eredità del proprio smartphone. Ci sono stati casi sporadici, anche in Italia, in cui la legge ha stabilito che – per esempio – i genitori di un figlio deceduto o un vedovo/a possono ottenere le credenziali d’accesso dello smartphone e, dunque, ereditare quell’insieme di dati che costituisce ricordi personali preziosi. Il problema, tuttavia, sta a monte: accedere ai contenuti di uno smartphone significa anche accedere alle conversazioni private tenute dal morto. Si possono, dunque, scoprire informazioni che accrescono il trauma del lutto e il cui carattere poco chiaro non può essere spiegato da chi non c’è più. Si possono, poi, leggere informazioni delicate riguardanti altre persone. Se il proprio partner avesse avuto un amante e questa persona gli avesse inviato foto o video compromettenti, questo materiale potrebbe essere utilizzato per una vendetta. Oppure, se un amico del proprio partner gli avesse confessato, per esempio su WhatsApp, un’informazione estremamente personale e delicata, l’erede potrebbe ricattarlo. Le casistiche sono molteplici e, dunque, anche in questo caso occorrerebbe stabilire a priori, con chiarezza e magari in presenza di un notaio, come lasciare in eredità il proprio smartphone, magari proteggendo i contenuti privati con una password. E questo discorso vale per ogni account di cui si è proprietari e che può avere un valore materiale o sentimentale importante sia per chi non ci sarà più sia per i dolenti.
Man mano che le generazioni si succederanno, avremo cittadini la cui vita è completamente digitalizzata, dunque i documenti digitali svolgeranno un ruolo sempre più importante e delicato all’interno del processo di elaborazione del lutto e della conservazione della memoria. Occorre pertanto non sottovalutare l’importanza della propria vita online e fare in modo che società private, intente a trarre guadagno dai nostri dati, non si approfittino della nostra assenza. Non credo ci piaccia pensare di ritrovarci nella situazione di Jennifer Ann.
Cosa ne pensate? Avete cominciato a ragionare sulle vostre eredità digitali? Attendiamo come sempre le vostre risposte.