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Tag Archivio per: social network

Eredità digitale: come conservare la memoria dei nostri cari defunti? di Davide Sisto

17 Dicembre 2024/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante l’ottobre 2024 quotidiani e riviste scientifiche, nazionali e internazionali, hanno commentato una notizia piuttosto inquietante. Nel cuore di una notte l’americano Drew Crecente ha ricevuto sul proprio smartphone la notifica di una mail. Questa mail è stata inviata da Google Alert, la funzione di Google che il padre ha attivato per essere avvisato ogni volta che sua figlia Jennifer Ann viene nominata online. La ragazza, infatti, diciotto anni prima era stata vittima di femminicidio e il padre ha fondato un’associazione in suo ricordo. Google Alert rende ora noto al padre che la ragazza ha creato un profilo personale su Character AI ed è attiva (!). All’interno di questo sito, l’uomo vede la foto della figlia e una sua breve descrizione: «Jennifer Crecente è un personaggio esperto e amichevole creato con l’AI, che può fornire informazioni su un’ampia gamma di argomenti, tra cui videogiochi, tecnologia e cultura pop». Poco dopo viene aggiunto: «è anche un’esperta di giornalismo e può offrire consigli sulla scrittura e sull’editing». In altre parole, Character AI, startup americana che permette agli utenti di intrattenere relazioni con personaggi di fantasia creati a computer e in grado di conversare in virtù dell’intelligenza artificiale, ha indebitamente utilizzato l’identità di Jennifer Ann per costruire un essere fittizio al servizio delle persone in carne e ossa. Non è stato per niente semplice da parte della famiglia far cancellare la riproduzione artificiale della donna e far ammettere da Character AI il madornale errore commesso, basato su un problematico riutilizzo di dati precedentemente condivisi da una persona defunta da quasi vent’anni.

Questa storia fantascientifica alla Black Mirror non è altro che la punta di un iceberg. Da svariati anni, infatti, chi si occupa di Digital Death sa quanto sia complicata sul piano psicologico ed emotivo, giuridico e sociale la gestione dell’eredità digitale di un morto. Ciascuno di noi condivide ogni giorno enormi quantità di dati personali sui social network, nelle caselle di posta elettronica, nelle applicazioni di messaggistica privata, nei blog e così via. Un recente studio di NordPass ha rivelato che un utente della Rete può arrivare ad avere circa 170 account digitali, ciascuno con le sue specifiche credenziali di accesso. Questa produzione mastodontica di dati è praticamente incontrollabile nella sua totalità, per cui possono capitare vicende distopiche come quella di Jennifer Ann Crecente. Mentre la legge fa fatica a stabilire regole oggettive e trasparenti in merito alla gestione e alla razionalizzazione dell’eredità digitale, ogni utente della Rete dovrebbe, innanzitutto, interrogarsi su cosa fa e su chi è nel mondo online. Dovrebbe, in primo luogo, comprendere che quando si iscrive a un social network stabilisce – di fatto – un prolungamento digitale della propria identità, per cui il suo profilo corrisponde solo a lui. In altre parole, nessun altro può stabilire come gestire i suoi profili social dopo la sua morte. Egli, pertanto, dovrebbe ragionare anticipatamente sul destino post mortem dei suoi resti digitali e, dopo un’attenta riflessione con i propri cari, andare nelle impostazioni di tutti i suoi profili social e prendere una decisione prematura sul loro destino. Ogni social media, infatti, offre delle soluzioni, più o meno ampie, di cosa fare del proprio account in caso di morte: può essere conservato così com’è, si può far chiudere previo invio di un certificato di morte, si possono scaricare i contenuti dell’account sul computer e poi lasciarli in eredità, su Facebook si può scegliere un contatto erede che gestisca i post pubblici, ecc. L’utente dovrebbe quindi, in secondo luogo, ragionare sulla complessa eredità del proprio smartphone. Ci sono stati casi sporadici, anche in Italia, in cui la legge ha stabilito che – per esempio – i genitori di un figlio deceduto o un vedovo/a possono ottenere le credenziali d’accesso dello smartphone e, dunque, ereditare quell’insieme di dati che costituisce ricordi personali preziosi. Il problema, tuttavia, sta a monte: accedere ai contenuti di uno smartphone significa anche accedere alle conversazioni private tenute dal morto. Si possono, dunque, scoprire informazioni che accrescono il trauma del lutto e il cui carattere poco chiaro non può essere spiegato da chi non c’è più. Si possono, poi, leggere informazioni delicate riguardanti altre persone. Se il proprio partner avesse avuto un amante e questa persona gli avesse inviato foto o video compromettenti, questo materiale potrebbe essere utilizzato per una vendetta. Oppure, se un amico del proprio partner gli avesse confessato, per esempio su WhatsApp, un’informazione estremamente personale e delicata, l’erede potrebbe ricattarlo. Le casistiche sono molteplici e, dunque, anche in questo caso occorrerebbe stabilire a priori, con chiarezza e magari in presenza di un notaio, come lasciare in eredità il proprio smartphone, magari proteggendo i contenuti privati con una password. E questo discorso vale per ogni account di cui si è proprietari e che può avere un valore materiale o sentimentale importante sia per chi non ci sarà più sia per i dolenti.

Man mano che le generazioni si succederanno, avremo cittadini la cui vita è completamente digitalizzata, dunque i documenti digitali svolgeranno un ruolo sempre più importante e delicato all’interno del processo di elaborazione del lutto e della conservazione della memoria. Occorre pertanto non sottovalutare l’importanza della propria vita online e fare in modo che società private, intente a trarre guadagno dai nostri dati, non si approfittino della nostra assenza. Non credo ci piaccia pensare di ritrovarci nella situazione di Jennifer Ann.

Cosa ne pensate? Avete cominciato a ragionare sulle vostre eredità digitali? Attendiamo come sempre le vostre risposte.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/12/immagine-eredita-digitale350x265.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-12-17 08:55:382024-12-17 08:55:38Eredità digitale: come conservare la memoria dei nostri cari defunti? di Davide Sisto

Su TikTok il lutto diventa narrazione, di Davide Sisto

24 Ottobre 2024/0 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Negli ultimi anni ho parlato spesso di TikTok, nel nostro blog, in relazione ad alcuni modi di affrontare pubblicamente il lutto e la morte al suo interno (per esempio qui e qui). Al di là delle singole iniziative, ciò che è veramente interessante notare è come questo bizzarro luogo online, per lo più incline ad aderire alle esigenze delle generazioni più giovani, abbia intercettato i comportamenti social degli utenti in merito all’esposizione del lutto, cambiandone in maniera radicale le caratteristiche.

Da quando è cominciata l’epoca dei social media, quindi dai primi anni del Duemila, abbiamo assistito a una collettiva trasposizione online del dolore privato, sia esso frutto di una malattia, di un lutto o di qualche sofferenza psicologica. Da questo punto di vista risulta veramente lungimirante Michael Kibbee, il creatore del World Wide Cemetery nel 1995. Le parole con cui ha presentato trent’anni fa il progetto, tutt’ora online, anticipano con estrema previdenza ciò che sarebbe successo da lì in avanti. E, infatti, soprattutto da quando circa 3 miliardi di persone si sono iscritte a Facebook ci siamo abituati a vedere esposto il dolore privato per una perdita secondo modalità più o meno standard, le quali aderiscono alle prerogative specifiche del social media di Zuckerberg. In altre parole, è la scrittura a essere la protagonista assoluta dell’esposizione pubblica del lutto su Facebook, perlopiù mediata con qualche immagine fotografica o poche registrazioni audiovisive. Inoltre, man mano che la data di morte del proprio caro si allontana diminuiscono i riferimenti specifici alla perdita. Al massimo, le celebrazioni si rinnovano nel giorno dell’anniversario del compleanno, della data di morte o di qualche evento simbolico importante, riportato in auge dalla sezione Ricordi.

TikTok presenta aspetti radicalmente opposti a Facebook. Innanzitutto, è l’algoritmo a determinare ciò che vediamo nella timeline, secondo i gusti personali o gli hashtag digitati. I contatti che creiamo lì dentro non dipendono dalla conoscenza diretta o indiretta delle persone ma dal tipo di contenuto che desideriamo osservare (Gabriella Taddeo, nel libro Social. L’industria delle relazioni, definisce TikTok appunto come “Algorithm driven”). Inoltre, i singoli utenti tendono a trasformare i brevi video, generati utilizzando specifici filtri, contenuti musicali e altro, come tanti singoli tasselli di una narrazione che si estende temporalmente, la quale dà una connotazione specifica a ognuno di loro. In altre parole, l’attivista politico utilizza i singoli video per prolungare nel tempo le sue battaglie, permettendo ai suoi followers di identificarlo più per i temi trattati che per il suo nome e cognome, come avviene su Facebook. Ciò fa sì che svariate centinaia di migliaia di utenti trasformino il lutto patito in una storia che si prolunga nel corso dei mesi o, addirittura, degli anni. Per esempio, è canonica una situazione del genere: l’utente di TikTok ha perso il proprio partner. Allora, decide di raccontare la sofferenza che prova attraverso decine di video giornalieri in cui, in primo luogo, mostra la relazione che aveva con il proprio partner (collage di foto o brevi registrazioni audiovisive relative alla loro vita di coppia); in secondo luogo, spiega come il partner è deceduto; in terzo luogo, descrive il percorso compiuto nei giorni e nei mesi successivi alla perdita. Pertanto, vediamo magari il dolente che fa un viaggio in montagna, il primo viaggio senza la persona amata, e vi è un’alternanza tra immagini paesaggistiche e riflessioni audiovisive sull’esperienza. Oppure, siamo testimoni della ripresa del lavoro dopo il lutto, con video che mostrano le problematicità del nuovo inizio. Vi sono, poi, molteplici casi in cui vediamo dei video in cui l’utente, in lacrime, si congeda dal proprio gatto o cane, prima di portarlo dal veterinario per sopprimerlo. Questo video precede e anticipa le rappresentazioni audiovisive della vita vissuta insieme e, poi, senza il proprio animale domestico, di modo da condividere l’esperienza con gli altri followers.

I casi che si possono osservare sono i più disparati. C’è addirittura chi, utilizzando una serie di espedienti mediatici, riproduce se stesso mentre parla con il proprio caro defunto, che è presente nel video mediante la riproduzione di precedenti video che aveva realizzato nel corso della sua vita.

TikTok ha trasformato, in definitiva, l’esposizione limitata nel tempo del lutto su Facebook in una vera e propria narrazione che si protrae ad libitum. Una narrazione che, in un certo qual modo, rende il singolo follower spettatore più del percorso compiuto dal dolente che dell’impatto immediato del lutto nella sua vita. Anche le interazioni nei commenti, per quanto numerose ed empatiche, risultano secondarie rispetto allo scopo principale, che è di natura rappresentativa, comunicativa o, appunto, narrativa. Siamo nel campo dell’autofiction più che in quello della testimonianza. Ovviamente, non sono pochi coloro che interpretano questo tipo di esposizione del lutto nei termini di una spettacolarizzazione del dolore o di una sua capitalizzazione, soprattutto da parte di chi ha profili seguiti da milioni di followers. Il fenomeno, a mio avviso, è troppo recente per trarre considerazioni oggettive e chiare. Mi sembra, tuttavia, evidente il desiderio di mostrare pubblicamente il percorso più che il mero fatto. Ciò, ovviamente, amplia in modo notevole il carattere sempre più pubblico del lutto. Rende, soprattutto, le generazioni più giovani avvezze a una condivisione narrativa che sgretola, quasi del tutto, il carattere privato della perdita. Ogniqualvolta ne parlo con gli studenti, liceali e universitari, emerge da parte loro una consapevolezza della rappresentazione audiovisiva condivisa decisamente differente rispetto al bisogno di tenere per sé le proprie emozioni ed esperienze. Come sapete, non amo dare giudizi netti su questi fenomeni, ma osservarli.

Mi limito soltanto a cogliere l’accelerazione di un processo: dai due, tre post su Facebook, per ricordare il proprio caro defunto, alla narrazione esposta man mano per giorni, mesi, addirittura anni su TikTok. Sarà curioso capire quale sarà l’impatto di questa metamorfosi sui futuri adulti e anziani, all’interno di una società sempre più tecnologizzata e abituata a una morte social.

Voi cosa ne pensate? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/10/lutto-Tik-Tok-copia.png 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-10-24 09:29:202024-10-24 09:29:20Su TikTok il lutto diventa narrazione, di Davide Sisto

Come si parla di suicidio sui social network? di Davide Sisto

25 Settembre 2024/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi due o tre anni spopola su Tik Tok la parola “unalive”, non vivo, usata prevalentemente dagli utenti del famoso social network cinese per parlare di suicidio. Hashtag come #unalivemeplease, #unaliving, #unaliveawareness e #selfunalive contano milioni di visualizzazioni e di like, nonché centinaia di commenti. Dietro questi hashtag si nasconde un po’ di tutto: persone che raccontano il loro tentato suicidio o che non nascondono il desiderio di uccidersi, persone che invece cercano di fare prevenzione rimandando – per esempio – a video di psicologi o affrontando il tema della depressione, ma anche utenti che condividono situazioni del tutto allegre e fuori contesto, per cui fanno un uso di questi hashtag in termini scanzonati e non realistici. La ragione per cui viene utilizzata la parola “unalive” per parlare di suicidio è unicamente pratica: non farsi censurare dagli algoritmi delle piattaforme. Il termine “suicidio”, infatti, rientra in quella sorta di blacklist alla base della cancellazione automatica di contenuti. Questo, soprattutto, per evitare la condivisione pubblica di video in cui si vedono individui che si tolgono la vita, come qualche volta purtroppo succede. Il tema dell’uso della parola unalive è oggi particolarmente dibattuto nella dimensione online, tanto che sono in aumento le discussioni su Reddit relative ai suoi effetti positivi e negativi sulle comunità digitali.

Proprio da queste discussioni interne a Reddit, la versione contemporanea dei forum di un tempo, emerge un aspetto su cui occorre riflettere. Non sono poche, cioè, le persone che ritengono inopportuno, indelicato o addirittura diseducativo non usare in maniera esplicita la parola “suicidio”. Innanzitutto, alcuni ritengono che aver reso di tendenza un termine che allude in modo generico a un aspetto così delicato della nostra società rischia di creare confusione, soprattutto tra i ragazzi adolescenti, i principali fruitori di TikTok. In secondo luogo, altri sostengono che porre in relazione il suicidio alla censura non faccia altro che aumentare il tabù che di per sé già lo caratterizza. Se insegniamo ai più giovani che la parola “suicidio” non si può dire, non facciamo altro che incrementare i pregiudizi che vi sono di per sé associati. Questo tema, ovviamente, è riconducibile agli effetti Werther e Papageno di cui abbiamo già parlato sul blog.

Al di là di questo, se proviamo a osservare con più attenzione i contenuti che si celano dietro gli hashtag su TikTok, cogliamo il tentativo generale di parlare di suicidio evitando il più possibile luoghi comuni o stereotipi. In particolare, dai racconti di coloro che dicono di aver pensato di togliersi la vita o di aver tentato di farlo, senza riuscirci, emerge il desiderio di non cercare facili nessi di causa-effetto, ritenuti perlopiù consolatori. In altre parole, i giovani utenti di TikTok sottolineano la complessità a fondamento di una scelta così estrema, una complessità che tiene insieme il vissuto personale e le dinamiche sociali, culturali, politiche ed economiche all’interno di cui il singolo è oggi collocato. Soprattutto, si vuole evidenziare quanto vada fuori strada la colpevolizzazione di un soggetto mediatico: i videogiochi, la musica, il cinema, ancor di più i social media, diventati il capro espiatorio quando non riusciamo a razionalizzare una scelta. Certamente, le sfide rivolte agli adolescenti o, addirittura, ai bambini sono pericolose e possono influenzare negativamente il singolo dal punto di vista psicologico ed emotivo. Ma i singoli racconti mostrano come i rischi che si incontrano online, al massimo, portano alle estreme conseguenze una situazione personale di per sé già estremamente compromessa. A questi video girati dagli adolescenti si aggiungono, su TikTok, quelli di psicologi o psichiatri che utilizzano la piattaforma cinese per affrontare il tema e, dunque, cercare un ulteriore canale comunicativo con i giovani.

Personalmente, apprezzo lo sforzo che si tenta di fare in presenza di un argomento come il suicidio, considerato il tabù dei tabù. Io faccio parte di coloro che, nel ritenere fondamentali le attività di prevenzione, non riescono a considerare il suicidio come una scelta indotta da un colpevole facilmente individuabile. Detto in altri termini: che ci piaccia o no ammetterlo, a volte è solo fortuna il non aver mai avuto pensieri suicidari o, durante momenti piuttosto difficili della propria vita, averli avuti senza attuarli. Le mille ragioni che, unite insieme, possono determinare la scelta estrema non rappresentano necessariamente un fallimento di chi non è riuscito a impedire di attuarla. Ho avuto, purtroppo, nel corso degli anni due amici e un’amica che si sono tolti la vita in circostanze molto diverse tra loro, il cui filo conduttore non è la colpa di chi non ha capito, di chi non è intervenuto, ecc. Certo, come società e comunità dovremmo impegnarci alacremente affinché nessuno si senta talmente perso, nel vasto oceano della vita, da ritenere un’opportunità positiva farla finita anzitempo. Tuttavia, è innegabile il fatto che ciascuno di noi si muove a tentoni, tra mille difficoltà e mille imprevisti, e di conseguenza fa ciò che riesce e può non aver più voglia di riuscirci. Non sto giustificando, ovviamente, questo tipo di dolorosissima scelta, soprattutto per chi resta in vita, ma mi pare utile non dimenticare quanto certe azioni trascendano ogni tentativo di spiegazione oggettiva.

E mi pare che su TikTok ci si muova in questa direzione, la quale apre altri orizzonti mediatici: spesso, vengono prodotti link che rimandano a medici che possono offrire un sostegno o, addirittura, ad app gestite dall’intelligenza artificiale, la quale mira – tramite dialoghi costruiti ad hoc – a creare un terreno di conversazione che non faccia sentire sole le persone. Nel mondo odierno, capita anche questo (negli States l’app di questo tipo più famosa è Wysa).

Cosa ne pensate del modo in cui si parla di suicidio online? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/09/immagine-1.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-09-25 09:38:502024-09-25 09:38:50Come si parla di suicidio sui social network? di Davide Sisto

Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

27 Gennaio 2023/2 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nel corso degli ultimi anni, su questo blog, ho spesso raccontato e descritto le più svariate conseguenze generate dall’uso delle tecnologie digitali sulla comprensione umana del ruolo della morte nella vita, nonché nell’ambito dell’elaborazione del lutto e sul modo di conservare la memoria e di desiderare, eventualmente, l’immortalità.

Il progresso tecnologico avanza con una velocità tale da rendere sempre più pervasivo l’utilizzo intergenerazionale delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa era normale servirsi dell’espressione “nativo digitale” per stabilire un implicito confine tra generazioni. Oggi, invece, siamo uniformemente concordi nel credere che il futuro prossimo sarà contraddistinto da cittadini di ogni età abituati a considerare le tecnologie digitali come strumenti irrinunciabili per lo svolgimento della vita quotidiana, quasi come vere e proprie protesi di sé. A prescindere dal fatto che questo ci piaccia oppure no. La consapevolezza della continua espansione della dimensione online e del carattere imprescindibile degli smartphone e dei computer mi fa pensare quanto segue: è giunto il momento di introdurre – in maniera ufficiale e non procrastinabile – la cosiddetta “tanatologia digitale” nei percorsi formativi ed educativi dei medici, degli operatori sanitari, degli psicologi, dei palliativisti e degli educatori in senso lato. In altre parole, occorre prendere coscienza che la relazione tra le tecnologie digitali e il fine vita non è più di natura rapsodica, magari limitata a specifici target di età o a particolari gruppi di cittadini particolarmente avvezzi alle tecnologie. È, semmai, una relazione che riguarda l’intera cittadinanza e che produce continuamente sia nuove opportunità sia, soprattutto, inedite criticità. La conoscenza attenta di entrambe diventa, pertanto, fondamentale per non aumentare le difficoltà e le sofferenze che già viviamo di per sé durante l’ultima fase della vita personale o di quella dei propri cari.

Quali sono, nel dettaglio, gli aspetti che rendono necessaria una sorta di “tanatologia digitale” nei percorsi di formazione? In primo luogo, l’aspetto comunicativo. È già ricorrente di per sé il problema della comunicazione faccia a faccia tra il medico, il paziente e i familiari del paziente in presenza di una malattia mortale o, in alternativa, radicalmente invalidante. Un problema che è particolarmente sentito a partire dal processo di rimozione sociale e culturale della morte e dalla riduzione della malattia a un tabù. Lo sviluppo della telemedicina, accelerato dalla pandemia da Covid-19, sta generando nuove forme di comunicazione che avvengono perlopiù in maniera scritta, tramite applicazioni di messagistica privata come WhatsApp o via mail, a cui si aggiungono le ricerche individuali attuate su Google. È, di conseguenza, fondamentale comprendere le differenze comunicative in presenza e a distanza, tramite parole espresse a voce o per iscritto, di modo da non incrementare le incomprensioni, le ansie, i dolori e le sofferenze delle persone. I registri linguistici e simbolici sono differenti, di conseguenza lo sono altrettanto i problemi che derivano dal loro uso. L’aspetto comunicativo include, poi, la gestione dei social media durante una malattia mortale: ogni singolo individuo ha un rapporto differente con i social, dunque risulta doveroso intercettare le sue modalità comunicative affinché i social diventino uno strumento di sostegno e non un problema in più. Tra l’altro, i singoli social si differenziano gli uni dagli altri, pertanto bisogna districarsi tra le peculiarità di Facebook, Instagram, YouTube, Tik Tok e via dicendo. E, ancora, come fare con l’eredità digitale? Cancellare preventivamente i propri profili? Mantenerli in vita? Darli in gestione a persone fidate? La risposta a queste domande chiama in causa, in secondo luogo, il lutto e la sua elaborazione. Oramai, ognuno di noi conserva una quantità incalcolabile di tracce delle persone amate, come mai successo in passato: parole scritte, messaggi vocali, fotografie, registrazioni audiovisive. Queste tracce tendono sempre più a rappresentare un prolungamento digitale dell’identità individuale (ormai, è diffusa tra gli studiosi l’espressione di “carne digitale” per descrivere questo prolungamento sul piano emotivo). Pertanto, è in costante aumento il numero dei dolenti che faticano a intraprendere un sano percorso di elaborazione del lutto, circondati da così tanti documenti i quali sembrano mantenere vivi i propri cari defunti. Sono sempre più numerosi coloro che proiettano sul proprio smartphone o su quello del caro defunto la possibilità di un contatto attivo, trascendendo in maniera patologica il mero ricordo o creando ibridazioni inedite tra le ritualità religiose assodate e quelle prodotte dalle tecnologie.

Questi sono solo alcuni dei tanti temi che occorre tenere a mente, man mano che mutano le caratteristiche delle società all’interno di cui nasciamo, cresciamo e moriamo. Mi pare miope e inconcludente escludere l’importanza della relazione tra tecnologie digitali e fine vita, a causa di pregiudizi individuali o di sospetti nei confronti di un’epoca storica particolarmente incentrata sulla tecnica e sulla tecnologia. Ancor di più, considerando che ci stiamo muovendo nella direzione del Metaverso e della realtà virtuale.

Cosa ne pensate? Ritenete sensate queste preoccupazioni? Attendiamo con interesse i vostri commenti, dubbi e riflessioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/01/Metaverso-LinkPA-copia.jpg 265 300 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-01-27 10:07:272023-01-27 10:07:28Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

#grieftok: il dolore di un lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

17 Ottobre 2022/0 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Le irrefrenabili evoluzioni delle tecnologie digitali, quindi dei comportamenti sociali e culturali che ne seguono, ampliano costantemente i modi in cui le persone usano i social media per condividere le proprie esperienze relative al lutto e al ricordo.
Nel corso degli ultimi anni, le persone più giovani, dagli adolescenti ai ventenni, hanno cominciato a popolare in maniera sempre più massiccia Tik Tok, diventato un tale punto di riferimento per il discorso pubblico da spingere – incautamente – i politici italiani a usarlo nell’ultima campagna elettorale.
Ovviamente, anche la morte e il lutto sono diventati argomenti importanti su Tik Tok. Nell’ultimo periodo ha attirato la mia attenzione un particolare hashtag: #grieftok. Con oltre 340 milioni di visualizzazioni, questo hashtag comprende centinaia di migliaia di brevi video, registrati in ogni zona del mondo, mediante cui le persone comuni esprimono ciò che stanno provando o che hanno provato in presenza di un grave lutto. Il mix di immagini fotografiche, video, suoni e frasi scritte, concise e usando i caratteri più disparati, stimola la creatività e la fantasia dei singoli, i quali condividono il dolore per un lutto con modalità spesso complesse. C’è chi si limita a creare un collage di immagini di sé che seguono le varie fasi del lutto: un viso sorridente prima della morte del proprio caro, un viso disperato una volta che è avvenuto il decesso, un viso depresso e colmo di lacrime – magari appoggiato sul cuscino del proprio letto – nella delicata fase successiva, un viso vagamente sereno una volta che è avvenuta l’elaborazione del lutto. Le diverse immagini sono accompagnate da didascalie che riassumono brevemente i vari stadi attraverso cui è passato il dolore della persona. C’è chi costruisce una narrazione più corposa, incentrata sul morto. Il breve video mostra – per esempio – un giovane padre, che corre insieme al figlio e al cane su un prato. Quindi, l’immagine della sua tomba e successivamente quella del bambino e del cane rappresentati prima da soli sul prato e poi insieme alla madre, regista del video. C’è chi quindi si limita a raccontare, senza troppi fronzoli, quello che sta provando; chi celebra un compagno di classe con un collage di immagini e video registrati a scuola; chi, ancora, utilizza Tik Tok per parlare del proprio bambino deceduto. Ci sono anche numerosi video di psicologi che spiegano le fasi del lutto e offrono consigli su come affrontarlo. Va da sé che ogni video viene commentato da centinaia o addirittura da migliaia di utenti, i quali portano le proprie condoglianze o condividono esperienze simili.

L’hashtag #grieftok ha, in altre parole, prodotto una vera e propria comunità globale attorno all’esperienza del lutto e della morte. Vi sono anche altri hashtag utilizzati per la stessa finalità: dai semplici #grief e #rip al più articolato #griefjourney.

Credo che si possa cogliere un’evoluzione interessante del lutto online nel passaggio da Facebook a Tik Tok. Le caratteristiche stilistiche di quest’ultimo non solo vengono incontro all’esigenza, già esplicitata su Facebook, di parlare pubblicamente di morte e di lutto e di fare gruppo per sopperire al senso di solitudine, provato di solito dal dolente nella dimensione offline. Stimolando anche la creatività e la fantasia dei suoi utenti, queste caratteristiche spingono a compiere un passo in più che, a mio avviso, va nella direzione di un uso pedagogico e formativo del social media. In altre parole, Tik Tok mette il singolo dolente nella condizione di dare un senso al proprio dolore attraverso una sceneggiatura di cui è liberamente regista e che trascende l’uso della semplice parola scritta, predominante su Facebook. Non tutti sono abili scrittori né si sentono a proprio agio con la grammatica. Il collage di immagini, suoni, video e parole, all’interno di video assai concisi, mostra invece in modo tanto concreto quanto artistico la metamorfosi personale che ci investe quando subiamo una perdita. In alternativa, ci fa vedere gli effetti immediati nel quotidiano dell’assenza, dunque si spinge nella direzione della conservazione della memoria e dei ricordi. L’impatto visivo è certamente superiore rispetto ai meri contenuti scritti. Può determinare più riflessioni composite e catartiche, può attutite il proprio disorientamento in virtù di storie colme di simboli e metafore. Soprattutto, abitua le nuove generazioni a una certezza a cui le precedenti hanno fatto fatica ad abituarsi: la morte fa parte della vita, non va rimossa, può diventare un argomento prezioso all’interno di luoghi in cui si cerca l’approvazione altrui. Può, in definitiva, creare le condizioni implicite per far sì che gli adulti del futuro superino quella rimozione che ha segnato il secolo scorso.
Nel mentre, #grieftok può diventare un fenomeno a partire dal quale organizzare nuovi percorsi educativi nelle scuole e implementare i percorsi di supporto nell’elaborazione del lutto. Come spesso osservo, la dimensione online – che ci piaccia o no – è diventata parte integrante della nostra vita quotidiana. Usiamola pertanto per finalità che migliorano il modo umano di condividere lo spazio pubblico, soprattutto in riferimento a ciò che ci fa soffrire e che cerchiamo di nascondere o di eludere.
Voi cosa ne pensate? Avete presente cosa è #grieftok? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/10/hero-image.fill_.size_1200x1200.v1638959860-e1665066621544.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-10-17 10:18:352022-10-17 10:18:36#grieftok: il dolore di un lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

I rischi dell’eredità digitale, di Davide Sisto

5 Settembre 2022/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Una recente sentenza del Tribunale di Milano ha autorizzato una donna a disporre delle credenziali d’accesso per l’account di posta elettronica, dell’iCloud e dei profili social dell’ex coniuge defunto. La donna aveva fatto richiesta di queste credenziali a Apple, Microsoft e Meta, sostenendo che era suo diritto ottenere immagini e video del marito con i figli, nonché eventuali lettere d’addio o disposizioni rimaste incomplete negli spazi digitali occupati dal coniuge, morto all’improvviso a causa di una malattia degenerata in poco tempo. Come riporta Rai News, i dati personali includono, per legge, “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile”, la quale viene definita come “soggetto interessato”. Quando questa persona muore, tuttavia, viene meno la sua qualità di interessata e il passaggio dei suoi diritti agli eredi implica molto spesso, secondo il regolamento europeo sul trattamento dei dati personali, una loro valutazione preventiva. In tal modo, si cerca di capire se vi siano interessi meritevoli di tutela. L’articolo menzionato evidenzia correttamente che è riconosciuta la legittimità dell’accesso ai dati sanitari della persona deceduta, nei casi in cui occorre capire le modalità con cui ha avuto luogo la morte, ai dati INPS, ai dati bancari, eccetera, sempre tenendo conto di specifiche esigenze. La cosa più interessante della notizia sulla sentenza del Tribunale di Milano è la dichiarazione del legale della donna, Marco Meliti, il quale sottolinea la problematicità del buco normativo inerente alle eredità post mortem dei dati digitali e, al tempo stesso, ritiene legittimo che essi vengano ereditati, in quanto simili alle lettere e alle fotografie custodite nei cassetti delle scrivanie.

Purtroppo, il tema delle eredità digitali è ben più complesso di così e implica riflessioni specifiche che riguardano il nostro modo di vivere nel mondo attuale, in cui la differenza tra online e offline è sempre più labile. Proviamo a ragionare insieme. Morta all’improvviso una persona, i parenti più stretti hanno generalmente modo di accedere alla sua abitazione, aprendo la porta con uno specifico mazzo di chiavi. Una volta varcato l’ingresso, si ritrovano nella condizione di gestire un quantitativo considerevole di beni materiali dal valore eterogeneo: paccottiglia, talvolta, ma anche lettere e fotografie analogiche, in copia unica, che possono includere informazioni sensibili relative non solo al morto ma pure a terze persone. Oggi, un semplice smartphone racchiude, in un formato digitale, buona parte del materiale personale contenuto nella propria abitazione privata. Tuttavia, non si limita a essere una specie di archivio dei documenti personali. Risulta anche essere l’insieme concreto dei prolungamenti dell’identità soggettiva. Tramite i dati prodotti e conservati nel mobile device, ciascuno di noi crea i profili social, gli account di posta elettronica e di messaggistica privata, svariati avatar per gli usi più disparati. Questi costituiscono sia singolarmente, sia nel loro insieme, i nostri gemelli digitali, i quali possono svolgere attività che incidono in maniera concreta sulla nostra vita quotidiana e su quella delle persone con cui ci relazioniamo (pensiamo al periodo del lockdown a causa del Covid-19, quando abbiamo svolto attività scolastiche, lavorative, sociali, pur non uscendo di casa). In definitiva, tali gemelli digitali compongono la versione digitale della nostra presenza in carne e ossa. Capite dove sbaglia il legale della donna? Accedere ai dati digitali di una persona morta non assomiglia in alcun modo alla semplice appropriazione di lettere e fotografie conservate in copia unica e in formato cartaceo all’interno di un cassetto. La vedova si ritrova a gestire un duplice potere. Disponendo di tutti gli account social, della posta elettronica, della messaggistica privata, di tutti i contenuti sincronizzati di Google, eccetera, è innanzitutto in grado di ricostruire la vita del defunto in modo tale da utilizzarla arbitrariamente per finalità di ogni tipo, comprese quelle illecite. Si appropria cioè in modo quasi completo dell’identità di un’altra persona. In secondo luogo, l’accesso arbitrario a questi dati implica contemporaneamente l’accesso a dati delicati di altre ignare persone. Mettiamo il caso che il coniuge deceduto avesse un’amante, la quale gli inviava – su WhatsApp, per esempio – foto intime. La vedova potrebbe, per vendetta, ricattare l’amante disponendo arbitrariamente di materiale personale che era considerato intimo e che non si voleva diffondere. Facciamo un altro esempio: un amico del caro estinto confessa, all’interno della messaggistica privata, una serie di vicende molto personali, fidandosi ciecamente del suo interlocutore. Anche in questo caso l’erede malintenzionato può fare uso di informazioni private molto delicate per ricattare la persona coinvolta mettendo a frutto la natura virale del web. E si potrebbe andare avanti a indicare molti altri casi del genere.

In definitiva, la sentenza del tribunale di Milano pare confondere, in maniera decisamente problematica, il concetto di bene materiale con quello di identità personale in riferimento alla dimensione online. Questa confusione dovrebbe generare in ciascuno di noi la seguente consapevolezza: stabilire preventivamente quali documenti digitali lasciare in eredità e quali invece proteggere pretendendo la tutela della privacy. Quindi, pratichiamo un po’ di sana death cleaning, anche in assenza di tangibili rischi di morte. Produciamo, infatti, una quantità bulimica di dati. Facciamo una selezione preventiva, decidendo in anticipo cosa spetta all’oblio sacrosanto e cosa invece spetta a chi ci ha amato. Al tempo stesso, sarebbe opportuna un’educazione al rapporto tra il digitale e l’eredità personale, tale da evitare situazioni delicate e compromettenti, figlie della semplice ignoranza delle caratteristiche del mezzo.

Avete già avuto esperienze nel campo dell’eredità digitale? Come vi siete comportati? Attendiamo i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/09/iOS-15-eredit-digitale-e1662383393336.webp 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-09-05 15:10:502022-09-05 15:10:51I rischi dell’eredità digitale, di Davide Sisto

“NOI denunceremo”: Facebook come supporto emotivo e archivio storico, di Davide Sisto

20 Aprile 2020/8 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Negli ultimi giorni, su Facebook, l’attenzione generale degli utenti si è concentrata sul gruppo pubblico denominato “NOI denunceremo”. Leggendo le informazioni relative al gruppo, si comprende che la sua nascita è finalizzata a dare visibilità a tutte quelle persone che sono morte in Lombardia, a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. L’obiettivo ultimo è offrire uno spazio pubblico alle storie dei singoli malati, di modo che i loro parenti possano palesare le proprie emozioni e i propri pensieri, anche tenendo conto del fatto di non aver potuto celebrare il rito funebre a causa dell’emergenza. Gli iscritti superano attualmente le trentaduemila unità e ogni giorno sono decine le narrazioni delle vicende personali che si sommano l’una all’altra. In queste narrazioni vengono raccontate nei minimi dettagli tanto l’evoluzione della malattia, dai primi innocui sintomi fino alla morte del malato, quanto le modalità – spesso ritenute inopportune – adottate dagli operatori sanitari durante le varie tappe del contagio. Chi ha il coraggio di addentrarsi all’interno di questo gruppo si ritrova completamente immerso nelle tragedie biografiche di persone appartenenti, perlopiù, alla terza età. Ogni storia è arricchita non solo da una o più immagini dei morti, ma anche dai loro tag, di modo che il lettore possa entrare nel loro profilo Facebook, oltre che interagire nei commenti sotto i post pubblicati. Addirittura, ci sono alcuni utenti che hanno condiviso nel gruppo le registrazioni delle video-chiamate d’addio, l’unica forma di comunicazione consentita tra i malati – isolati e intubati nei reparti di terapia intensiva – e i propri parenti.

L’intenzione degli amministratori è, infine, quella di creare un’associazione vera e propria, gettando un ponte tra la dimensione online e quella offline. Il gruppo “NOI denunceremo”, a prescindere dalla sua principale finalità, sembra a primo acchito la versione italiana del noto sito MyDeathSpace. Via di mezzo tra un cimitero virtuale e un’enciclopedia dei morti, MyDeathSpace raccoglie e archivia da diversi anni le vicende che hanno determinato la morte delle persone comuni, associando a ciascuna di loro una fotografia e il collegamento ipertestuale ai profili social utilizzati. In tal modo, chi entra nel sito viene poi stimolato a osservare con attenzione la vita trascorsa online dai defunti.

Tuttavia, a differenza di MyDeathSpace, il gruppo lombardo si concentra esclusivamente sulle vicende relative al Coronavirus. Rappresenta, pertanto, un prezioso punto di ritrovo virtuale per chi ha vissuto o sta vivendo lo stesso tipo di dolore e di lutto. Lo dimostrano il numero sostanzioso di like che ogni racconto riceve e i tantissimi commenti che seguono. Questi, in particolare, palesano – con enorme trasporto emotivo – la partecipazione collettiva al dolore individuale e a volte approfondiscono le vicende narrate, inserendo particolari tecnici relativi ai ricoveri e al contesto in cui si è sviluppata la malattia. Ci sono, poi, utenti di Facebook che, non vivendo in Lombardia, decidono comunque di comunicare la propria solidarietà per sottolineare, simbolicamente, il fatto che tutta l’Italia si sente coinvolta dal dramma vissuto in quella specifica regione del Nord. Chi si limita invece a leggere, senza intervenire, ha modo di constatare in prima persona le motivazioni dell’emergenza sanitaria, mettendo così in discussione i propri eventuali pregiudizi o ridimensionando l’errato distacco da una epidemia che sente lontana da sé (solo perché vive, per esempio, a centinaia di km di distanza dalle zone più colpite).

Ora, se nel presente “Noi denunceremo” risulta essere un escamotage digitale per aggirare le regole del distanziamento sociale, generando uno strettissimo e partecipato abbraccio collettivo, nel futuro – quindi, una volta che l’attuale incubo sarà superato una volta per tutte – diventerà un utile archivio digitale delle memorie di una comunità letteralmente devastata dal Covid-19. Gli strazianti racconti dei sopravvissuti, plasmati dai post scritti e dalle immagini audiovisive, e i documenti degli ultimi istanti di vita dei contagiati, rappresentati dalle registrazioni delle video-chiamate d’addio, costituiranno – volenti o nolenti – la testimonianza più autentica degli eventi di un periodo storico temporalmente circoscritto. Al punto che molti utenti di Facebook ritengono necessario archiviare in più modalità possibili questo materiale, di modo che non vada perduto nell’eventualità di una rimozione forzata del gruppo o, più in là nel tempo, della chiusura della creatura di Zuckerberg.

Al di là di qualsivoglia considerazione, un gruppo come “Noi denunceremo” porta alla luce le tante opportunità offerte dai social network in epoche complesse come quella che stiamo vivendo. Innanzitutto, l’opportunità data ai diretti interessati di raccontare, di sfogarsi e dunque di denunciare, trovando un benefico supporto collettivo, latente nella dimensione offline. In secondo luogo, l’opportunità data a chi non è coinvolto direttamente di prendere coscienza dell’entità della tragedia in corso, sviluppando così – almeno, si spera – una maggiore responsabilità individuale e una più marcata solidarietà collettiva. Infine, l’opportunità offerta agli storici di disporre di un sostanzioso insieme di documenti, a partire dal quale ricostruire con lucidità e oggettività i fatti di questo terribile 2020.

Quali sono le vostre opinioni in merito? Pensate anche voi che i social network oggi possano svolgere un ruolo importante per affrontare il Covid-19? Attendiamo le vostre testimonianze.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/04/pagina-e-gruppo-facebook-1280x720-e1587328200367.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-04-20 14:34:422020-04-20 15:25:17“NOI denunceremo”: Facebook come supporto emotivo e archivio storico, di Davide Sisto

“Dovevi fare scudo al gufo con la tua macchina!”: i commenti sui profili social dei morti di Davide Sisto

25 Novembre 2019/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Da diversi anni osservo con attenzione, da studioso della Digital Death, i comportamenti degli utenti di Facebook all’interno dei profili di persone a loro sconosciute, il cui nome e cognome è però menzionato sui quotidiani a causa di una sopraggiunta morte violenta. Tra le tante novità apportate dall’utilizzo quotidiano dei social network vi è, infatti, quella di poter entrare nella “casa virtuale” di tutti coloro che, per un motivo o per un altro, finiscono sotto i riflettori dei mass media. Nei casi di una morte violenta, conseguenza di un efferato fatto di cronaca nera, si materializza solitamente sugli schermi dei nostri computer e smartphone la famosa scena finale del film “Bianco, rosso e verdone” di Carlo Verdone: morta la nonna di Mimmo all’interno di una cabina elettorale, le persone presenti in loco, invece di rispettarne la morte, litigano rumorosamente tra loro a proposito della validità del voto che la donna ha espresso prima del suo ultimo respiro. Mentre Mimmo piange e chiede silenzio.

Su Facebook succede più o meno lo stesso. Un esempio per tutti. A metà gennaio 2019 i quotidiani nazionali riportano la notizia della morte di una donna ventenne, travolta da un’automobile mentre tentava di aiutare un gufo in difficoltà. Il suo profilo Facebook è stato immediatamente invaso: a) da coloro che hanno sentito il bisogno di esprimere il proprio dolore, scrivendo il classico “R.I.P.” sotto una fotografia della defunta; b) dagli animalisti che hanno attribuito alla donna un ruolo eroico: ha sacrificato la sua vita per aiutare un animale in difficoltà; c) da coloro che hanno offeso la donna, che ha sacrificato la sua vita per un futile motivo, aiutare un animale in difficoltà. Ne è derivato un duraturo scambio di insulti tra la categoria b) e la categoria c), il quale ha implicato poi l’intervento – con un’altra serie di insulti – di coloro che hanno reputato incivile litigare sul profilo di una donna morta. La cosa deprimente è che nessuno di questi aveva conosciuto la vittima, e nessuno ha pensato al dolore provato dai genitori, dal fidanzato e dagli amici.

Questo è un comportamento che si reitera ogniqualvolta ha luogo un fatto di cronaca nera. C’è chi scrive, sempre sul profilo del morto, che ora è “un angelo in Paradiso” e c’è, ovviamente, chi risponde stizzito: “che ne sai se esiste veramente il Paradiso?” C’è chi, nel caso di un omicidio, elucubra pubblicamente – in uno spazio virtuale non suo – sulle modalità con cui il carnefice ha ucciso la vittima. Ci sono quelli che litigano sul presunto comportamento incauto del morto, se la fine della sua vita è legata – per esempio – a un incidente stradale. Centinaia sono state, a questo proposito, le condivisioni del video che due ragazzi italiani hanno realizzato in automobile, prima di morire in un incidente dovuto all’eccessiva velocità. Condivisioni accompagnate da sfottò, rimproveri o insulti.

Come ho detto all’inizio, queste abitudini non sono certo prerogativa esclusiva dei social network. Nella dimensione offline succede più o meno lo stesso. La differenza fondamentale è, però, la seguente: su Facebook tutte le parole e le opinioni personali vengono registrate a tempo indeterminato all’interno di uno spazio privato, anche nel caso in cui l’utente abbia scelto la privacy pubblica per le proprie condivisioni. E quelle registrazioni sortiscono un effetto deleterio su chi sta soffrendo la perdita improvvisa di una persona amata. Violano con superficialità la privacy del dolente, che si ritrova a dover sopportare l’offesa e il giudizio che persone sconosciute manifestano in maniera arbitraria nei confronti della vittima.

Occorrerebbe, pertanto, limitare il proprio perverso desiderio di partecipazione a un evento che non ci riguarda in prima persona, ricordando che la dimensione online e quella offline non sono separate. Soprattutto, sarebbe necessario porre a se stessi la domanda seguente: come mi sentirei se decine o centinaia di sconosciuti entrassero nel profilo social di mio figlio, morto all’improvviso, per esprimere giudizi a caso mentre io sto piangendo la sua inaspettata perdita? In altre parole, la convivenza all’interno dei social network implica una presa di coscienza sui comportamenti da adottare e da evitare in circostanze come quelle descritte. A mio modo di vedere, se proprio si sente la necessità insopprimibile di partecipare a un evento luttuoso, occorre limitarsi a esprimere le proprie condoglianze, evitando commenti e discussioni con altri utenti in merito a quanto è accaduto.

Ciò che più conta è non aggiungere inutile dolore a quello già provato da chi sta soffrendo e, dunque, ricordare che ci si può mettere in disparte e che non è fondamentale “partecipare” se non si è chiamati in causa. Questi pensieri, che sono banali e sorgono spontanei, vanno evidenziati perché sembrano sfuggire a centinaia di persone incapaci di utilizzare con raziocinio gli strumenti digitali.

Quali sono le vostre esperienze a riguardo? Attendiamo, come sempre, le vostre opinioni.

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Il significato dell’oblio nell’epoca delle memorie digitali, di Davide Sisto

26 Febbraio 2019/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Secondo alcune statistiche della rivista Mashable, ogni mese l’utente medio di Facebook pubblica circa novanta contenuti sul suo profilo: post, immagini, video. Ora, facciamo finta che Mario Rossi si sia iscritto nel 2008 al social network di Mark Zuckerberg, nato ufficialmente ad Harvard il 4 febbraio 2004. Con due semplicissimi calcoli matematici scopriamo che Mario Rossi ha condiviso su Facebook, fino a oggi, oltre diecimila contenuti. Ma, nel corso degli ultimi anni, non si è accontentato di avere soltanto un profilo su Facebook. Ne ha aperto uno su Instagram, nato nel 2010, e uno su Twitter, creato nel 2006. Facendo un uso quasi quotidiano e metodico anche di questi altri due social, agli oltre diecimila contenuti su Facebook somma centinaia, se non migliaia, di fotografie su Instagram e di “cinguettii” su Twitter (senza contare il materiale interno alla messaggistica privata su Messenger, Snapchat, WhatsApp, ecc.).

In altre parole, Mario Rossi ha un quantitativo di memorie personali, in formato digitale, che non ha eguali nella storia dell’umanità. Se poi consideriamo il fatto che, per esempio, su Facebook vi sono attualmente oltre due miliardi di iscritti ci ritroviamo a vivere in un mondo soffocato – in maniera letterale – dai ricordi.

In un articolo anonimo del 1896, intitolato Voices of the Dead, si festeggiava l’invenzione del fonografo come la definitiva vittoria sulla morte, la quale non poteva nulla contro la capacità tecnologica acquisita dall’uomo di trattenere con sé le voci dei defunti. Qualche anno dopo, nell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom ritiene sensato porre un grammofono in ogni tomba o, comunque, tenerne uno in casa. In tal modo, la domenica dopo pranzo, lo si accende e si ascolta la voce del trisnonno. E, ancora, nel 1983 lo scrittore serbo Danilo Kiš immagina, all’interno del suo libro Enciclopedia dei morti, una biblioteca fantastica, situata a Stoccolma, i cui volumi hanno una caratteristica piuttosto peculiare: contengono informazioni estremamente minuziose di tutto ciò che, ritenuto insignificante e trascurabile, è escluso dagli archivi della cultura ufficiale e non è menzionato nelle altre enciclopedie. In particolare, questa biblioteca raccoglie i dati riguardanti la vita delle persone comuni, di modo da documentare e mantenere viva nella memoria collettiva la loro unicità e irripetibilità.

Oggi i social network hanno portato alle estreme conseguenze il bisogno umano, da sempre sentito, di continuare a sopravvivere all’interno delle proprie memorie. La produzione di ricordi delle singole esperienze è irrefrenabile. Qualche tempo fa avevo già affrontato il tema sul blog, ma in riferimento al pericolo di non riuscire a conservare le proprie memorie digitali a causa dell’obsolescenza tecnologica e delle rigide regole della privacy personale nei social (qui il suo contenuto). In questo articolo, invece, mi interessa soffermarmi su un’altra questione, molto più filosofica: è veramente così importante lasciare una traccia permanente di sé dopo il nostro passaggio sulla Terra?

Ognuno di noi tende a manifestare il desiderio di non scomparire per sempre e, dunque, di divenire – almeno, da un punto di vista simbolico – immortale. Molto banalmente, fare figli per la maggior parte di noi rappresenta il modo migliore di sopravvivere alla propria morte. A volte, tuttavia, penso che ci diamo troppa importanza. Non siamo poi così diversi da quelle centinaia di formiche che rischiamo quotidianamente di calpestare quando camminiamo. E il mondo stesso, anzi l’intero universo, non è poi così interessato ai nostri pensieri, alle nostre credenze, al nostro bisogno di apparire. In altri termini, può diventare quantomeno interessante capovolgere il significato di Coco, il film d’animazione della Pixar uscito nel 2017: non è una tragedia il fatto che, quando morirà l’ultima persona che ha avuto la fortuna (o la sfortuna) di conoscerci, scompariremo nel nulla in mancanza di un oggetto – una fotografia, un filmato, ecc. – che certifichi il nostro passaggio sulla terra.

Lo so, detto da uno che sta scrivendo questo articolo, il quale resterà a lungo nel web, che ha scritto diversi libri e che, come la maggior parte di voi, condivide migliaia di post sui social network può suonare contraddittorio. Tuttavia, mi interrogo spesso sulla effettiva necessità di lasciare traccia del proprio passaggio sulla terra. Per esempio, ho pochissime fotografie che mi ritraggono. Addirittura, io e la mia compagna, in oltre quindici anni di relazione sentimentale, abbiamo due o tre fotografie insieme. E non sappiamo nemmeno dove le abbiamo conservate. Questo perché, in fondo, è meglio guardare avanti, non dare troppo peso a ciò che sta dietro, continuare a proseguire il proprio percorso fino alla fine. E, dopo, chi se ne importa. Chi se ne importa di quello che sono stato, chi se ne importa di quello che ho fatto e ho detto. Il mondo andrà avanti, si sarà nutrito di ciò che gli ho dato, nel bene e nel male, e si nutrirà ora di nuova linfa vitale, prodotta da chi prenderà il mio posto, da chi abiterà nei luoghi in cui ho vissuto, da chi camminerà sui marciapiedi su cui ho passeggiato.

È davvero così importante soffocare la propria esistenza con le memorie delle proprie esperienze? Magari sì, ma perché non pensare anche in modo contrario, quindi riconoscere l’importanza pedagogica dell’oblio totale? Scendere a patti con il nostro scomparire, non rivestendolo di angoscia e tristezza ma osservandolo con la malinconica consapevolezza che così funziona la vita, potrebbe forse rendere meno drammatica la coscienza della nostra mortalità e anche meno sofferente l’esistenza di chi soffre per la nostra perdita.

Sto riflettendo insieme a voi e non voglio dare una certezza oggettiva alle mie parole né fornire un insegnamento particolare. Tuttavia, mi sembra utile riflettere sul tema in un’epoca in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo a produrre memorie in formato digitale. Cosa ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/02/Depositphotos_43144711_m-2015-e1551169387158.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-02-26 09:29:432019-02-26 09:29:43Il significato dell’oblio nell’epoca delle memorie digitali, di Davide Sisto

La morte si fa social? Intervista a Davide Sisto, di Marina Sozzi

25 Settembre 2018/5 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Come molti dei lettori di questo blog hanno senz’altro visto, il libro La morte si fa social di Davide Sisto, appena uscito per Bollati Boringhieri, sta avendo una grande quantità di recensioni. Ho voluto quindi rivolgergli qualche domanda un po’ più approfondita rispetto alla stampa generica: dato che la dimensione virtuale assorbe molto tempo nella nostra cultura, non possiamo più ignorare che cosa accade online a proposito della morte.

La riflessione che hai condotto sulle caratteristiche che assume la morte nel web (in vari e complessi modi) è molto innovativa, soprattutto in Italia. In che misura secondo te il modo di trattare la morte sul web è specchio dell’atteggiamento della nostra cultura offline, e in che misura invece si possono rilevare online nuovi e diversi orientamenti?

Le attuali tecnologie digitali registrano, dunque rendono visibili, i comportamenti che segnano comunemente lo spazio pubblico in cui viviamo. Pertanto, l’onnipresenza della morte nel web – soprattutto, le registrazioni audiovisive di omicidi, suicidi e morti in diretta – mette dinanzi ai nostri occhi quella spettacolarizzazione del morire che è la conseguenza prima della sua rimozione sociale e culturale. Noi, in altre parole, guardiamo quei video su YouTube come se fossero dei film. La differenza fondamentale emerge, secondo me, negli spazi interattivi, come i social network: il fatto che la morte sia così presente all’interno di luoghi adibiti a creare perlopiù amicizie e relazioni sentimentali mette le persone dinanzi alla realtà della morte. La presenza dei profili dei morti su Facebook, il più grande cimitero che vi sia al mondo, e la condivisione pubblica delle malattie tumorali da parte di giovani Youtuber registrano visivamente la morte. La vediamo, come non siamo più abituati a farlo offline. Se, pertanto, utilizziamo questa opportunità per educare le persone tanto a un uso corretto del web quanto a comprendere il ruolo della morte nella vita, allora forse il web diventa uno strumento per guardare la morte e il suo legame con la vita in modo diverso rispetto agli ultimi decenni.

Questo libro sta avendo molto successo, segno che il tema della morte interessa e che, se coniugata con il mondo digitale, incuriosisce ancora di più. Nel tuo libro parli di Death Education, immaginando che possa aver luogo online. Oltre a questo blog (che spero possa stare nel novero delle fonti di educazione alla morte) mi fai qualche altro esempio di fonte a disposizione di molti, in grado di modificare la mentalità ?

Il primo esempio che mi viene in mente è “La Cura” (http://la-cura.it/) di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. Scoperto di avere un tumore al cervello, Iaconesi – che è un ingegnere robotico e un hacker – mette online la propria cartella clinica e chiede al mondo intero di partecipare alla sua cura. Crea, cito le sue parole, “una cura partecipativa open source per il cancro”. Rispondono milioni di persone da tutto il mondo – artisti, ricercatori, medici, ecc. – portando un loro personale contributo. Questo tipo di esperimento, che ha permesso la guarigione di Iaconesi, ha creato una autentica comunità attorno al malato di tumore, facendolo uscire dall’isolamento sociale in cui troppo spesso si ritrova. Un altro esempio è quello delle “cancer vlogger”, ragazze che pubblicano quotidianamente video su YouTube o Facebook in cui parlano della loro malattia a milioni di spettatori. Molti studiosi sostengono che questo fenomeno sia utile per ripensare il rapporto tra salute e malattia, vita e morte. Nel nostro blog abbiamo parlato qualche anno fa del sito “Soli ma insieme” (http://www.solimainsieme.it/), che offre strumenti significativi per bambini e ragazzi in lutto. Per quanto riguarda più specificamente la Death Education, nelle scuole, negli ospedali e nelle Università inglesi e americane sono utilizzate le forme di elaborazione collettiva del lutto su Facebook come occasioni per discutere della morte. Stacey Pitsillides, ideatrice del sito “Digital Death” (www.digitaldeath.eu), è un esempio di ricercatrice che utilizza la presenza della morte nei social network all’interno di progetti universitari interdisciplinari che mettono in dialogo le discipline umanistiche e quelle scientifiche. Sarebbe interessante farlo pure in Italia.

Nel libro parli spesso di consolazione delle persone che hanno subito una perdita. Consolazione che si può cercare in siti che propongono avatar del defunto e spettri digitali; ma anche nelle interazioni su Facebook a proposito della morte dell’amato; o perfino nell’invio di messaggi Whatsapp al morto. La psicologia ci insegna però che il dolente ha bisogno, prima di tutto, di prendere coscienza della morte del proprio caro. Tutti questi sostituti virtuali del morto non rischiano di rallentare il processo di elaborazione del lutto?

Il rischio è tangibile. Da una parte, i cosiddetti “griefbot”, per mezzo dei quali è possibile continuare a dialogare con i morti, rappresentano chiaramente la non accettazione della perdita e del distacco. Sono la conseguenza del tentativo di tenere stretto a sé digitalmente chi non potrà più esserci fisicamente. Dall’altra, la presenza dei profili dei morti su Facebook e su WhatsApp può mantenere vivo a tempo indeterminato il dolore in un genitore che ha perso il figlio. Va però anche detto che tutti questi mezzi digitali offrono alle persone la possibilità di continuare a tenere stretta a sé una quantità inimmaginabile di ricordi e di narrazioni del defunto. E questo, nei casi in cui il lutto è stato elaborato, è benevolmente consolatorio.
Il prevalere delle opportunità o delle criticità dipende dal lavoro che viene fatto offline. Oggi abbiamo questi strumenti digitali che segnano la nostra vita quotidiana. Sappiamo che possono acuire il dolore per la perdita o, in alternativa, possono fornire una maggiore consolazione rispetto al passato. Se il dolente è abbandonato a se stesso, ovviamente le criticità del web prevalgono. Anche in questo caso mi chiedo: quando la società imparerà a mettere a frutto con intelligenza e raziocinio le inedite opportunità offerte dal progresso?

Ho trovato molto interessante la questione della memoria. La memoria, per esistere e avere senso, ha bisogno anche di oblio. Qualcosa si ricorda perché si dimentica il resto. Non stiamo affastellando troppa memoria? Tutta questa memoria non rischia di trasformarsi in una nuova forma di oblio indifferenziato? Questa domanda non vale solo per i defunti, ma certo nel caso della morte appare particolarmente pertinente.

Con me sfondi una porta aperta. Sono quasi privo di fotografie della mia vita personale e familiare. Tendo ad accumulare meno ricordi possibili. Dal momento che ho un carattere malinconico, lo tengo a bada cercando di guardare sempre in avanti, senza tener troppo conto di ciò che mi sta alle spalle. Oggi, le persone accumulano in formato digitale una quantità inimmaginabile di fotografie, registrazioni audiovisive, testi scritti. Tutto questo materiale è profondamente dispersivo e soffocante. Ma, di nuovo, la memoria digitale può trasformarsi in un’occasione per fare selezione e per preparare la propria eredità personale. Se si insegnasse, a partire dagli anni della formazione scolastica, l’importanza dell’oblio per la memoria stessa, forse si riuscirebbe anche a rendere le persone consapevoli di quanto sia necessario selezionare le proprie memorie per il futuro. Questa quantità immensa di memorie è l’ennesima occasione per porsi la domanda: “cosa voglio lasciare agli altri dopo la mia morte?”. Quindi, per riflettere sulla propria mortalità e sull’uso responsabile del web nei suoi confronti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/09/Depositphotos_110069884_s-2015-e1537871405124.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-09-25 12:32:212018-09-25 12:32:21La morte si fa social? Intervista a Davide Sisto, di Marina Sozzi

La morte ai tempi di Facebook, di Davide Sisto

12 Luglio 2016/21 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

hack social mediaLa prima volta che ho veramente compreso quanto il digitale rivoluzioni il nostro legame con la morte è stato un giorno del novembre 2014: appena sveglio, ricevo sul mio smartphone una notifica da Facebook che mi ricorda il compleanno di un amico. Morto, però, tre mesi prima all’improvviso.

Un morboso desiderio di autolesionismo emotivo mi spinge a ritornare subito sulla bacheca del suo profilo Facebook. E non occorre uno spirito di osservazione particolarmente acuto per cogliere le tante suggestioni che quella bacheca produce, in modo del tutto casuale e senza un filo logico razionale.

In primo luogo, lo spettro dell’interruzione: il classico susseguirsi quotidiano di fotografie, videoclip, pensieri personali che, di colpo, si interrompe senza più possibilità di ripresa. Sarà pur vero ciò che sostiene il filosofo coreano Byung-Chul Han, vale a dire che la bacheca di un social network non è niente più che una meccanica, fredda, morta enumerazione e addizione di eventi o di informazioni, che si accumulano senza anima. Nulla a che vedere con la narrazione viva della nostra memoria, la cui forza pulsante è tutta racchiusa nel dimenticare, quindi nel non trattenere tutte le esperienze vissute. Tuttavia, fermarsi a osservare quella bacheca virtuale, con la sua successione temporale di immagini e riflessioni, è come rendersi d’un tratto consapevoli che, con la morte, il presente viene inghiottito dal passato, il tempo non ha più né vitalità né senso. Sale, quindi, l’angoscia per la mancanza del commiato e per il senso di incompletezza che, mai così nitida come sullo schermo del computer, è tipica di una morte avvenuta all’improvviso. L’interruzione inattesa, non calcolata né prevista solitamente all’interno di una vita scandita da ritmi e abitudini quotidiane, è senza ombra di dubbio amplificata da un social network come Facebook.

In secondo luogo, lo struggimento degli amici e dei conoscenti: la bacheca comincia a riempirsi di messaggi di saluto, di dediche musicali, di ricordi. Messaggi diretti in forma colloquiale alla persona morta. Da una parte, sembrano tentativi di comunicazione con chi non c’è più; gli amici si rivolgono a lui come se fosse in grado ancora di leggere. Sopra una fotografia un ragazzo scrive: “Questa appendila alla nuvoletta accanto a te. Tanti Auguri!”. Come se ci fosse una specie di anima del mondo che collega i vivi con i morti, ora, tramite Facebook. Il social network sembra farsi carico della tradizionale comunicazione simbolica tra l’aldiquà e l’aldilà, una comunicazione percepita stranamente – davanti allo schermo del computer – come reciproca. Molto diversa da quella che creiamo sulla tomba della persona amata al cimitero, la quale è più pensata e immaginata che realmente “vista” con gli occhi. Da un’altra parte, questi messaggi sembrano tentativi volti “a fare gruppo”. Si cerca cioè di condividere virtualmente il dolore con le altre persone, eludendo il pudore e le difficoltà che hanno spesso luogo nella realtà. Il commento sotto un messaggio di commiato sulla bacheca di Facebook, con magari il ricordo di un aneddoto o di una propria riflessione, non è invasivo perché si riesce a nascondere il proprio stato d’animo dietro allo schermo. Mentre nella realtà si fa più fatica a condividere quel dolore, quindi a vincere la vergogna di mostrare i propri sentimenti o di dire frasi banali.

Facebook ci pone di fronte a quella morte che rimuoviamo quotidianamente dalla nostra vita. Lo fa in moltissimi modi diversi, ben più numerosi rispetto a quelli che ho brevemente indicato. Nel bene e nel male. E dobbiamo, il prima possibile, prenderne atto e coglierne le conseguenze. Facebook, infatti, è già oggi il più grande cimitero che vi sia al mondo, facilmente accessibile tramite un computer o un telefono cellulare. A fine 2014 si contavano oltre 50 milioni di utenti morti; secondo Hachem Sadikki, esperto di statistica presso l’Università del Massachussetts, nel 2098 il numero di utenti deceduti sarà addirittura superiore a quelli ancora in vita. I dati che lo portano a tale conclusione sono principalmente due: la scelta dei gestori del social network di non eliminare in modo automatico gli account degli utenti deceduti e il rallentamento progressivo dei nuovi iscritti. Se le previsioni sono corrette, il social network più popolare al mondo sarà, alla fine di questo secolo, una distesa di profili fantasma, quindi di pensieri, fotografie e ricordi di persone che non ci sono più, a totale portata di mano di chi è invece ancora in vita.

E, tra i tanti problemi che questo comporta, vi è quello della propria privacy e dell’eredità della nostra vita virtuale. Da pochi anni, Facebook ha inventato l’opzione del “contatto erede”: ciascuno di noi può scegliere in vita se eliminare, una volta morti, il proprio account o se farlo diventare “commemorativo” tramite un erede. Si sceglie una persona di famiglia o un amico, il quale può scrivere un post fissato in alto nel profilo, magari dando informazioni agli altri amici virtuali; può rispondere alla eventuali richieste di amicizia e aggiornare l’immagine del profilo e di copertina. Non può però accedere ai dati personali. Nella pagina, in alto, compare la scritta “in ricordo di”. L’opzione del “contatto erede” dimostra quanto sia sentita la necessità di pensare a ciò che può succedere dopo la propria morte, proprio perché ormai la realtà virtuale è diventata parte integrante di quella reale.

Difficile comunque riuscire a farsi un’idea precisa se Facebook renda più traumatico il lutto o ne sia invece di aiuto, se rende più doloroso il distacco o se genera una qualche forma di sollievo, anche nell’ottica di una maggiore comprensione del significato della morte per la vita. Voi cosa ne pensate? Avete già avuto esperienza di una persona deceduta con il profilo Facebook attivo? Come vorreste che venisse gestito dopo la vostra morte? Sono molto curioso di sentire opinioni a riguardo.

 

 

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