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Tag Archivio per: negazione della morte

Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi

12 Giugno 2025/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Per molto tempo abbiamo detto (io stessa l’ho fatto, con una certa leggerezza) che l’uso di eufemismi fosse uno dei sintomi della perniciosa negazione della morte della nostra cultura. In altri articoli di questo blog ho già cercato di spiegare perché non condivido più la tesi della negazione della morte.
Ora, a proposito di eufemismi, se si approfondisce un po’ la questione, risulta chiaro che quasi tutte le culture, in modi loro propri, hanno considerato la morte un tabù, e hanno utilizzato eufemismi per parlarne.
Innanzitutto: cos’è un eufemismo? La Treccani ci dice che l’eufemismo “consiste nell’attenuare un’espressione che potrebbe risultare troppo cruda o sconveniente, sostituendo una parola o una locuzione con un’altra meno forte o addirittura contraria.” La morte è una realtà misteriosa e molto dura da accettare per gli esseri umani, e questa è la ragione per cui vengono usati eufemismi. Contrariamente a quello che abbiamo creduto negli scorsi decenni, usare eufemismi per parlare della morte non è certo appannaggio della nostra cultura. Se si studiano i necrologi del XIX secolo, emerge che in un’epoca in cui l’attenzione per la morte e il lutto era molto forte, si parlava comunque della morte per eufemismi: alcune esperienze sono troppo intime e rendono gli uomini troppo vulnerabili per essere menzionate senza una copertura linguistica. Uno studioso di eufemismi, Denis Jamet, li ha definiti come una sorta di “deodorante del linguaggio”.
Quello che è rilevante notare, tuttavia, non è solo che vengano usate espressioni eufemistiche, ma quali metafore siano usate, in ciascuna epoca, per parlare della morte e dei morti.
Ad esempio, in epoca vittoriana predominavano le metafore religiose, orientate a immaginare una vita ulteriore per i defunti: la morte è vista come un evento positivo, un riposo o un premio dopo una vita virtuosa (e sovente faticosa) sulla terra. A proposito della metafora del viaggio (partire, andarsene, tornare alla casa del Padre) è interessante notare che la persona morta è pensata come capace di intraprendere il viaggio. Quindi, negando la totale cessazione del movimento corporeo nella morte, questa metafora nega la stessa morte. Analogamente, nella metafora della morte come riposo, essendo il sonno temporaneo, la morte è vissuta come transitoria (talvolta in attesa della resurrezione dei morti), quindi negata (la persona è solo sprofondata nel sonno).
Se si analizzano i necrologi del nostro tempo, appare evidente che i nostri eufemismi utilizzino prevalentemente la metafora della sparizione.
Notevole è la frequenza, nei necrologi, di espressioni come “è mancato”, o “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “è scomparso”, o “è prematuramente scomparso”. Altra metafora ricorrente, quella dell’abbandono: “ci ha lasciati”, “ha lasciato il mondo”. Meno sovente leggiamo ancora metafore del viaggio, come partire, tornare alla casa del Padre, terminare il proprio cammino terreno, prevalentemente utilizzati dalle persone credenti.
Mi pare interessante l’uso della metafora della sparizione per parlare della morte ai giorni nostri. Mi sembra che indichi l’effetto (la persona defunta non è più nel mondo) e non la causa, astenendosi dall’indicare un luogo dei morti al quale oggi molti nostri contemporanei hanno smesso di credere. E’ come una sospensione del giudizio. Mi sembra anche un modo per accogliere il mistero in tutta la sua portata. Dove sono i morti? Non lo sappiamo, forse da nessuna parte. Spariscono, appunto, dall’unica realtà che conosciamo. Non sono più qui, e ci mancano.
Che ne pensate? Quali metafore usate per parlare della morte? Vi siete mai interrogati sul significato di queste metafore?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/06/eufemismi.jpg 265 353 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-06-12 10:01:532025-06-12 10:01:53Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi

Di cosa parliamo quando parliamo di morte? di Marina Sozzi

4 Novembre 2024/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando parliamo di morte, è evidente che non ci riferiamo all’istante dell’exitus, al momento del decesso: di questo evento puntuale, del quale nessun essere umano vivente ha esperienza, nulla sappiamo e nulla possiamo dire.

Vladimir Jankélévitch, interessante filosofo esistenzialista del Novecento, scriveva che è impossibile pensare la morte, intesa in quel senso, e che «il pensiero del nulla è un nulla del pensiero». Così tutti quei monaci, santi e gentiluomini che meditavano guardando un teschio, nei quadri medievali e rinascimentali, non stanno in realtà pensando a niente:

«…in questo concetto di una nichilizzazione totale, non troviamo niente a cui afferrarci, nessuna presa a cui la comprensione possa aggrapparsi. Il pensiero del niente è un niente di pensiero, poiché il nulla dell’oggetto annichila il soggetto: non si pensa un niente, non più di quanto si veda un’assenza, così che pensare il niente è non pensare a niente, dunque è non pensare» (V. Jankélévitch, La morte, p. 39)

Cosa abbiamo quindi in mente quando condividiamo il pensiero che sia importante e utile ragionare sulla morte e confrontarci?

I nostri discorsi vertono principalmente su tre temi: 1) la paura della morte, cioè il pensiero più o meno ricorrente e più o meno angosciante della propria fine o della mortalità delle persone che ci sono care; 2) il morire, ossia il processo di avvicinamento alla propria morte, a seguito di una prognosi infausta, e 3) il lutto, in altre parole ciò che accade a chi resta. Poi, certamente, possiamo riflettere sui riti, o sulla conservazione e tutela della memoria di chi ha lasciato la vita.

Quando parliamo di morte, quindi, paradossalmente, parliamo di vita. L’ultimo tratto di strada delle persone è vita, anzi spesso, come ci insegna chi opera in cure palliative, una vita intensa e preziosa. E vita è quella di chi ha subìto una perdita, di chi ricorda, di chi celebra, di chi teme, di chi prova ansia o angoscia.

Parliamo, più in generale, non della ma intorno alla morte. Ciò che è interessante, in altre parole, è il nostro modo di affrontare il morire e la perdita, individualmente, culturalmente e socialmente. Per comprenderlo occorre esaminare il “sistema della morte” che opera nel nostro contesto, che permette a tutti noi di sapere come comportarci quando incontriamo l’evento più temuto, tenendo conto che ogni sistema della morte è intrecciato con la dimensione sociale, politica ed economica di un paese.

Ciò che è interessante, in sintesi, è come ci prendiamo cura dei morenti, se sappiamo accompagnarli e sostenerli, se riusciamo a rendere tollerabile il morire; come consideriamo e trattiamo gli anziani; come supportiamo chi cura, i caregiver formali e informali; come riusciamo a prevenire il suicidio; come ci prendiamo cura dei lutti faticosi e difficili, come manteniamo la memoria e commemoriamo i nostri morti.

Ma per capire il nostro «sistema della morte», occorre restare aperti a ciò che di nuovo è emerso negli ultimi decenni: la crescita delle cure palliative, innanzitutto. La dimensione online dell’elaborazione del lutto. Le nuove forme di socializzazione della morte, meno legate a protocolli rituali e più personali e intime, gestite insieme alle persone che ci sono affini e vicine. Occorre anche tenere presenti le differenze tra nord e sud, tra città e provincia, abbandonando le perniciose generalizzazioni che ci portano ad affermare che «la società occidentale nega la morte».

Per capire il nostro specifico modo di confrontarci con il morire e con la perdita, dobbiamo smettere di lanciare anatemi, sussumendo tutto quanto è diverso dal passato sotto il cappello della negazione, del tabù, o della rimozione della morte.

Occorre ripartire senza più usare il concetto prêt-à-porter del tabù, per comprendere più profondamente, e senza pregiudizi, ciò che ci circonda: senza trionfalismi, perché ogni «sistema della morte» è modificabile e migliorabile; ma anche con la consapevolezza che la morte è ardua da affrontare, e tutte le società, del presente e del passato, in qualche misura hanno sempre negato e negano la morte, pur dovendola anche in parte accettare, come dato di fatto incancellabile. Nulla di nuovo dal fronte occidentale.

Mi stanno molto a cuore le vostre riflessioni, e aspetto come sempre i vostri commenti.

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La Death Positive Library: iniziative pubbliche contro la negazione della morte, di Davide Sisto

9 Marzo 2022/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Poco prima dell’inizio della pandemia da Covid-19 si è diffusa in Gran Bretagna un’iniziativa culturale piuttosto importante, a mio avviso meritevole di essere imitata anche in Italia. In virtù della collaborazione tra le biblioteche di Redbridge, Kirklees e Newcastle, è stato creato uno spazio specifico al loro interno dedicato esclusivamente ai libri che si occupano di morte e di lutto da un punto di vista interdisciplinare. All’ingresso di questo spazio il lettore trova un cartello con la scritta “The Death Positive Library”, la quale è stata coniata dal Redbridge Library Service. Il progetto, che coinvolge anche un team di accademici della Northumbria University (tra cui Stacey Pitsilides, una riconosciuta studiosa nel campo della Digital Death) e una serie di finanziatori privati, non solo raggruppa un insieme di libri incentrati sulle questioni di natura tanatologica, ma s’impegna anche a creare eventi culturali e attività pubbliche con un obiettivo molto specifico: imparare a conversare insieme e senza imbarazzo riguardo ai temi della morte, del lutto e della pianificazione delle proprie eredità personali. Anita Luby, una delle responsabili della Redbridge Library, sostiene che nel mondo odierno è fondamentale riflettere liberamente sulla perdita: la perdita della normalità, la perdita del lavoro, la perdita di una persona amata. Purtroppo, la morte è ancora oggi un argomento tabù, addirittura superiore a quello del sesso, per cui si tende a evitarlo il più possibile (pare che l’80% degli adulti britannici sia ancora oggi restio a parlare di morte). Ecco, pertanto, la decisione di promuovere la Death Positive Library, ancora di più una volta diffusosi il Covid-19 in tutto il mondo, coinvolgendo persone di tutte le età e provenienti dai diversi ambiti sociali e lavorativi. Pare che, durante la pandemia, più di cinquemila persone abbiano partecipato agli eventi online organizzati nell’ambito della DPL e siano state coinvolte una sessantina di altre biblioteche sparse sul territorio britannico. Gli eventi culturali prendono spunto non solo dai libri, ma anche dai film, dall’arte e dai social media, di modo da usare tutti i linguaggi della contemporaneità per scardinare il tabù. Un ruolo significativo è rivestito dalle pagine ufficiali della DPL su Facebook, Twitter e Instagram che, oltre a pubblicizzare le attività organizzate, forniscono al pubblico liste in continuo aggiornamento dei libri dedicati alla morte e suddivisi per categorie (libri per bambini, libri sul lutto, testi letterari, testi filosofici, ecc.). Chiunque voglia approfondire la DPL, può collegarsi a questo sito.

Ampliando notevolmente le caratteristiche degli ormai noti Death Café, di cui ho parlato in passato sul blog, queste librerie stanno svolgendo un lavoro encomiabile, soprattutto tenendo conto del periodo storico così delicato che stiamo vivendo, tra pandemie e guerre. Negli ultimi anni, volenti o nolenti, i cittadini di tutti i paesi del mondo sono stati costretti a prestare attenzione al ruolo della morte nella vita umana. Il tabù che accompagna da decenni il Tristo Mietitore non fa altro che spingerci a ragionare nei modi peggiori possibili sul limite della vita e sul senso della perdita, come dimostra tutto il dibattito pubblico sui vaccini, sulle scelte dei governi relative al lockdown, sui collegamenti – il più delle volte confusi – tra l’autodeterminazione e la salute. Studi di natura psicologica e sociologica hanno evidenziato in Italia l’aumento di patologie psichiche legate all’incapacità di gestire emotivamente gli imprevisti che si sono presentati dal febbraio 2020. Negli Stati Uniti, per esempio, vi è stato un considerevole aumento di richieste relative all’organizzazione delle proprie eredità, analogiche e digitali, accompagnate dal bisogno di parlare apertamente del proprio rapporto con la perdita e con la consapevolezza ritrovata della propria vulnerabilità esistenziale. Pertanto, la decisione in Gran Bretagna di mettere a frutto i contenuti dei libri scritti dagli esperti nel campo tanatologico all’interno di spazi pubblici specifici, offline od online, rappresenta un punto di partenza significativo per creare la condizione psicologica ed emotiva per rompere il tabù. Sarebbe, dunque, interessante provare a imitare la DPL anche in Italia. Sono sicuro che, superato l’iniziale sensazione di disagio, il numero di persone interessate a questo tipo di attività crescerebbe costantemente, come è successo in Gran Bretagna.

Voi cosa ne pensate? Ritenete che possa essere utile una versione italiana della DPL?

Attendiamo, come sempre, le vostre opinioni.

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La libertà va difesa a costo della salute? L’importanza della Death Education, di Davide Sisto

8 Settembre 2021/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi giorni dello scorso agosto i quotidiani nazionali hanno riportato la notizia della morte per Covid-19 di un uomo di 48 anni, Luca Amaducci, condividendo il suo ultimo post pubblico su Facebook, risalente a inizio mese, nel quale descriveva in maniera minuziosa i drammatici effetti del virus sul suo corpo. Rimpiangeva, quindi, il fatto di non essersi ancora vaccinato e sperava ovviamente di poter guarire. Dopo la sua morte, come spesso succede con i post pubblici sui social media, le sue parole sono state più volte condivise da utenti sconosciuti. Alcuni lo hanno fatto per evidenziare quanto sia pericolosa la scelta di non vaccinarsi; altri, invece, per scovare ogni possibile incongruenza descrittiva tale da avvalorare l’ennesima tesi complottista. Se il 2020 è stato segnato dalle diatribe sulla legittimità del lockdown, il 2021 sarà prevalentemente ricordato infatti per l’estenuante scontro tra pro-vax e no-vax. “La libertà va difesa a costo della salute”: così si è espresso l’attore Enrico Montesano, da tempo fautore di ogni sorta di teoria complottista, durante una diretta telefonica nel corso di una manifestazione di protesta contro il green pass promossa da Variante Torinese.

L’idea che la libertà vada difesa a costo della salute è un’argomentazione ricorrente nel periodo pandemico. Si fa un collegamento tra le decisioni politiche prese a livello internazionale, in vista del contenimento del contagio, e la realtà di una società farmacologizzata, che nega l’inevitabile esistenza del dolore e della morte, preferendo limitare la libertà individuale attraverso estenuanti percorsi di immunizzazione sanitaria. Ne ho già parlato più volte sul blog in passato, ma ritengo necessario tornare una volta ancora sulla questione: è assolutamente privo di senso questo collegamento. Anzi, anteporre prosaicamente il proprio interesse personale alla salute collettiva è un effetto collaterale proprio della rimozione della morte e del dolore. Chiunque lavori nel campo della tanatologia, o abbia a che fare direttamente con il fine vita, conosce le caratteristiche di questa rimozione. Norbert Elias, per esempio, descriveva negli anni Ottanta la cosiddetta “solitudine del morente”, tema ancora protagonista del recente libro Non morire di Anne Boyer, il quale mostra come la diagnosi di un tumore al seno determini immediatamente l’imbarazzo nelle altre persone. Iona Heath, nel libro Modi di morire, parla dei pazienti in ospedale come “unità standardizzate di malattia”, a causa della difficoltà di andare oltre la malattia creando un legame umano con la storia di ogni singolo individuo. E come non notare, infine, la costante incapacità da parte dello spazio pubblico di comprendere che, sì, “si può dire morte”? Fateci caso: è sempre rarissima la dicitura “è morto” in relazione alla notizia di un decesso. Si continua a utilizzare i soliti “è scomparso”, “si è spento” (come il nostro cellulare o pc, sarà un caso?), “ci ha lasciato”. La bibliografia novecentesca sulla difficoltà del mondo occidentale a relazionarsi con il dolore e la morte è sterminata.

Ora, i riferimenti menzionati non sono la prova del fatto che la società, in presenza di una inedita pandemia, penalizza la libertà dell’individuo perché terrorizzata dalla possibilità di ammalarsi e di morire. Semmai, sono la testimonianza di un consolidato modo di vivere che, ignorando la vulnerabilità e la finitezza, si dimostra del tutto spaesato di fronte a una brusca presa di coscienza del limite della vita. Il lockdown prima e la vaccinazione di massa poi generano, cioè, un corto circuito all’interno di una quotidianità vissuta come se il dolore e la morte non ci fossero: rappresentano la prova oggettiva che c’è un problema che non si vuole vedere né affrontare. Dunque, ci si irrigidisce, ci si mette nella condizione di negare a priori, quindi di credere che il problema sia puerile o, se c’è, comunque “andrà tutto bene”. Ci si sente, in un certo qual modo, assediati dal pensiero della vulnerabilità e della finitezza, pertanto – per difendere sé stessi – si accetta l’idea che il periodo che stiamo vivendo sia un complotto, un tentativo di limitare la sacrosanta voglia di vivere in maniera spensierata. Così, ci si affida alla propria auto-narrata immortalità, ritenendo sé stessi e i propri cari al di sopra di ogni rischio. È interessante, tra l’altro, notare una contraddizione di non poco conto: da una parte, si accusa chi stabilisce le regole e chi le segue di aver talmente paura della morte da non voler più vivere. Dall’altra, tuttavia, si rifiuta il vaccino perché si teme che gli effetti collaterali possano condurre alla morte, mettendo – di conseguenza – da parte quel fatalismo che invece viene applicato con leggerezza nei confronti delle paure legate all’eventuale contagio.

Ma, avere coscienza della propria mortalità, essere dunque predisposti a un fatalismo che ci spinge a credere che ogni minuto di vita in più non vada dato per scontato, significa innanzitutto maturare un ragionato senso civico e mostrare attenzione per la vulnerabilità altrui. Se siamo in una fase storica delicata in cui dal nostro comportamento dipende la sopravvivenza delle persone più fragili, allora dobbiamo anteporre il pensiero della morte a ogni altra cosa proprio per tutelare il più possibile il benessere collettivo. Come già detto in un altro articolo, la consapevolezza della propria vulnerabilità e finitezza non si traduce mai in un’ardita ed egoistica mancanza di prudenza: ogni singolo può serenamente decidere di giocare nel corso della propria vita con la mortalità che definisce la sua esistenza, ma non può in alcun modo permettersi di giocare con quella altrui. Dunque, sulla base dei dati di cui disponiamo, bisogna vaccinarsi per il bene di tutti, bisogna comprendere il legame vigente tra il Covid-19 e la possibilità di morire e fare le scelte appropriate. Il superamento della rimozione della morte consiste proprio nell’essere in grado di pervenire a un equilibrio di pensiero tale da distinguere nitidamente il momento della prudenza da quello dell’audacia fatalistica. E, certamente, durante una pandemia sapere quanto è fragile la nostra esistenza significa proteggerla il più possibile, non essendo eremiti ma componenti attivi di una società.

La libertà va a difesa a costo della salute? In un periodo come quello che stiamo vivendo, è la salute – dunque la consapevolezza del carattere mortale della nostra vita – che va difesa a vantaggio dell’esercizio continuo della libertà. Essere imprudenti o complottisti significa, semplicemente, perdere la possibilità di vivere, dunque di esercitare la libertà. Una libertà che non ha mai presupposto, tra l’altro, la possibilità di fare tutto ciò che si vuole all’interno di uno spazio condiviso.

Cosa ne pensate? Attendiamo le vostre considerazioni.

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Negazione della morte e Covid-19, di Marina Sozzi e Davide Sisto

30 Giugno 2020/20 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante i mesi più oscuri dell’epidemia di Covid-19, ci siamo interrogati più volte su cosa stesse accadendo della negazione della morte che caratterizza la nostra cultura. Da un lato, l’intera popolazione del nostro paese, soprattutto nelle regioni più colpite, è stata investita da un’acuta angoscia di morte, difficilmente ignorabile. Dall’altro lato, abbiamo assistito a diverse manifestazioni di negazione della paura e dell’angoscia, con i concerti sui balconi, così poco in accordo con le sirene delle ambulanze, e con l’hashtag #andràtuttobene.

Ora che l’epidemia ci ha dato un po’ di respiro, gli individui cercano di dimenticare quello che hanno vissuto, ignorando le precauzioni, col rischio di farci nuovamente precipitare in una seconda ondata epidemica in autunno. Pare quindi che non si possa parlare di una maggiore coscienza della mortalità indotta dalla pandemia: come spesso accade, e come sanno coloro che hanno sperimentato il rischio della vita, tale coscienza dura finché il pericolo è attuale. Una più profonda consapevolezza della finitezza richiede un processo di crescita e di riflessione personale che non deriva solo dall’angoscia di morte.

Non stiamo parlando soltanto di gente comune, di giovani che si affollano nei bar per lo spritz serale. Vi sono intellettuali di primissimo piano che hanno dimostrato di mettere in atto raffinati processi di negazione della paura. Caso emblematico, il filosofo Giorgio Agamben, teorico della biopolitica, ossia di quell’insieme di pratiche con le quali la rete dei poteri capitalistici gestisce i corpi e le vite degli individui.

Durante il lockdown, Agamben ha pubblicato numerosi brevi articoli sul sito dell’editore Quodlibet dai titoli emblematici: “Biosicurezza”, “La medicina come religione”, “L’invenzione di un’epidemia”, ecc. Il fulcro teorico di questi articoli consiste nell’evidenziare come la maggior parte dei cittadini italiani abbia accettato supinamente ogni tipo di limitazione della propria libertà – “limitazione decisa con decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato di poter imporre”, scrive Agamben – per evitare un pericolo di natura sanitaria. Addirittura, il filosofo italiano definisce “frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate” le misure di emergenza adottate per questa “supposta epidemia”. Egli è convinto che il comportamento comunemente adottato nel corso del lockdown rispecchi la trasformazione della scienza e della medicina nelle religioni del nostro tempo, le quali riconoscono nella malattia “un dio o un principio maligno […] i cui agenti specifici sono i batteri e i virus” a cui va contrapposto “un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia”. Il 17 marzo ha scritto: «È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.»

Siccome nulla è semplice e lineare, parte del ragionamento di Agamben è vicino a quello che facciamo, anche all’interno di questo blog, sulla necessità di ripensare il ruolo della morte e della malattia nella vita. È vero che la malattia è sovente trasformata in un dio maligno contro cui occorre combattere sempre e in ogni situazione fino allo stremo delle forze, usando le armi della scienza e della medicina; è vero che va sfatato il mito della medicina come onnipotente artefice di guarigione, e che occorre sottoporre a critica alcuni aspetti della biomedicina. Tuttavia, il ragionamento di Agamben ha esiti radicalmente differenti dai nostri, proprio perché, da uomo del Novecento, non riesce a fare i conti con la propria angoscia di morte, non la riconosce come componente ineludibile della stessa vita umana, componente antropologica e non prodotto di una società malata. Non entreremo nel merito della filosofia di Agamben e delle sue riflessioni sulla biopolitica. Ci sembra tuttavia che sia un buon esempio di quanto sia radicata, nella nostra cultura e nel nostro pensiero, la negazione della morte. Viene in mente anche Sartre, peraltro allievo di Heidegger come Agamben, quando scriveva che è impossibile prepararsi alla morte. La morte non fa parte delle possibilità dell’uomo, anzi è ciò che interrompe bruscamente l’arco delle possibilità di ciascuno, ne rappresenta l’annullamento. Sartre scrive che la morte appare come l’assurdo che costeggia e minaccia la vita umana: “Così la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato”.

Queste, che possono sembrare astratte dissertazioni filosofiche, ci servono per comprendere che la negazione della morte, la difficoltà della nostra cultura ad includerla nella vita, ha profonde e complesse radici nella nostra storia, e non credo che possa essere scalfita dall’esperienza del Coronavirus. Piuttosto, la pandemia potrebbe portarci a riflettere sull’esigenza di fare educazione alla morte, fin da bambini, a tutti i cittadini. Insieme all’educazione civica. Perché solo un individuo consapevole della propria finitezza può diventare un cittadino responsabile.

Che ne pensate?

 

 

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La cura come valore, di Marina Sozzi

8 Giugno 2020/12 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

L’esperienza del Covid ci ha messi di fronte a un’evidenza: siamo fragili, vulnerabili in quanto umani, esposti alla sofferenza e alla morte, e quindi tutti bisognosi di cura. Vorrei che non intendessimo la cura solo in senso sanitario. Il Covid ci ha infatti anche permesso di comprendere una questione molto rilevante, che la cura è un concetto ampio, che implica relazionalità e reciprocità: la cura degli altri e la cura di sé sono due facce della stessa medaglia. La questione delle mascherine, che non tutti colgono, è proprio questa: se tutti la portiamo siamo tutti protetti, tutelando gli altri proteggiamo noi stessi. Questo è un bell’esempio del funzionamento della cura. Facciamone un altro: il tema del surriscaldamento del pianeta. Se ce ne prendiamo cura, se cerchiamo nel nostro piccolo di far parte della soluzione di questo abnorme problema, se scegliamo ad esempio mezzi di trasporto sostenibili, se riduciamo lo spreco di acqua, se mangiamo meno carne e utilizziamo prodotti ecologici, ne beneficeremo noi insieme a tutto il resto del genere umano. Siamo connessi.

Ma cosa è la cura? Joan Tronto, filosofa femminista americana, la definisce come: “una pratica, volta a mantenere, continuare o riparare il mondo.”

Cura quindi non è solo cura delle malattie. Cura è l’allevamento dei figli, l’aiuto prestato agli anziani, l’istruzione, la formazione, lo sviluppo della persona. Cura è la pulizia delle nostre case e delle nostre città, cura è la salvaguardia della terra… eccetera. La cura è un aspetto universale della vita umana: tutti gli esseri umani hanno bisogni che possono essere soddisfatti solo mediante l’aiuto degli altri. Chi presta cura è consapevole del valore di questa pratica. Ma nella nostra cultura chi fornisce lavoro di cura è sovente svalutato e sottopagato. Badanti, OSS, infermieri, insegnanti. Parallelamente, chi ha maggiori esigenze di cura è sovente emarginato e implicitamente disprezzato in quanto “bisognoso”.

Perché questa svalutazione? Ci sono molti e complessi motivi, mi limiterò a indicare il più rilevante. Si tratta dell’idea dell’autonomia dell’individuo come valore assoluto. Questo valore è molto condiviso: si pensi solo al mito del self made man, che si è costruito con le sue sole forze una vita e una carriera di successo. È un mito che si forma a partire dall’oblio del contributo che gli altri (il contesto in cui siamo inseriti) danno alle nostre realizzazioni. D’altra parte, se l’autonomia e l’indipendenza sono un valore assoluto, la dipendenza sarà vista come disvalore: chi è bisognoso di cura viene sminuito. Qui intervengono, accanto all’oblio, anche plurime forme di negazione: negazione della malattia e della vecchiaia, negazione della vulnerabilità, negazione della morte. Eppure, nonostante le illusioni dei nostri contemporanei, verrà un momento in cui anche il più autonomo degli individui avrà bisogno di aiuto. Ciascuno è dipendente e indipendente al contempo, in vari momenti della vita, e questa situazione si può definire come interdipendenza degli uomini tra loro. La cura ci permette di avere l’autonomia come obiettivo, ma senza emarginare e svalutare la dimensione umanissima della dipendenza. L’autonomia e l’indipendenza degli individui sarebbe peraltro un valore accettabile, a patto che non si smarrisca la coscienza che è attraverso la cura che si può raggiungere, insieme, il maggior grado di autonomia possibile. A partire da questa consapevolezza, che scardina la serie di negazioni a cui si faceva riferimento sopra, chi cura potrà avere una diversa considerazione sociale. Ho un sogno, quindi, ed è che la cura possa diventare un valore sociale condiviso, e smetta di essere un lavoro che si svolge nell’ombra, in dimensione privata, fornito da membri svantaggiati della società a beneficio di coloro che possono pagare per procurarselo. Questa argomentazione meriterebbe più ampie riflessioni, ma lo spazio di un post non mi permette di dilungarmi. Sono certa che voi, con le vostre considerazioni ed esperienze, aggiungerete molto a ciò che ho pensato.

Ancora una cosa. Abbiamo un modello che ci permetta di intuire cosa potrebbe essere la dimensione della cura come valore? A mio modo di vedere sì. Il modello è quello delle cure palliative, più efficace del modello della relazione madre bambino, di solito citata come esempio di cura per antonomasia.

Le cure palliative si muovono nel territorio più delicato, quello della prossimità alla morte, e proprio per questo hanno maturato un atteggiamento e delle competenze fondamentali: la consapevolezza della vulnerabilità e la capacità di stare accanto alla sofferenza, l’attenzione per chi riceve la cura (il paziente al centro), la valorizzazione delle capacità residue e delle relazioni, il rispetto per la dignità e l’ascolto, la delicatezza, l’empatia, la presenza, la vicinanza. Queste caratteristiche, che definiscono la buona cura, si riflettono su chi presta la cura. Le équipe di cure palliative valorizzano tutti i ruoli di cura, dal medico al volontario, riconoscendo a ciascuno il valore della sua competenza concreta. Il punto di forza delle cure palliative consiste proprio in questo, la dimensione dell’équipe: la condivisione permette di sostenere chi trova difficoltà nel suo lavoro di cura, minimizzando l’impatto delle debolezze individuali e permettendo a ciascuno di dare il meglio.

 

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Death positive generation: i Millennials hanno meno paura della morte? di Davide Sisto

26 Febbraio 2020/7 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Lo scorso 22 gennaio, la giornalista Eleanor Cummins ha pubblicato un interessante articolo sulla rivista online Vox.com, in cui definisce i Millennials americani come “death positive generation”. Sostiene, cioè, che le generazioni più giovani, a differenza dei boomer, abbiano meno timore a parlare della morte, a pianificare anticipatamente il proprio funerale e le proprie memorie, nonché a predisporre il testamento biologico (l’articolo – in lingua inglese – può essere letto qui).

Cummins riporta uno studio del 2017, pubblicato sulla rivista Health Affairs, il quale evidenzia come solo un americano adulto su tre pianifichi le proprie volontà in caso di malattia o di morte prematura. Addirittura, solo il 21% degli americani adulti predispone con i familiari i riti funebri da osservare e la divisione dei suoi beni post mortem. Sembra che le persone nate negli anni Cinquanta e Sessanta siano ancora profondamente segnate dal processo di rimozione sociale e culturale del morire, per cui continuano a tenere la morte a debita distanza.

In contrapposizione a ciò, sono indicati numerosi esempi e studi che, invece, dimostrano una maggiore consapevolezza giovanile del ruolo della morte all’interno della vita e, dunque, la necessità di prendere decisioni anticipate. Da una parte, vengono menzionati i risultati di uno studio, condotto da un ricercatore della California State University Long Beach, relativo alla capacità di ottantaquattro Millennials di parlare liberamente della morte. Da un’altra, sono descritte una serie di iniziative giovanili, sviluppate per lo più online, le quali sono finalizzate a facilitare la gestione delle attività post mortem, in caso del lutto di un parente, o semplicemente a discutere senza eccessivo timore della perdita di una persona amata o della propria mortalità.

La giornalista riconduce questo cambiamento in corso a due principali fattori: il primo riguarda la precarietà economica ed esistenziale delle generazioni più giovani, le quali – volenti o nolenti – si sentono più predisposte ad affrontare gli aspetti dolorosi della vita. Il secondo riguarda, invece, la presenza massiccia delle tecnologie digitali nella vita dei Millennials, in grado di offrire spazi inediti per discutere degli argomenti considerati generalmente tabù. Dal mio punto di vista, trovo una consonanza con il ragionamento esposto nell’articolo, se penso a un semplice esperimento che ho svolto recentemente online. Digitando su YouTube, in inglese, i termini appropriati per indicare – per esempio – la perdita di un genitore, ho trovato oltre 230.000 video. Soprattutto di adolescenti che raccontano la loro esperienza. C’è un video di una adolescente italiana che racconta la morte di sua madre. Il video supera il milione di visualizzazioni e conta oltre diecimila commenti. Un simile supporto – più o meno superficiale – latita del tutto nella dimensione offline.

Se teniamo poi conto dell’incredibile successo avuto da Caitlin Doughty, menzionata nell’articolo di Cummins e di cui si è occupato anche il nostro blog (qui trovate tutti i riferimenti necessari), possiamo veramente cogliere delle differenze generazionali in merito al rapporto con il fine vita e con il lutto.

Detto questo, a mio avviso, è necessario aggiungere alcune considerazioni fondamentali: in primo luogo, i Millennials, essendo nati tra il 1981 e il 1996, non sono più la generazione degli adolescenti. Quindi, l’analisi dei cambiamenti in corso deve considerare anche le differenze sostanziali tra i Millennials e le generazioni successive, di modo da avere un quadro aggiornato e puntuale. In secondo luogo, sarebbe interessante capire se le osservazioni svolte nei confronti dei giovani americani valgono anche nel resto del mondo occidentale. In terzo luogo, infine, bisogna monitorare con attenzione il modo in cui le tecnologie digitali mediano il legame tra le generazioni più giovani e il fenomeno della morte. Motivo per cui è sempre più utile porre al servizio di psicologi, operatori sanitari, educatori, ecc. figure professionali esperte delle tecnologie digitali attualmente in uso.

Aggiungo una considerazione conclusiva. Se veramente c’è un atteggiamento più positivo nei confronti della morte, questo dipende dal lavoro svolto dai tanatologi e da tutti coloro che quotidianamente si impegnano a superare, nello spazio pubblico, la rimozione sociale e culturale del fine vita. Lavoro che andrebbe maggiormente considerato nei diversi percorsi di studio, sia in ambito scientifico sia in ambito umanistico, di modo che in un futuro prossimo tutti i cittadini siano in grado di scendere a compromessi con la propria mortalità.

Voi cosa ne pensate? Vi pare che ci sia questo cambiamento in corso? Attendiamo i vostri commenti.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault-e1582707988308.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-02-26 10:11:542020-02-26 10:11:54Death positive generation: i Millennials hanno meno paura della morte? di Davide Sisto

Fare ricerca in cure palliative, intervista a Simone Veronese, di Marina Sozzi

6 Dicembre 2019/2 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Troppo spesso in Italia si pensa alle cure palliative con un significato simile a quello dell’italiano “è un palliativo”, serve a poco, non serve. O addirittura i più giovani ignorano il senso della parola. Abbiamo intervistato il dottor Simone Veronese, medico palliativista e ricercatore di Fondazione Faro, per comprendere meglio l’alto livello di scientificità delle cure palliative, e l’esigenza di una loro ampia diffusione.

Che cosa vuol dire fare ricerca in cure palliative?

 La ricerca in cure palliative è tutta da costruire in Italia: i centri di ricerca in cure palliative ci sono, ma sono molto localizzati, non sono universitari, e quindi bisogna andare a studiare all’estero. Inoltre, ci sono poche risorse e molto bisogno di clinica, così è difficile che qualcuno ti offra lo spazio e le risorse per fare ricerca, e per questo sono molto grato a Fondazione Faro, che mi ha supportato moltissimo. Io ho fatto un PhD in Inghilterra, dove ho avuto un’ottima formazione su cosa è e come si fa la ricerca in cure palliative.
In Italia anche il master universitario, che dovrebbe già essere un percorso di ricerca, è invece un percorso formativo, che si fa per diventare “più bravo” a fare il medico, l’infermiere o lo psicologo. Il master in Italia è come una scuola di specializzazione, dà delle competenze per fare i clinici, mentre, secondo me, questo non dovrebbe essere l’obiettivo principale di un master. Per di più, dopo il master non c’è più nulla in Italia, non esistono dipartimenti di cure palliative.

Raccontaci questa tua esperienza in Inghilterra: tu sei stato un precursore, sei stato forse il primo a parlare di cure palliative per i malati di malattie neurologiche.

 E’ stata la più bella esperienza che io abbia mai fatto dal punto di vista formativo e di ricerca. Sono andato in Inghilterra dopo avere fatto un master all’Università di Torino. Ho avuto la fortuna, prima di iniziare il dottorato, di partecipare a un corso residenziale in cure palliative, sempre in Inghilterra, con i massimi esperti inglesi. Lì ho conosciuto dei veri ricercatori, tra cui anche il mio mentore, David Oliver, dell’University of Kent, che è stato allievo di Cicely Saunders, e si è occupato di cure palliative nella SLA e poi in neurologia; e Irene Higginson, direttrice del Cicely Saunders Institute al King’s College di Londra, che è il centro più avanzato nel trovare le evidenze e le prove di efficacia in cure palliative. A me interessavano le cure palliative non oncologiche, eravamo all’inizio del 2000, quindi prima della legge 38 del 2010. Allora le cure palliative erano solo per i malati di cancro. La domanda era: le cure palliative sono efficaci nei malati non oncologici? Mi sono focalizzato sulle malattie neurodegenerative. Abbiamo fatto il primo studio randomizzato mondiale per vedere se le cure palliative fossero, anche in quel contesto, in grado di migliorare la qualità della vita, il controllo dei sintomi, il supporto ai familiari.

Al congresso della Società Italiana di Cure Palliative, quest’anno, hai portato un lavoro sulla valutazione della qualità delle cure palliative. Come si fa questa valutazione della qualità e perché è importante?

 Questo è un aspetto che mi interessa tantissimo. Ci sono alcuni “indicatori”, ossia parametri che dovrebbero essere oggettivi e confrontabili, attraverso i quali valutare la qualità di ciò che si sta facendo. Il più importante è il cosiddetto outcome, in italiano esito: significa che dobbiamo misurare la differenza che le cure palliative fanno rispetto ai loro obiettivi: la miglior qualità della vita possibile per il malato e per la famiglia e il minor carico possibile di sintomi e di problemi che siamo in grado di controllare. Per tutto questo occorrono strumenti di misurazione validi e affidabili, cioè in grado di cogliere i cambiamenti che avvengono nel paziente, e non dipendenti dall’operatore che li usa. In Italia ci accontentiamo troppo spesso della soddisfazione dell’utente per valutare la qualità, ci basta sentirci dire che siamo “angeli”.
Ma c’è una scienza su cui fondarsi. Abbiamo validato uno strumento che si chiama IPOS (Integrated palliative outcome scale) che è il più completo strumento di valutazione dei bisogni in cure palliative e consente di quantificare i bisogni di un paziente e della sua famiglia e di fare un programma (c’è bisogno di cure palliative in hospice? di cure specialistiche? o bastano le cure palliative di base?).  Questo strumento è validato a livello internazionale, e ci aiuta a capire quanto il servizio che stiamo fornendo riduca o meno il carico di bisogni, e quindi abbia un impatto sulla qualità della vita. Naturalmente è necessario un percorso di formazione per capire come si usa, come si valutano i risultati e come si passa da questi ultimi alla pianificazione dell’assistenza (PAI, pianificazione individuale dell’assistenza). E’ uno strumento che va somministrato la prima volta appena si conosce un paziente, se si vuole valutare l’impatto del servizio sui bisogni di quel paziente. Successivamente, quando si fa un intervento, occorre valutarlo. Siccome i bisogni si dispongono su vari livelli, secondo la piramide di Maslow (prima quelli fisiologici e poi gli altri), è normale che chi ha dolore, mancanza di fiato, non dorma di notte, sia focalizzato su questo. Sembra magari che non ci siano problemi relazionali o di tono dell’umore. Invece si scopre che ci sono, ma sono nascosti, ed emergono solo dopo che abbiamo controllato il dolore: ciò significa che c’è ancora bisogno di cure, ma bisogna cambiare il tipo di intervento.
Noi in Piemonte lavoriamo ancora con una delibera regionale che dice che in hospice si accede se l’aspettativa di vita non è superiore a 4 mesi: invece le cure palliative devono essere fornite in base ai bisogni, non alla diagnosi o alla prognosi. Se un paziente ha un’aspettativa di vita lunga ma ha molti bisogni, occorre offrirgli cure palliative, anche in hospice, magari solo per 15 giorni. Ma in quei 15 giorni dobbiamo fare la differenza.

Quali sono le prospettive e le priorità in Italia?

 In Italia vi sono diverse sfide per il futuro. C’è un indice mondiale di qualità della morte. L’Italia è sotto la metà, a livello di paesi dell’Africa, che hanno risorse completamente diverse: dobbiamo fare molta strada.
La prima sfida è lo sviluppo delle cure palliative di base, che di fatto non esistono. Le équipe di cure palliative specialistiche, come la Faro, dovrebbero supportare e formare gli operatori in tutti i setting di cura. In primo luogo nelle case di riposo, che sono luoghi dove le persone vivono e poi muoiono. Occorre immaginare quali pazienti moriranno nei successivi sei mesi, e pianificare con gli operatori delle RSA il percorso da farsi, seguendo le Direttive Anticipate di Trattamento qualora ci siano, e parlando con il paziente, e con i familiari, soprattutto se vi sono demenze. Occorre lavorare sull’empowerment degli operatori, affinché sappiano cosa devono fare. Dove è stata fatta questa esperienza, si è ridotta drasticamente la morte in ospedale, e sono migliorati il controllo dei sintomi e il lutto dei familiari. Inoltre si è ridotto il turnover degli operatori, che erano meno stressati e lavoravano meglio. Ad esempio, sei mesi prima che una persona smetta di deglutire, occorre spiegare che questo succederà, ma non significa che la persona morirà di fame, e quindi non si dovrà mettergli un tubo per alimentarlo, e inoltre non è obbligatorio trattarlo in modo aggressivo se avrà un’infezione. Per gli operatori di cure palliative specialistiche è una grande sfida, perché sono abituati a lavorare con i pazienti, meno a lavorare con questo stile collaborativo, facendo la supervisione di altre équipe. Le cure palliative specialistiche non possono raggiungere tutte le persone, ma occorre fare in modo che tutti possano morire bene. A tale scopo, occorre anche che le istituzioni impongano alle case di riposo di fare questo tipo di formazione per essere accreditati.

Altra sfida è l’integrazione con altri specialisti. La Società Italiana di Cure Palliative sta lavorando con altre società scientifiche, e i risultati sono notevoli. Abbiamo pubblicato un documento di consenso con la Società Italiana di Neurologia, e questo sta avendo un importante impatto, i neurologi stanno cominciando ad autoimporsi una formazione in cure palliative. Con gli pneumologi anche, stiamo facendo un grande lavoro: anni fa non sapevano nulla del controllo della dispnea con la morfina. Oggi tutti i pazienti pneumologici che arrivano a noi hanno già la morfina. Anche i rianimatori hanno capito che si devono concentrare su pazienti che hanno buone possibilità di recupero, mentre gli altri non devono neppure entrare in rianimazione, devono avere percorsi di palliazione.

E’ anche questione di cambiare la mentalità. Dato che la mortalità riguarda il 100% degli esseri umani, la qualità della vita e la qualità della morte devono essere al centro dell’attenzione. Il che è difficile finché rimuoviamo la morte.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/12/Depositphotos_96658970_s-2019-e1575483695381.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-12-06 09:58:532019-12-06 09:58:53Fare ricerca in cure palliative, intervista a Simone Veronese, di Marina Sozzi

A che punto siamo con la negazione della morte? Prima puntata: i riti, di Marina Sozzi

1 Novembre 2018/10 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

A che punto siamo con la negazione della morte? E’ una domanda che un tanatologo, di tanto in tanto, deve porsi. Questa volta l’interrogativo è stato stimolato anche dalla lettura dell’ultimo libro del sociologo Marzio Barbagli, Alla fine della vita, che afferma che la società moderna non nega e nasconde la morte più di quelle che l’hanno preceduta. Non sono per niente d’accordo con lui, e ho l’impressione che il libro voglia essere una provocazione, ma non sia del tutto equo nei confronti del profluvio di studi e riflessioni che, in tutto il mondo occidentale, hanno esaminato i molteplici significati dell’impasse dei nostri contemporanei non solo di fronte al morire, ma anche dinanzi al soffrire. Sembra che Barbagli voglia un po’ “liquidare” la tesi della negazione della morte, più di quanto non intenda riesaminarla.

Io vorrei, invece, affrontare la domanda sulla negazione della morte come se fosse una domanda nuova, senza dare per scontate le risposte che ho dato in passato. Sono ormai venticinque anni che mi occupo di questi temi, e vi propongo di guardare a ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio. La situazione è migliorata? E’ peggiorata? Il discorso è lungo, e comincio oggi proponendovi un tema specifico, quello dei riti funebri.

I riti funebri sono semplicemente cambiati, come dice Barbagli, o c’è una povertà rituale oggi in Italia? Che le modalità di sepoltura siano cambiate è un dato: nel 2016 (ultimi dati disponibili) è stata scelta la cremazione dal 23% delle persone, l’inumazione dal 33% e la tumulazione dal 44%. La scelta cremazionista cresce, per ragioni in parte culturali e in parte economiche. Non credo né ho mai creduto che l’aumento della cremazione, in Italia come in altri paesi, sia sintomo di una deritualizzazione.
Al contrario, nei luoghi in cui è stato proposto un rito del Commiato per accompagnare l’affidamento della salma al crematorio, si è fatta un’importante operazione culturale: far riflettere i familiari sull’esigenza di un addio che abbia una struttura rituale, ma che corrisponda anche al desiderio di personalizzazione molto diffuso in Occidente: una poesia, una musica, qualche parola in memoria del defunto pronunciata da chi lo ha amato. Nei crematori dove c’è stata l’offerta di un rito, la popolazione ha maturato anche la capacità di celebrarlo a immagine e somiglianza del morto. Stiamo parlando, però, di una minoranza. C’è un’altra minoranza che pensa per tempo al rito funebre: quella di coloro che, avendo avuto accesso per tempo a buone cure palliative, hanno potuto conciliarsi con la propria morte e hanno dato istruzioni ai loro cari sulla cerimonia che desiderano.

La maggioranza delle persone, invece, si trovano in una situazione di impoverimento rituale. Pensano al rito funebre quando la morte di un congiunto è già avvenuta o sta per sopraggiungere. Allora chiamano le onoranze funebri e delegano loro quasi ogni decisione.
Così accade che molti non credenti si trovino impelagati in un rito cattolico. E forse anche la Chiesa cattolica si sta rendendo conto di quanti problemi ci siano nella celebrazione dei funerali religiosi con persone non religiose o blandamente credenti. I sacerdoti si accorgono che gli astanti non conoscono le formule di rito, non sanno quando alzarsi e sedersi, non conoscono le preghiere. Gli stessi operatori funebri si scandalizzano, inoltre, nel constatare che i partecipanti a molti funerali non riescono a sentire la solennità della morte, e si comportano in modo inappropriato.
Un problema a parte è costituito dalla scarsa offerta di spazi interculturali, dove sia possibile celebrare riti di altre culture o religioni. Ne ho parlato in alcuni miei libri e non vorrei dilungarmi su questo. Certo le cose non vanno meglio di qualche anno fa, né il clima di intolleranza che si va diffondendo nel paese fa presagire nulla di buono su questo fronte. Un’unica notazione positiva: la possibilità (che si sta cominciando a proporre) di assistere in streaming a funerali che si svolgono a migliaia di chilometri dal luogo dove si vive può essere uno strumento importante in un mondo globalizzato, anche se non sostituisce la presenza di persona.

Non è vero, come afferma Barbagli, che tutti i riti hanno perso terreno, e non solo quelli funebri. Forse in alcune nicchie intellettuali della mia generazione di baby boomers c’era un atteggiamento antiritualista, ad esempio ci si sposava in tono minore: era considerato più di buon gusto.
Oggi però i giovani sono tornati con entusiasmo al matrimonio tradizionale, anche quando si sposano civilmente, abito bianco, banchetto e torta nuziale, album di fotografie, bomboniere, (a testimonianza del loro/nostro bisogno di riti), e organizzano feste per il battesimo dei figli. Ma lo stesso non si può affermare per i funerali. Nessuno pensa di onorare la memoria di un defunto con un funerale importante.

Per quanto riguarda i cimiteri, continuano a essere luoghi poco frequentati, con l’esclusione delle persone in lutto e delle celebrazioni dei primi di novembre. Certo, nell’ultimo ventennio sono stati molto valorizzati i cimiteri monumentali, ma soprattutto dal punto di vista artistico-museale.
Invece le proposte innovative, che dovevano modificare il volto ai nostri luoghi dei morti (ad esempio i cimiteri arborei e altri progetti di parchi cimiteriali) non sono riusciti a sfondare, nonostante l’idea piaccia molto a tanti cittadini. Fiacchi i cimiteri virtuali, che pareva dovessero rappresentare il futuro, ma che non esistono quasi più. L’idea codice del Qr da mettere sulle tombe, per accedere a una realtà aumentata, e poter conoscere la storia della persona sepolta, benché interessante, ancora ha fatto poca strada. Intanto, continuiamo a avere cimiteri di loculi.

La commemorazione viaggia soprattutto sui social, Facebook in primo luogo. E’ accaduto che la rievocazione si sia spostata nel mondo virtuale, abbandonando parzialmente quello reale. Ma non mi spingerei a parlare di una nuova cultura funebre. Perlomeno, non ancora. La memoria veicolata dai social network è una memoria troppo carica di informazioni, troppo privata, e che privilegia l’aspetto della consolazione dei vivi rispetto a quello della memoria storica e sociale. E anche da questo punto di vista, manca l’aspetto concreto della presenza fisica degli altri nella vita di chi ha perso un congiunto. Certo, la presenza su Facebook è meglio di nulla. Ma è un succedaneo.

Non abbiamo, a mio modo di vedere, ancora trovato un rito che possa essere condiviso in una società complessa e plurale come la nostra. Cosa ne pensate? Vi sembra invece che nuovi riti si stiano sedimentando? Come vorreste che fosse il vostro rito funebre? I cimiteri sono ancora importanti?

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