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Tag Archivio per: memoria

La memoria delle vittime di femminicidio, di Cristina Vargas

8 Luglio 2024/1 Commento/in Riflessioni/da sipuodiremorte

In questo articolo vorrei esplorare il ruolo della scultura, la performance e altre manifestazioni artistiche dedicate alla memoria delle donne vittime di femminicidio, nella costruzione di una rappresentazione sociale della violenza di genere, un fenomeno che fino a pochi decenni fa non aveva nemmeno un nome proprio.

La storia della parola femminicidio è strettamente legata a quella di Ciudad Juarez, in Messico, ed è proprio lì che si sviluppano le prime espressioni artistiche legate a questo fenomeno.

Fin dai primi anni Novanta Ciudad Juarez divenne tristemente famosa per le centinaia, forse migliaia, di sparizioni di giovani donne, che talvolta ricomparivano morte, scaricate senza cerimonie dopo essere state brutalmente uccise. Si trattava di ragazze giovanissime, molte di loro minorenni, quasi tutte di classi sociali svantaggiate e spesso operaie presso le maquiladoras, grandi fabbriche in cui le multinazionali ancora oggi sfruttano a proprio vantaggio il basso costo della mano d’opera messicana. I loro corpi dilaniati raccontavano senza ombra di dubbio l’orrore dello stupro e della tortura, ma tutto avveniva, e in parte avviene tuttora, in un clima di completa impunità: nonostante le denunce delle famiglie – e delle madri in particolare – la verità non veniva cercata.

Di fronte a questi fatti, l’antropologa messicana Marcela Lagarde cominciò a usare  il termine “femminicidio”, una parola che aveva lo scopo di evidenziare come questi crimini non fossero atti isolati di violenza, ma fossero la conseguenza estrema di una cultura patriarcale pervasiva, strutturalmente radicata in una società che, per secoli, aveva negato i diritti delle donne e ne aveva costruito una rappresentazione subordinata e subalterna: proprietà dei maschi; oggetti, non soggetti, da dominare, controllare, sfruttare e “usare” a piacimento. A Lagarde va anche il merito di aver contribuito al riconoscimento del reato di femminicidio in Messico e nel Diritto Internazionale.

Nei primi anni duemila, grazie al lavoro tenace delle madri delle ragazze scomparse o uccise (raccolte nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa), nacque un movimento volto a ottenere giustizia e a generare una presa di coscienza pubblica sulla questione. Per segnalare visivamente i luoghi di ritrovamento delle donne uccise, le attiviste, insieme alle famiglie delle vittime, cominciarono a posare delle grandi croci rosa, una per ogni donna ritrovata: questa pratica venne vietata nel 2007, ma ha continuato ad essere portata avanti fino ad oggi.

Nel 2009 debuttò l’istallazione Zapatos Rojos (Scarpe rosse), diventata una vera e propria icona del movimento internazionale contro la violenza di genere. L’autrice, Elina Chauvet, racconta che, mentre conduceva dei workshop a Ciudad Juarez, era stata profondamente colpita dell’imponente numero di annunci di ragazze scomparse appesi nelle strade: giovani donne di cui non si parlava affatto nei media ufficiali. Sensibile al tema anche per ragioni personali (sua sorella era stata vittima di violenza domestica ed era stata uccisa dal marito), Chauvet decise che era necessario fare un lavoro artistico che non stesse nei musei, ma che fosse presente nelle strade, sotto l’occhio di tutti. Scelse dunque delle scarpe femminili che le erano state donate, ognuna in rappresentazione di una donna scomparsa; le tinse di rosso e le dispose lungo una delle strade principali, spostandole ogni giorno un po’ in avanti fino ad arrivare a El Paso. Le scarpe rosse avevano la potenza visiva di una marcia silenziose di donne assenti. L’istallazione, che avrebbe dovuto concludersi nel 2011, ma è cresciuta ed è stata replicata in molti paesi, compresa l’Italia.

Sebbene non ci sia ancora una tradizione consolidata di memorializzazione del femminicidio, negli ultimi anni sono sorti i primi monumenti commemorativi istituzionali per ricordare le vittime della violenza di genere. Si tratta certamente di un passo avanti nel riconoscimento pubblico di un tragedia finora scarsamente rappresentata, tuttavia, non sono mancate le polemiche: ci sono diversi monumenti che non hanno mai veramente raggiunto il loro scopo e che, al contrario, sono stati sentiti come tentativi di estetizzare la violenza o di mascherare l’assenza di risposte concrete a tutela delle donne da parte delle autorità. Uno di questi è il Memorial Campo Algodonero (Messico), inaugurato nel 2011 come parte di una serie di misure riparative richieste dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani, in seguito ad una storica sentenza contro lo Stato Messicano, ritenuto colpevole di non aver garantito il diritto alla vita e alla dignità delle vittime, né preso misure volte a prevenire le loro uccisioni. Per il monumento venne scelta una scultura di Verónica Leiton, che raffigura una donna che emerge da un fiore: questa immagine, in sé bella, è stata però sentita come incongrua e lontana dall’esperienza dei familiari delle donne uccise, che non erano stati coinvolti in nessuna delle decisioni relative al monumento, né in alcuna fase del processo creativo e hanno quindi scelto di non partecipare all’inaugurazione.

La tensione fra la memoria ufficiale e quella dei familiari coinvolti e degli attivisti ha portato allo sviluppo di veri e propri “antimonumenti”, che hanno la funzione non tanto di commemorare un fatto storico riconosciuto (come farebbe un monumento), ma di denunciare quelle situazioni in cui manca una risposta statale, decostruendo il diffuso clima di negazione che circonda la violenza sulle donne. Il movimento degli anti-monumenti è iniziato in America Latina e si è rapidamente diffuso a livello internazionale: i lucchetti e i fazzoletti fucsia con il nome delle donne uccise appesi dall’associazione Non una di meno in Piazza Santissima Annunziata (Firenze), recentemente oggetto di atti vandalici, sono uno degli esempi italiani di questa forma di espressione artistico-politica.

Le scarpe rosse, le croci rosa, gli antimonumenti, i Simboli di venere con il pugno alzato sono alcuni dei modi che, dal basso, sono stati scelti per restituire valore e dignità alle storie inascoltate delle vittime e per esigere dei cambiamenti strutturali. Essi non hanno forse la durata o la solennità dei tradizionali monumenti funebri, ma hanno la capacità di elicitare emozioni e di irrompere a sorpresa negli spazi della vita quotidiana per ricordarci quanto terreno ci sia da percorrere nella prevenzione di crimini che dovrebbero, e potrebbero, essere evitati.

E voi, che opinione avete su questi nuovi linguaggi di commemorazione?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/07/scarpe-rosse1.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-07-08 10:23:332024-07-08 10:23:33La memoria delle vittime di femminicidio, di Cristina Vargas

Le tecnologie digitali nei cimiteri: una svolta democratica nel ricordo? di Davide Sisto

13 Maggio 2024/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

L’edizione 2024 di Tanexpo, una delle più prestigiose esposizioni internazionali di arte funeraria e cimiteriale, che si tiene ogni due anni a Bologna, ha testimoniato – una volta per tutte – l’ingresso trionfale delle tecnologie digitali anche nel campo dei riti funebri. Una considerevole parte di Tanexpo è stata, infatti, dedicata a un numero ragguardevole di iniziative private volte a favorire una graduale digitalizzazione dei cimiteri. Da una parte, possiamo osservare in maniera nitida le conseguenze odierne del ruolo fondamentale rivestito in tutto il mondo dai funerali in streaming durante il Covid-19. Se la pandemia li ha resi dei surrogati necessari nel momento in cui non potevamo per legge uscire dalle nostre abitazioni nemmeno in vista di un ultimo saluto al proprio caro, oggi sono aumentate considerevolmente le start up che offrono la possibilità di partecipare a distanza ai funerali, tramite gli schermi, a prescindere dall’emergenza sanitaria. Il servizio è indirizzato, soprattutto, a chi non può per ragioni contingenti essere presente nel luogo dove si svolge il rito (per esempio, a causa di una lontananza geografica significativa o per una disabilità, o ancora per problematiche di natura giudiziaria). Dall’altra, è possibile notare quante società private stiano investendo sui QR Code da posizionare sulle lapidi, di modo da creare un collegamento tra il cimitero e i luoghi online più rappresentativi del defunto, o su applicazioni per mobile device intente a riprodurre digitalmente la mappa dei cimiteri, consentendo ai cittadini di trovare più agilmente la tomba della persona amata. Al tempo stesso, queste applicazioni permettono di prolungare online i riti del commiato, tramite bacheche in cui ogni individuo può lasciare fiori e candele virtuali, nonché scrivere qualche ricordo specifico relativo al defunto.

Funerali in streaming, QR Code sulle lapidi, applicazioni per mobile device intente a fornire servizi funebri nella dimensione online: l’insieme di queste iniziative testimonia, a mio avviso, come la crisi assodata del cimitero tradizionale sia strettamente legata al bisogno collettivo di personalizzare il rito funebre. Questo bisogno corrisponde, di fatto, alle caratteristiche generali assunte dalle nostre società connesse e secolarizzate: l’abitudine decennale di utilizzare i social media, creando profili a cui far corrispondere la propria irripetibile biografia, ci ha spinto a non accettare più il carattere anonimo delle lapidi tradizionali, indistinguibili l’una dall’altra. Già negli anni Settanta antropologi rinomati come Louis -Vincent Thomas erano convinti che l’evoluzione tecnologica avrebbe portato implicitamente in primo piano il desiderio di democratizzare il ricordo, non rendendo duratura la sola memoria delle persone che si sono distinte in vita per meriti specifici o, semplicemente, che si possono permettere il lusso di acquistare a tempo indeterminato spazi all’interno dei cimiteri. Oggi, questo duplice processo di personalizzazione e di democratizzazione del rito e del ricordo è già ampiamente messo in moto, per esempio, dai funerali laici, dalla cremazione, dalla dispersione delle ceneri, leggi locali permettendo. Le tecnologie – come quella del QR Code sulla lapide – non fanno altro che portare alle estreme conseguenze la volontà di mantenere una propria unicità, ben rimarcata, anche dopo la propria morte. E i dibattiti sui social in merito a queste esigenze sono alquanto significativi: su Tik Tok, per esempio, a proposito del QR Code sulle lapidi c’è chi già immagina di imbastire il blog in cui lasciare le proprie ricette culinarie o in cui fare sfoggio delle proprie abilità fotografiche, conservando le fotografie scattate durante i propri viaggi nel mondo. Si comincia, in altre parole, a pianificare un’eredità specifica, legata alle proprie soggettive prerogative, da unire alle classiche informazioni di rito conservate nei cimiteri.

Questo cambiamento culturale potrebbe spingere i cimiteri, capaci di mettere a frutto le inedite esigenze dei cittadini contemporanei, a trasformarsi in veri e propri musei delle memorie popolari. In tal modo, potrebbero modernizzare il loro ruolo all’interno delle nostre città, recuperando una funzione che pare obsoleta in un’epoca storica in cui è sempre più ridotto il numero di chi associa il cimitero al luogo in cui si trova il proprio caro.

Voi cosa ne pensate di queste innovazioni tecnologiche? Troppo slegate dalle tradizioni acquisite? Oppure, semplicemente – come, ad esempio, io penso – la normale evoluzione di un percorso storico segnato dalla tecnologia? Attendiamo con interesse i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/qr-code-memorials-copia.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-05-13 09:50:482024-05-13 09:50:49Le tecnologie digitali nei cimiteri: una svolta democratica nel ricordo? di Davide Sisto

Le parole personalizzate del ricordo, di Davide Sisto

25 Luglio 2022/7 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

In giugno a Bologna ho avuto il piacere di partecipare in qualità di relatore a un convegno che si è svolto all’interno della fiera “Devotio. Esposizione internazionale di prodotti e servizi per il mondo religioso”. Questo convegno, che ha coinvolto sociologi, esperti di storia delle religioni e di architettura sacra, nonché importanti esponenti del mondo cristiano, si è soffermato sulla metamorfosi contemporanea degli spazi e delle parole della memoria cristiana nei cimiteri. In particolare, i vari interventi hanno cercato di comprendere se il tema della Risurrezione sia ancora presente negli spazi e nelle parole che caratterizzano i luoghi dei defunti, analizzando le trasformazioni rituali e culturali del XXI secolo. L’aspetto certamente più interessante che ne è emerso, rappresentando di fatto il filo rosso dell’intero convegno, è l’ineludibile incidenza delle tecnologie digitali attualmente in uso sulle ritualità funebri cristiane.

L’iperconnessione, se da una parte è diventata una questione di natura intergenerazionale, dall’altra intercetta il fine vita sotto molteplici punti di vista. Lo abbiamo più volte evidenziato all’interno di questo blog, partendo – per esempio – dal fatto oggettivo che sono decine di milioni i profili social attivi degli utenti deceduti. Ora, l’abitudine a disporre di spazi personali tramite cui esporre pubblicamente le caratteristiche e le passioni della propria vita intercetta e condiziona la dimensione del ricordo.

Detto in altre parole: più viviamo all’interno di un contesto pubblico in cui si antepongono i bisogni del singolo individuo a quelli della collettività, qualunque sia il modo in cui venga intesa, più si cerca di personalizzare il rito funebre. Questo lo possiamo constatare, per esempio, quando visitiamo le nuove sezioni dei cimiteri cittadini. Vi è un evidente incremento di lapidi che non si limitano a fornire solo indicazioni canoniche riguardo alla vita del defunto (data di nascita e di morte, a volte l’attività lavorativa e poco altro). Si tende, cioè, a mettere il visitatore del cimitero nella condizione di conoscere meglio le prerogative del defunto: pertanto, sono sempre più numerose le lapidi con sciarpe o magliette della squadra del cuore, macchinine in miniatura per ricordare la passione dell’automobilismo, addirittura bottiglie di birra o immagini relative a località geografiche particolarmente amate.

Non è un caso che ciò succeda nell’epoca dei social media e in una fase del tutto peculiare della secolarizzazione. L’antropologo Louis-Vincent Thomas, nel suo libro Antropologia della morte (1976), sosteneva con encomiabile lungimiranza che l’evoluzione tecnologica, con la conseguente personalizzazione degli spazi digitali a disposizione, avrebbe determinato la nascita di vere e proprie mnemoteche elettroniche della memoria. “Autentici monumenti psichici” che, situandosi perfettamente entro la linea tradizionale, ravvivano il ricordo del morto, “attualizzandone ininterrottamente le informazioni da lui lasciate in eredità”, perfezionano quindi il rispetto dei resti corporei e permettono una democratizzazione della memoria: “fanno entrare il più umile degli uomini e il più eminente nello stesso monumento comune, poiché entrambi sono partecipi della stessa struttura, simbolo del corpo mistico dell’umanità”.

Non stupisce pertanto il collegamento stabilito dalle parole del ricordo tra le lapidi nei cimiteri e i profili social: è ormai capillarmente diffuso il bisogno di parlare con i morti sia all’interno dei loro profili pubblici sia in quelli privati. Le parole utilizzate in questi spazi ibridi riproducono molto spesso le formule e le immagini canoniche della tradizione cristiana: ricorrenti, per esempio, sono i riferimenti alla collocazione in Paradiso o le immagini degli angeli associate al caro estinto.

Questo particolare processo di digitalizzazione delle parole della memoria si accompagna alla trasformazione dei luoghi cimiteriali. Come è stato evidenziato durante il convegno, la trasposizione simbolica del cimitero nei social va di pari passo con nuove forme di architettura cimiteriale, le quali rispecchiano le esigenze individuali. Ecco, quindi gli spazi cimiteriali che includono le urne biodegradabili su cui vengono piantati degli alberi, le vesti funebri che nel tessuto ospitano le spore di vari tipi di funghi, le urne in bioplastica, ecc.

Questo cambiamento, amplificato da iniziative come la digitalizzazione dei cimiteri portata avanti dalla Church of England, di cui ho parlato nel blog recentemente, solleva numerosi interrogativi che riguardano la relazione tra i singoli individui e la fede religiosa. Non volendo addentrarmi in questo territorio, mi limito a sottolineare come sia importante tener conto della metamorfosi relazionale tra i vivi e i morti all’interno di una società che si concentra – nel bene o nel male – sull’esigenza individuale. È importante affinché non vi sia uno scollegamento tra i bisogni dei dolenti e le autorità e le comunità adibite alla gestione delle ritualità funebri.

Voi cosa ne pensate? Ritenete sia doveroso favorire la dimensione individuale e personalizzata del ricordo a prescindere dai riti canonici e tradizionali? Attendiamo, come sempre, i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/07/cimitero-latina-e1658677824156.webp 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-07-25 09:03:392022-07-25 09:03:40Le parole personalizzate del ricordo, di Davide Sisto

La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

3 Giugno 2022/3 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Come antropologa mi sono a lungo interrogata sul tema della morte e sui diversi modi in cui le varie società umane conferiscono significato e ritualizzano il fine vita. Uno dei primi popoli presso cui ho avuto l’opportunità di svolgere ricerche etnografiche sono i wayuu, una delle più grandi comunità indigene della Guajira Colombiana e del Venezuela.

Quando giunsi per la prima volta nella Guajira, più di quindici anni fa, il mio obiettivo prioritario era quello di documentare la storia del massacro di Bahía Portete, avvenuto nell’ambito del conflitto armato colombiano. Questo massacro fu uno dei più drammatici eventi di violenza estrema ai danni dei wayuu durante l’espansione dei gruppi paramilitari nell’Alta Guajira, il loro territorio ancestrale. Il bilancio delle vittime non è mai stato chiarito ufficialmente, ma si parla di oltre cinquanta persone uccise, sottoposte a brutali mutilazioni e torture. Il cimitero, inoltre, fu brutalmente profanato e le ossa furono dissotterrate. Nel clima di negazione che caratterizzava quegli anni, la commissione che curò l’indagine escluse ogni responsabilità dello Stato e identificò come causa del massacro le dispute interne fra le famiglie indigene, coinvolte nella lotta per il controllo del traffico di benzina, droga e armi. Le vittime, insomma, vennero colpevolizzate in virtù della loro storia di regolazione autonoma dei conflitti interni e il governo – più volte sotto accusa non solo per la sua incapacità di proteggere i popoli nativi dalla violenza paramilitare, ma addirittura per la loro collaborazione con questi gruppi – se ne lavò le mani. Per contrastare questa lettura, nel mio lavoro (come in quello di altri studiosi e attivisti che si sono concentrati su questo caso), divenne prioritario conoscere l’organizzazione sociale wayuu e, nel farlo, ho realizzato che i riti funebri erano una vera e propria chiave di volta per comprendere la cultura e la storia di questo popolo.

Il ciclo della ritualità funebre wayuu è molto lungo ed è articolato in due grandi riti.

Subito dopo il decesso si svolge il primo funerale, che dura sette giorni e sette notti. Seduta sulla sua amaca Maria Apushana, una delle anziane del piccolo villaggio dove alloggiavo, descriveva questo rito come una grande celebrazione, con duecento, trecento invitati. Con orgoglio, l’anziana raccontava il grande funerale che era stato organizzato in onore di suo nonno; del suo viaggio per raggiungere il villaggio in cui si sarebbe svolta la veglia; delle amache che ognuno appendeva per dormire; delle moltissime capre che erano state sacrificate e mangiate dagli ospiti (e che avrebbero accompagnato lo spirito del defunto nell’aldilà); dei liquori – la chicha e il chirrinchi – che bevevano gli uomini mentre raccontavano aneddoti e ricordavano il defunto e, soprattutto, dei pianti cadenzati e ritmici che lei e le altre donne avevano intonato ininterrottamente, per non lasciare mai da solo il nonno nel suo viaggio. Al termine, come è consuetudine, il cadavere era stato temporaneamente seppellito in un cimitero vicino al luogo del decesso.

Il primo funerale è un evento importante della vita sociale di tutto il gruppo familiare. Nei funerali, più che in qualsiasi altra occasione, è essenziale dimostrare la generosità della propria famiglia e invitare qualcuno al proprio funerale futuro è ritenuto un gesto di cortesia, ospitalità e amicizia.

Dopo un lasso di tempo che può variare da due a sei – sette anni, quando si sono conclusi i processi di decomposizione e sono stati radunati i soldi necessari, viene realizzato il secondo funerale. Le ossa  vengono riesumate, lavate con cura e, dopo una veglia di nove notti a cui partecipa solo il gruppo familiare ristretto, vengono trasferite al cimitero del clan matrilineare o apushi. Questo luogo ha un’importanza fondamentale perché non solo sancisce sul piano simbolico il legame fra il clan e il suo territorio, ma ne attesta l’effettiva proprietà al pari di un documento catastale. Quando un defunto viene seppellito in un luogo lontano da quello del proprio clan, cosa molto frequente data l’elevata mobilità del popolo wayuu, è un dovere sociale portare via i resti dal cimitero in cui erano state temporaneamente deposte per ricollocarle nel cimitero del suo apushi: se non lo si fa, “qualcuno” potrebbe pensare che si stia cercando di avanzare delle pretese su quella terra. La distruzione del cimitero e la profanazione delle tombe che ebbe luogo nel drammatico momento del massacro aveva quindi un significato ben preciso: si è trattato di un’aggressione contro la sfera simbolico-culturale e contro il legame fra questo popolo e il territorio.

Il doppio funerale è un tema classico dell’antropologia della morte. Robert Hertz, allievo di Émile Durkeheim e uno dei primi antropologi a occuparsi in modo sistematico delle rappresentazioni collettive della morte, analizzò il rito della doppia sepoltura in area indonesiana, soffermandosi in particolare sulle tradizioni dei Dayak del Borneo. Hertz osservò che mentre nel mondo Occidentale la morte era per lo più intesa come un evento puntuale, collocabile nel preciso istante dell’ultimo respiro, per questo popolo la morte era invece pensata come un processo piuttosto lungo, che si sovrapponeva solo in parte al momento della morte biologica.

Anche nel ciclo funebre wayuu la simbologia e la ritualità rimandano a un’idea di transito, di viaggio, di trasformazione. Le due fasi del ciclo rituale infatti rispecchiano l’idea di una morte che avviene in due fasi. La morte fisica è considerata la “prima morte” del soggetto, durante la quale si verifica una separazione dello spirito dal corpo del defunto. Poche ore dopo il decesso, lo spirito diventa yoluja e inizia a percorrere il “sentiero degli indiani morti” che porta a Jepirra, il luogo dei morti. Sebbene “sopravviva” alla separazione dal corpo, l’anima, per i wayuu, non è immortale. La “seconda morte” o la “morte definitiva” della persona, come in molte culture di area Mesoamericana, corrisponde al sopravvento dell’oblio. Il yoluja (ovvero l’anima, lo spirito) muore quando nessuno fra i vivi ricorda più quella particolare persona e si sono dunque perse le tracce della sua individualità. Il secondo funerale e il sopravvento dell’oblio sono due eventi che non coincidono a livello temporale, ma che hanno un significato sociale per certi versi simile, nel senso che in entrambi i casi hanno a che fare con l’individualità che scompare per dissolversi in una dimensione collettiva.

Poiché il yoluja può comunicare con i vivi attraverso i sogni, ed è considerato per molti versi ancora parte attiva e presente della comunità, potremmo dire che per i wayuu la morte fisica e la morte sociale sono due cose ben diverse. La permanenza, per questo popolo, è saldamente ancorata alla memoria: ricordare, e tramandare il ricordo di chi muore è l’unico modo per prolungare l’esistenza e per preservare la presenza simbolica dei defunti.

Cosa ne pensate di questo modo di coltivare la memoria e di permettere l’oblio?

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L’oblio dopo la morte: il piacere di essere una parentesi, di Davide Sisto

8 Ottobre 2021/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Il 10 settembre il cantautore Morgan pubblica – sia su Instagram sia su Facebook – l’immagine della lapide di Franco Battiato, scrivendo un lungo post colmo di indignazione. Sulla lapide, infatti, c’è scritto un anonimo “Battiato Francesco”. Morgan immagina che ciò dipende dal fatto che Francesco è il nome di battesimo del noto musicista siciliano, nome con cui è stato registrato all’anagrafe 75 anni fa. Tuttavia, egli ritiene un affronto nei confronti del suo pubblico quella dicitura, poiché rende la lapide poco identificabile e, di fatto, la sottrae al doveroso possesso di chi ha ammirato Battiato nel corso della sua vita. Tutti nasciamo uguali, poi alcuni si differenziano per meriti che gli vengono riconosciuti dagli altri. Ecco perché, sostiene Morgan, è necessario che i fans di Battiato identifichino chiaramente dove è sepolto.  Nessuno, a primo acchito, se legge il nome David Robert Jones sa associargli un’immagine; diversamente, invece, funziona se legge il nome David Bowie, con cui David Robert Jones è diventato uno dei più importanti artisti degli ultimi decenni. Il ragionamento di Morgan ha suscitato enormi polemiche sui social: molti utenti ritengono, infatti, scorretto invadere la privacy della famiglia di Battiato, la quale ha probabilmente rispettato il volere del defunto nel momento in cui lo ha seppellito in un luogo appartato del cimitero e con un nome non del tutto identificabile.

Al di là del caso specifico, la questione ha attirato la mia attenzione per una serie di ragioni che ci rimandano al tema della memoria e dell’oblio. Innanzitutto, mi ha fatto riflettere su come molto spesso si ritenga erroneamente normale credere che una persona nota per meriti artistici e creativi appartenga, anche post mortem, al pubblico che lo ha amato e idolatrato. Quindi, che quella persona non abbia il diritto di volere il proprio definitivo oblio in quanto singola identità soggettiva, pur conscia di rimanere nella memoria collettiva tramite le opere realizzate nel corso della vita. Morgan, nel caso indicato, non tiene conto della doverosa separazione tra l’identità dell’artista Franco Battiato e quella del cittadino Francesco Battiato: l’istrionismo dell’uno non automaticamente definisce chi lo ha adottato nel corso della vita. Si può essere istrionici, creativi, desiderosi di avere un pubblico idolatrante e, al tempo stesso, volere un anonimato che salvaguarda tutto ciò che non appartiene alla specifica dimensione artistica. Come sappiamo, non esiste per nessuno di noi un’identità unica e unitaria.

A ciò si lega un altro tema, a mio avviso, fondamentale: non tutti desiderano “rimanere” nel mondo una volta che sono morti. Per me, per esempio, è catartico riflettere spesso sul fatto che un giorno non sarò più parte del mondo, che la mia vita è stata una parentesi più o meno piccola tra una data di nascita, che include solo indirettamente ciò che c’è stato prima, e una data di morte, dopo la quale tutto continua a seguire il suo normale corso in maniera indipendente dal fatto che io ci sia o non ci sia. È catartico perché ridimensiona dal punto di vista pedagogico le mie smanie egocentriche (che non mancano, se devo essere sincero…): mi piace pensare che, in fondo, la mia presenza psicofisica nel mondo ha una rilevanza limitata. Al massimo, rimane traccia di ciò che ho realizzato, di qualche mio comportamento più o meno positivo, del contributo che ho cercato di dare all’interno della parentesi in cui ho vissuto.

A complicare ulteriormente queste riflessioni è la particolare epoca che stiamo vivendo: le tecnologie digitali rendono, cioè, sempre meno popolare il desiderio dell’oblio e la possibilità di raggiungerlo. Come spesso ho evidenziato, anche nel blog, la registrazione a tempo più o meno indeterminato delle nostre tracce digitali, all’interno dei vari luoghi online, rende impossibile la coincidenza tra la morte biologica e quella digitale. Si rimane costantemente “vivi” nella dimensione online, anche dopo la morte, tramite tutti quei frammenti che hanno tratteggiato e raffigurato alcune porzioni della nostra multimodale identità.

Ecco, pertanto, una ragione in più a riflettere sul senso dell’oblio post mortem, quindi a chiederci preventivamente quali porzioni della nostra identità vogliamo che restino una volta che non ci siamo più, quali invece vogliamo che scompaiano del tutto. Ritorna il discorso relativo alla lapide di Battiato: l’artista ha scelto un luogo appartato in cui farsi seppellire, da condividere con poche persone e non con un pubblico che già ha modo di conservare la sua memoria tramite la musica e le parole che ha scritto.

E voi come vi rapportate con la possibilità dell’oblio post mortem? Attendiamo come sempre le vostre opinioni a riguardo.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/10/diritto-oblio-e1633631220822.webp 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-10-08 08:30:002021-10-07 20:29:15L’oblio dopo la morte: il piacere di essere una parentesi, di Davide Sisto

I riti funebri e la pandemia, di Marina Sozzi

15 Maggio 2020/10 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

A chi segue questo blog da un certo numero di anni, sarà familiare il concetto di crisi rituale: da diversi decenni, nel nostro Paese (ma non solo) siamo di fronte a un diffuso disagio. Più volte abbiamo notato, prima della pandemia, come i riti della tradizione cattolica, in un mondo molto secolarizzato, abbiano perso l’efficacia e il potere consolatorio che avevano in passato, quando la preoccupazione per la vita ultraterrena era più rilevante. Viceversa, si è sentita molto l’esigenza di commemorare in modo più personale coloro che ci hanno lasciati, ricordando il loro ruolo, i loro affetti, il loro lascito, il loro contributo alla vita terrena.

Alcuni parroci hanno accolto questa istanza dei parenti, alcuni crematori hanno costruito cerimonie laiche, e il profilo di una nuova figura professionale, il cerimoniere, comincia a farsi strada. In tutto questo, una sottile vena antiritualista si era comunque infiltrata nelle menti dei nostri contemporanei, soprattutto relativamente all’usanza di recarsi al cimitero. «Preferisco ricordarlo com’era in vita» è una frase frequentemente ascoltata nelle interviste su questi temi, e si è parlato di una memoria della mente e del cuore.

La nostra non è certamente la prima crisi rituale della storia europea. Una molto più violenta si è avuta alla fine del Settecento, quando lo spostamento dei cimiteri fuori le mura per la scelta igienista di alcuni sovrani illuminati aveva impedito a chi aveva perduto un congiunto di seguire il feretro fino alla sepoltura. In quel periodo, inoltre, la nascita dell’individuo moderno aveva messo in crisi la prassi della fossa comune. Fu Napoleone a dare una spinta importante per la risoluzione della crisi funebre, istituendo la sepoltura individuale e dando origine ai cimiteri monumentali.

Ora, che cosa sta accadendo durante l’epidemia di Covid-19? Il divieto, per mantenere il distanziamento sociale, di celebrare riti funebri e di recarsi al cimitero ha avuto un impatto fortissimo sui cittadini italiani. Unito all’impossibilità di accompagnare i propri cari alla fine della vita, ha determinato sovente dei lutti pieni di rabbia e disperazione, che ci inducono a ripensare il panorama funebre contemporaneo alla luce del Covid -19.

La prima osservazione da fare riguarda la sottovalutazione dell’importanza del rito funebre che è stata fatta. Occorre ricomprendere l’insostituibile funzione del rito. Il rito lenisce la ferita che la morte infligge nel corpo sociale, ribadendo che la vita può continuare nonostante la morte; il rito mette ordine, laddove la morte minaccia la vita in quanto irruzione in essa del caos; il rito ci ricorda che la morte di un membro della società è un evento sociale, non un avvenimento individuale o familiare che si vive in solitudine; il rito assegna una collocazione al defunto (qualunque sia questa collocazione, tra gli antenati, in un altro mondo, o nel ricordo di chi l’ha conosciuto); il rito ci permette di smaltire il corpo morto, ma senza venir meno alla consapevolezza che quel corpo è stato persona, ancora presente nella mente dei suoi cari. Il rito, infine, dà origine al periodo del lutto, legittimandolo.
E accanto al rito occorrono luoghi funebri accoglienti, rassicuranti, pieni di bellezza (un tema, anche questo, che abbiamo trattato e che tratteremo in futuro)

E’ quindi più chiaro perché la mancanza di un rito funebre e l’impossibilità di recarsi al cimitero abbia sconvolto il rapporto con la morte dei nostri connazionali. Forse l’impatto del dolore senza nome che è entrato nelle famiglie in lutto è stato sottovalutato dalle autorità chiamate a stabilire le regole in questo terribile momento di pandemia. Forse si sarebbe potuto cercare di trovare un modo per non cancellare i riti funebri. E tuttavia, del senno del poi…

La prima considerazione che viene in mente è che il Covid – 19 abbia acceso la luce sul bisogno di riti che abbiamo. E forse potrebbe essere questa dolorosa contingenza a spingerci a modificare i nostri riti per renderli più efficaci, più adeguati ai bisogni contemporanei. Senza lasciarci trascinare dalle mode, dalla dimensione “inventiva” e creativa, in cui ciascuno costruisce il proprio addio da bricoleur.
Restando ancorati a ciò che ha una storia e radici nella coscienza collettiva, religioso o laico che sia, occorre dare spazio alla dimensione personale e individuale. Nella nostra cultura la visione dell’individuo come un unicum è molto forte, e nel commiato c’è bisogno di raccontare chi è stata la persona che è morta, cosa ha realizzato nella vita, se ha saputo amare, quale lascito etico e affettivo ci consegna.

E proprio ragionando su questa esigenza, si può riflettere a cosa si può fare per lenire il dolore di coloro che non hanno potuto celebrare riti funebri.

Ci vorrà una grande cerimonia collettiva, è indubbio. Mantenendo le debite differenze, qualcosa di simile a ciò che è stato fatto dopo la Prima guerra mondiale, con la celebrazione del milite ignoto. Tuttavia, non solo grazie a Dio non siamo in guerra, ma conosciamo i nomi di coloro che sono morti. Dovremo pronunciarli, questi nomi. Mi viene in mente a Gerusalemme, a Yad Vashem, l’edificio che conserva la memoria dei bambini morti nella Shoah. Si entra in una camera oscura attraverso un cunicolo che ci fa sprofondare nella terra, la stanza è fiocamente illuminata da lumini che si accendono nell’oscurità, e per ventiquattro ore al giorno una registrazione pronuncia i nomi dei bambini uccisi: il nome, il paese di provenienza, l’età. Si esce con un’emozione travolgente. La forza dei nomi. La pandemia non ha nulla a che fare con la Shoah, ma dovremo ricordarci la forza commemorativa del pronunciare i nomi.

Inoltre, accanto a una grande cerimonia commemorativa, ci vorranno tante piccole occasioni locali di condivisione della memoria. Alcune istituzioni, come l’associazione Maria Bianchi, ne stanno già proponendo alcune, che potete leggere qui, anche per organizzarne e immaginarne altre, in altri luoghi del Paese, soprattutto i più colpiti dal Covid-19.

Cosa ne pensate? Ritenete anche voi che sia il momento di imprimere un cambiamento nella nostra ritualità funebre? Pensate che ci voglia una cerimonia collettiva per coloro che abbiamo perso nella pandemia? Come la fareste?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/05/candel2-e1589452845661.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-05-15 10:21:562020-05-15 10:21:56I riti funebri e la pandemia, di Marina Sozzi

Il significato dell’oblio nell’epoca delle memorie digitali, di Davide Sisto

26 Febbraio 2019/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Secondo alcune statistiche della rivista Mashable, ogni mese l’utente medio di Facebook pubblica circa novanta contenuti sul suo profilo: post, immagini, video. Ora, facciamo finta che Mario Rossi si sia iscritto nel 2008 al social network di Mark Zuckerberg, nato ufficialmente ad Harvard il 4 febbraio 2004. Con due semplicissimi calcoli matematici scopriamo che Mario Rossi ha condiviso su Facebook, fino a oggi, oltre diecimila contenuti. Ma, nel corso degli ultimi anni, non si è accontentato di avere soltanto un profilo su Facebook. Ne ha aperto uno su Instagram, nato nel 2010, e uno su Twitter, creato nel 2006. Facendo un uso quasi quotidiano e metodico anche di questi altri due social, agli oltre diecimila contenuti su Facebook somma centinaia, se non migliaia, di fotografie su Instagram e di “cinguettii” su Twitter (senza contare il materiale interno alla messaggistica privata su Messenger, Snapchat, WhatsApp, ecc.).

In altre parole, Mario Rossi ha un quantitativo di memorie personali, in formato digitale, che non ha eguali nella storia dell’umanità. Se poi consideriamo il fatto che, per esempio, su Facebook vi sono attualmente oltre due miliardi di iscritti ci ritroviamo a vivere in un mondo soffocato – in maniera letterale – dai ricordi.

In un articolo anonimo del 1896, intitolato Voices of the Dead, si festeggiava l’invenzione del fonografo come la definitiva vittoria sulla morte, la quale non poteva nulla contro la capacità tecnologica acquisita dall’uomo di trattenere con sé le voci dei defunti. Qualche anno dopo, nell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom ritiene sensato porre un grammofono in ogni tomba o, comunque, tenerne uno in casa. In tal modo, la domenica dopo pranzo, lo si accende e si ascolta la voce del trisnonno. E, ancora, nel 1983 lo scrittore serbo Danilo Kiš immagina, all’interno del suo libro Enciclopedia dei morti, una biblioteca fantastica, situata a Stoccolma, i cui volumi hanno una caratteristica piuttosto peculiare: contengono informazioni estremamente minuziose di tutto ciò che, ritenuto insignificante e trascurabile, è escluso dagli archivi della cultura ufficiale e non è menzionato nelle altre enciclopedie. In particolare, questa biblioteca raccoglie i dati riguardanti la vita delle persone comuni, di modo da documentare e mantenere viva nella memoria collettiva la loro unicità e irripetibilità.

Oggi i social network hanno portato alle estreme conseguenze il bisogno umano, da sempre sentito, di continuare a sopravvivere all’interno delle proprie memorie. La produzione di ricordi delle singole esperienze è irrefrenabile. Qualche tempo fa avevo già affrontato il tema sul blog, ma in riferimento al pericolo di non riuscire a conservare le proprie memorie digitali a causa dell’obsolescenza tecnologica e delle rigide regole della privacy personale nei social (qui il suo contenuto). In questo articolo, invece, mi interessa soffermarmi su un’altra questione, molto più filosofica: è veramente così importante lasciare una traccia permanente di sé dopo il nostro passaggio sulla Terra?

Ognuno di noi tende a manifestare il desiderio di non scomparire per sempre e, dunque, di divenire – almeno, da un punto di vista simbolico – immortale. Molto banalmente, fare figli per la maggior parte di noi rappresenta il modo migliore di sopravvivere alla propria morte. A volte, tuttavia, penso che ci diamo troppa importanza. Non siamo poi così diversi da quelle centinaia di formiche che rischiamo quotidianamente di calpestare quando camminiamo. E il mondo stesso, anzi l’intero universo, non è poi così interessato ai nostri pensieri, alle nostre credenze, al nostro bisogno di apparire. In altri termini, può diventare quantomeno interessante capovolgere il significato di Coco, il film d’animazione della Pixar uscito nel 2017: non è una tragedia il fatto che, quando morirà l’ultima persona che ha avuto la fortuna (o la sfortuna) di conoscerci, scompariremo nel nulla in mancanza di un oggetto – una fotografia, un filmato, ecc. – che certifichi il nostro passaggio sulla terra.

Lo so, detto da uno che sta scrivendo questo articolo, il quale resterà a lungo nel web, che ha scritto diversi libri e che, come la maggior parte di voi, condivide migliaia di post sui social network può suonare contraddittorio. Tuttavia, mi interrogo spesso sulla effettiva necessità di lasciare traccia del proprio passaggio sulla terra. Per esempio, ho pochissime fotografie che mi ritraggono. Addirittura, io e la mia compagna, in oltre quindici anni di relazione sentimentale, abbiamo due o tre fotografie insieme. E non sappiamo nemmeno dove le abbiamo conservate. Questo perché, in fondo, è meglio guardare avanti, non dare troppo peso a ciò che sta dietro, continuare a proseguire il proprio percorso fino alla fine. E, dopo, chi se ne importa. Chi se ne importa di quello che sono stato, chi se ne importa di quello che ho fatto e ho detto. Il mondo andrà avanti, si sarà nutrito di ciò che gli ho dato, nel bene e nel male, e si nutrirà ora di nuova linfa vitale, prodotta da chi prenderà il mio posto, da chi abiterà nei luoghi in cui ho vissuto, da chi camminerà sui marciapiedi su cui ho passeggiato.

È davvero così importante soffocare la propria esistenza con le memorie delle proprie esperienze? Magari sì, ma perché non pensare anche in modo contrario, quindi riconoscere l’importanza pedagogica dell’oblio totale? Scendere a patti con il nostro scomparire, non rivestendolo di angoscia e tristezza ma osservandolo con la malinconica consapevolezza che così funziona la vita, potrebbe forse rendere meno drammatica la coscienza della nostra mortalità e anche meno sofferente l’esistenza di chi soffre per la nostra perdita.

Sto riflettendo insieme a voi e non voglio dare una certezza oggettiva alle mie parole né fornire un insegnamento particolare. Tuttavia, mi sembra utile riflettere sul tema in un’epoca in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo a produrre memorie in formato digitale. Cosa ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/02/Depositphotos_43144711_m-2015-e1551169387158.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-02-26 09:29:432019-02-26 09:29:43Il significato dell’oblio nell’epoca delle memorie digitali, di Davide Sisto

La morte ai tempi di Facebook, di Davide Sisto

12 Luglio 2016/21 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

hack social mediaLa prima volta che ho veramente compreso quanto il digitale rivoluzioni il nostro legame con la morte è stato un giorno del novembre 2014: appena sveglio, ricevo sul mio smartphone una notifica da Facebook che mi ricorda il compleanno di un amico. Morto, però, tre mesi prima all’improvviso.

Un morboso desiderio di autolesionismo emotivo mi spinge a ritornare subito sulla bacheca del suo profilo Facebook. E non occorre uno spirito di osservazione particolarmente acuto per cogliere le tante suggestioni che quella bacheca produce, in modo del tutto casuale e senza un filo logico razionale.

In primo luogo, lo spettro dell’interruzione: il classico susseguirsi quotidiano di fotografie, videoclip, pensieri personali che, di colpo, si interrompe senza più possibilità di ripresa. Sarà pur vero ciò che sostiene il filosofo coreano Byung-Chul Han, vale a dire che la bacheca di un social network non è niente più che una meccanica, fredda, morta enumerazione e addizione di eventi o di informazioni, che si accumulano senza anima. Nulla a che vedere con la narrazione viva della nostra memoria, la cui forza pulsante è tutta racchiusa nel dimenticare, quindi nel non trattenere tutte le esperienze vissute. Tuttavia, fermarsi a osservare quella bacheca virtuale, con la sua successione temporale di immagini e riflessioni, è come rendersi d’un tratto consapevoli che, con la morte, il presente viene inghiottito dal passato, il tempo non ha più né vitalità né senso. Sale, quindi, l’angoscia per la mancanza del commiato e per il senso di incompletezza che, mai così nitida come sullo schermo del computer, è tipica di una morte avvenuta all’improvviso. L’interruzione inattesa, non calcolata né prevista solitamente all’interno di una vita scandita da ritmi e abitudini quotidiane, è senza ombra di dubbio amplificata da un social network come Facebook.

In secondo luogo, lo struggimento degli amici e dei conoscenti: la bacheca comincia a riempirsi di messaggi di saluto, di dediche musicali, di ricordi. Messaggi diretti in forma colloquiale alla persona morta. Da una parte, sembrano tentativi di comunicazione con chi non c’è più; gli amici si rivolgono a lui come se fosse in grado ancora di leggere. Sopra una fotografia un ragazzo scrive: “Questa appendila alla nuvoletta accanto a te. Tanti Auguri!”. Come se ci fosse una specie di anima del mondo che collega i vivi con i morti, ora, tramite Facebook. Il social network sembra farsi carico della tradizionale comunicazione simbolica tra l’aldiquà e l’aldilà, una comunicazione percepita stranamente – davanti allo schermo del computer – come reciproca. Molto diversa da quella che creiamo sulla tomba della persona amata al cimitero, la quale è più pensata e immaginata che realmente “vista” con gli occhi. Da un’altra parte, questi messaggi sembrano tentativi volti “a fare gruppo”. Si cerca cioè di condividere virtualmente il dolore con le altre persone, eludendo il pudore e le difficoltà che hanno spesso luogo nella realtà. Il commento sotto un messaggio di commiato sulla bacheca di Facebook, con magari il ricordo di un aneddoto o di una propria riflessione, non è invasivo perché si riesce a nascondere il proprio stato d’animo dietro allo schermo. Mentre nella realtà si fa più fatica a condividere quel dolore, quindi a vincere la vergogna di mostrare i propri sentimenti o di dire frasi banali.

Facebook ci pone di fronte a quella morte che rimuoviamo quotidianamente dalla nostra vita. Lo fa in moltissimi modi diversi, ben più numerosi rispetto a quelli che ho brevemente indicato. Nel bene e nel male. E dobbiamo, il prima possibile, prenderne atto e coglierne le conseguenze. Facebook, infatti, è già oggi il più grande cimitero che vi sia al mondo, facilmente accessibile tramite un computer o un telefono cellulare. A fine 2014 si contavano oltre 50 milioni di utenti morti; secondo Hachem Sadikki, esperto di statistica presso l’Università del Massachussetts, nel 2098 il numero di utenti deceduti sarà addirittura superiore a quelli ancora in vita. I dati che lo portano a tale conclusione sono principalmente due: la scelta dei gestori del social network di non eliminare in modo automatico gli account degli utenti deceduti e il rallentamento progressivo dei nuovi iscritti. Se le previsioni sono corrette, il social network più popolare al mondo sarà, alla fine di questo secolo, una distesa di profili fantasma, quindi di pensieri, fotografie e ricordi di persone che non ci sono più, a totale portata di mano di chi è invece ancora in vita.

E, tra i tanti problemi che questo comporta, vi è quello della propria privacy e dell’eredità della nostra vita virtuale. Da pochi anni, Facebook ha inventato l’opzione del “contatto erede”: ciascuno di noi può scegliere in vita se eliminare, una volta morti, il proprio account o se farlo diventare “commemorativo” tramite un erede. Si sceglie una persona di famiglia o un amico, il quale può scrivere un post fissato in alto nel profilo, magari dando informazioni agli altri amici virtuali; può rispondere alla eventuali richieste di amicizia e aggiornare l’immagine del profilo e di copertina. Non può però accedere ai dati personali. Nella pagina, in alto, compare la scritta “in ricordo di”. L’opzione del “contatto erede” dimostra quanto sia sentita la necessità di pensare a ciò che può succedere dopo la propria morte, proprio perché ormai la realtà virtuale è diventata parte integrante di quella reale.

Difficile comunque riuscire a farsi un’idea precisa se Facebook renda più traumatico il lutto o ne sia invece di aiuto, se rende più doloroso il distacco o se genera una qualche forma di sollievo, anche nell’ottica di una maggiore comprensione del significato della morte per la vita. Voi cosa ne pensate? Avete già avuto esperienza di una persona deceduta con il profilo Facebook attivo? Come vorreste che venisse gestito dopo la vostra morte? Sono molto curioso di sentire opinioni a riguardo.

 

 

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Festa dei morti, parte seconda

1 Novembre 2012/2 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Cari amici, qualche giorno fa ho proposto di partecipare all’azione collettiva che si terrà contemporaneamente in varie parti del mondo, alle 16 (ora italiana) del 2 novembre 2012 (10am New York; 11am Buenos Aires; 12pm São Paulo; 3pm London; 4pm Cairo/Rome; 5pm Addis Ababa; 9pm Phnom Penh; 10pm Beijing/Shanghai). Ognuno di noi, nello stesso momento, si proporrà di incontrare una persona scomparsa (un parente, un amico, un personaggio pubblico), nel luogo che preferisce, secondo i propri tempi e modi.

Ma non finisce tutto con il pensiero rivolto a chi non c’è più. La seconda parte della proposta è la seguente:

Ti chiediamo di inviarci, due o tre giorni dopo questo “incontro”, una parola o una frase (due righe al massimo) che rappresenti o evochi questa esperienza. Niente testi lunghi, immagini, video o altro.

Alla fine di novembre le parole o le frasi raccolte verranno trascritte con la tecnica dell’affresco sulle pareti de Lu Cafausu a San Cesario di Lecce. Per l’occasione, oltre alla realizzazione dell’affresco, sarà organizzata una festa.
Verrà successivamente inviata una email con la data della festa e della realizzazione pubblica dell’affresco.

Per favore registrati su http://eepurl.com/qceAP per confermare la tua partecipazione.

invia le parole a: lafestadeivivi@gmail.com

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/10/lettera2.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-11-01 12:31:282018-10-23 18:42:14Festa dei morti, parte seconda

Perché questo blog?

1 Ottobre 2012/12 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Non possiamo continuare a far finta di niente.
A ritrarci con disagio o a fare scongiuri se qualcuno nomina la morte, come avesse agito in modo sconcio o molto imbarazzante.
A rimandarne il pensiero.
A evitare i conoscenti in lutto (oddio cosa gli dico?)
A raggirare noi stessi, come se la vita e la morte non fossero strettamente interconnesse e saldate insieme.

Interveniamo su questa vuota convenzione sociale.
Qui vogliamo rompere il divieto, ignorare il sorriso ironico di chi non vuole saperne di essere mortale.
Vogliamo aprire uno spazio dove sia possibile parlare, discutere, accalorarsi, piangere, ridere, riflettere, cambiare.
Vogliamo stare vicino a chi è triste perché ha perduto qualcuno che era importante.
Vogliamo imparare a convivere più serenamente col tempo che scorre e porta cose buone e cattive, e poi le porta anche via.
E’ il nostro vivere, è il nostro invecchiare. Ci sono la paura, il dolore, il disincanto del mondo, la solitudine, la malattia; ma accanto, a volte dentro, il coraggio, la gioia, il mistero, la saggezza, l’amore.
Vogliamo imparare a ricordare e dimenticare, onorare i nostri morti e andare avanti a vivere.
Vogliamo parlare di religioni e di laicità, purché vere, aperte, tolleranti. Vogliamo ragionare di etica, aggirando i pregiudizi e lasciandoli stecchiti sul terreno.
Vogliamo riflettere sui nuovi riti che si affacciano al nostro tempo.
Vogliamo dibattere di arte, letteratura, fotografia, cinema, perché oggi molti artisti trovano nuove lingue per dire morte.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/10/perchequestoblog.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-10-01 16:17:562012-10-01 16:17:56Perché questo blog?

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