La dimensione sociale del morire: l’esempio virtuoso del Kerala, India, di Marina Sozzi
Qualche mese fa abbiamo parlato di Compassionate Cities, ossia del tentativo, messo in atto da alcune istituzioni di cure palliative, e da alcune amministrazioni locali nel mondo, di far diventare la malattia, la morte e il lutto delle persone problemi condivisi nelle comunità.
Poiché nel nostro contesto ciò sembra piuttosto utopico, mi sembra utile raccontare l’esperienza che è stata fatta negli ultimi trent’anni nello Stato del Kerala, nel sud dell’India, che ha una popolazione di circa 35 milioni di persone. Si tratta di un’esperienza narrata come esempio virtuoso dal documento della Lancet Commission del 2022, intitolato The Value of Death, di cui si è già parlato in questo blog.
Il documento sostiene che in ogni paese, in ogni realtà, sia identificabile un “sistema della morte” (death system): ossia un insieme interconnesso di fattori sociali, culturali, economici, religiosi e politici che determinano il modo in cui la morte, il morire e il lutto vengono compresi, sperimentati e gestiti. La maggior parte dei sistemi presenta dei problemi, se pensiamo che nel primo mondo vi è ancora, talvolta, una iper-medicalizzazione della morte, mentre nei paesi poveri mancano i farmaci necessari per curare molte malattie che altrove vengono sconfitte, e per togliere il dolore. Occorre quindi, per ogni realtà, comprendere approfonditamente le difficoltà e gli errori, per introdurre i correttivi che possano migliorare il sistema. L’approccio che adottiamo, qualora si vogliano migliorare le cose, non deve essere riduzionista, né limitarsi a delegare alla medicina il problema del morire, al fine di non eludere la complessità di ogni sistema della morte.
Ora torniamo al Kerala, per capire in che modo sono stati realizzati i mutamenti che hanno rivoluzionato il sistema dello Stato indiano.
Tutto cominciò nel 1993, quando, ad opera di due medici e un volontario, fu costituito un ambulatorio di cure palliative. Si trattò di un investimento notevole, che vide la collaborazione di molti donatori locali: ben presto, però, fu chiaro che i malati gravi non potevano spostarsi per raggiungere l’ambulatorio, e che anche per i familiari era difficile perdere un giorno di lavoro per recarvisi. Ci si rese conto che i complessi bisogni fisici, sociali, emotivi e spirituali dalle persone gravemente malate non potevano essere soddisfatti da un servizio clinico distante, e poco per volta si cominciò così a spostarsi per raggiungere i pazienti nelle loro case (facendo ciò che noi definiamo un “servizio domiciliare”).
Ma il grande cambiamento avvenne intorno al 2000, quando la realtà locale rese evidente la necessità di adottare un nuovo paradigma, che si facesse carico delle fragilità sociali delle persone malate. La malattia in fase avanzata e il morire sono problemi sociali con un aspetto medico, e non eventi medici con un versante sociale: una rivoluzione copernicana rispetto alla visione biomedica della cura.
A partire da questa nuova convinzione, si è cominciato a coinvolgere le comunità locali, attraverso le loro molteplici reti: le organizzazioni religiose, le aziende del territorio, gli attivisti, gli insegnanti, i contadini. Sono state create associazioni di volontari accuratamente formati, e sono stati raccolti i fondi necessari per far partire il progetto. Nel 2007 c’erano quasi cento centri in tutto il Kerala capaci di dare sostegno a chi affrontava la morte, con una rete di migliaia di volontari. Questo modello sociale di assistenza ha trasformato il modo in cui le persone vivono e muoiono. Le persone affette da malattie incurabili hanno avuto volontari che andavano a visitarli a casa, sostenevano i loro cari, raccoglievano fondi per consentire ai bambini di andare a scuola e fare in modo che ci fosse il cibo necessario per la famiglia, e si adoperavano inoltre per trovare un lavoro alle persone a cui la morte aveva sottratto il congiunto che era l’unico sostegno economico dell’intero gruppo familiare. L’assistenza medica e infermieristica è stata fornita gratuitamente e, con il cambiamento di mentalità, è stato possibile dire parole oneste sulla diagnosi e sulla prognosi. I volontari sono stati fondamentali anche perché hanno portato alle comunità informazioni sanitarie preziose, ad esempio spiegando quanto fumare o masticare la noce di betel sia nocivo per la salute; sfidando talvolta i pregiudizi diffusi, come l’idea che il cancro sia contagioso. Sono stati inoltre particolarmente efficaci nel combattere lo stigma nei confronti delle persone affette da HIV e AIDS.
Poco per volta, le politiche pubbliche e le istituzioni si sono alleate (non senza contrasti e problemi) con la rete di volontariato, creando una politica statale capace di garantire le cure palliative e la disponibilità dei farmaci oppiacei.
Il risultato è che oggi oltre 1600 istituzioni forniscono servizi di cure palliative in tutto il Kerala; si stima che i servizi di cure palliative siano disponibili in ogni distretto del Kerala e che raggiungano circa il 70% di coloro che ne hanno bisogno, diversamente dalla media nazionale indiana, che è del 23%.
Ora, cosa possiamo dedurre da questa esperienza? In parte è sovrapponibile a quella italiana: nel nostro paese negli anni Ottanta è stato soprattutto il Terzo Settore (e il volontariato) a far partire i servizi di cure palliative, diffondendone anche la cultura e la filosofia. E solo successivamente sono giunte le leggi, quella sugli hospice del 1999, e quella di istituzione delle cure palliative del 2010.
Tuttavia, finora le cure palliative non si sono impegnate, nel nostro paese, a coinvolgere le comunità.
Eppure, in alcune realtà si è compreso che le famiglie che accompagnano un congiunto durante l’ultimo tratto della vita hanno problemi che sono di carattere sociale, oltre che medico. Così è nato, ad esempio, il Progetto di Protezione delle Famiglie Fragili (dapprima a Torino, in Fondazione Faro, poi esteso a tutto il Piemonte), che si occupa di sostenere le fragilità di carattere sociale che la malattia scoperchia o aggrava, con uno sguardo particolarmente attento rivolto ai bambini.
Questo progetto sembra un terreno fecondo per allargare ulteriormente lo sguardo, rivolgendolo alle comunità, intensificando la vigilanza sulle fragilità, e formando volontari in tutti gli ambiti della vita sociale, capaci di interagire con i malati e i loro familiari e amici.
Il modello del Kerala, peraltro, è riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come Collaborating Centre for Community Participation in Palliative Care and Long Term Care. Utopia concreta, come la definiscono gli estensori del documento The Value of Death.
Cosa ne pensate? Credete che l’esperienza del Kerala sia esportabile? Troveremmo anche noi così tanti volontari disposti ad occuparsi dei morenti e dei dolenti? Potremmo modificare il nostro “sistema della morte” in un senso più sociale?