Il pensiero magico e le parole immutabili nel lutto, di Nicola Ferrari
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo articolo di Nicola Ferrari, responsabile del servizio di sostegno al lutto dell’associazione Maria Bianchi. (Le immagini sono di Catrin Welz-Stein).
Le tre amiche salgono sul pulpito, alla fine del funerale.
Sono coetanee della ragazza di 20 anni morta nel sonno, di notte, nella casa dei genitori del suo fidanzato. Verrà trovata cadavere la mattina successiva dalla mamma del suo compagno, uscito presto senza svegliarla per andare a lavorare. Una ragazza atletica, appassionatissima di ballo moderno, che non aveva mai manifestato problemi fisici.
La chiesa del piccolo Comune è ovviamente gremita: c’è tutto il paese, sento dire da un vigile che cerca di gestire la viabilità davanti al sagrato. La bara, di legno semplicissimo e chiaro, è ricoperta di frasi scritte da tutte le persone sue amiche: ora balla lassù, ti amerò per sempre, insegnami a vivere, prenditi cura di noi, il cielo ora ha un’altra stella, quando ci rivedremo sarà meraviglioso, nell’attesa piango.
L’emozione, come accade ogni volta nella fase conclusiva del rito funebre, è palpabile tra la folla che riempie la chiesa e chi è rimasto fuori per mancanza di spazio. Una dopo l’altra le sue amiche leggono i pensieri che nei giorni successivi al decesso hanno affollato i loro cuori e le loro menti.
Sono al 90% le stesse parole che si leggono o si ascoltano in casi simili: cielo, stelle, cuore, amore, per sempre, ogni giorno, destino…; l’amica è stata fonte di gioia e affetto ineguagliabili, un essere umano meraviglioso e amabilissimo, i difetti e i limiti erano un niente se paragonati al resto, i ricordi sono indimenticabili, le esperienze vissute hanno indissolubilmente segnato la vita che c’è stata e tutta quella che verrà, l’aiuto ricevuto non sarà mai paragonabile a nessun altro, lo strazio della perdita resterà sempre dentro.
Non si tratta, ovvio, né di valutare né di mettere in discussione quello che ognuno di noi sente e pensa quando vive un lutto; ma è altrettanto ovvio che le parole che utilizziamo per esprimere quello che ci accade fanno la differenza. E la fanno nella misura in cui sono più o meno cor-rispondenti alla nostra personalissima vita interiore. Narrare ad esempio il dolore intimo con un linguaggio che è lo specchio fedele (o il più fedele possibile) di ciò che proviamo, significa riuscire a definirsi, a dare confini e caratteristiche al tormento e iniziare così ad affrontarlo.
Purtroppo è ancora molto presente in Italia un pensiero magico che attribuisce totale verità, assoluta immodificabilità a ciò che una persona in lutto narra scrivendo o parlando, come se da un lato fosse mancanza di rispetto per il suo dolore aiutarlo a trovare espressioni che comunicano con più precisione ciò che vive e dall’altro sostanzialmente inutile perché le parole sono, appunto, solo parole. Sperimento direttamente invece, da alcuni decenni, quanto una vera, precisa, dettagliata, approfondita scelta dei termini che si usano per raccontare, e quindi raccontarsi, durante il lutto crei una reale possibilità di cambiamento. Ciò che può fare la differenza è la correlazione tra vissuto e linguaggio che deve essere appunto vero, preciso, dettagliato e approfondito non per chi lo riceve ma per chi lo esprime.
Quando la forma, che tutto è meno che involucro, prima somiglia poi coincide con le emozioni profonde, può diventare poi un’opportunità importantissima per ridefinire la personale condizione senza la persona amata e attivare una riprogettazione esistenziale.
Ma perché tutto questo accada, serve interagire con il linguaggio che la persona in lutto utilizza considerandolo passibile di modifiche e approfondimenti.
Non posso più sentirti, non posso più vederti, non posso toccarti, dichiara a voce alta una delle sue amiche dal pulpito continuando a leggere quello che aveva scritto per l’occasione.
E allora cosa posso fare perché tu non te ne vada da me? Me lo sono chiesta tante volte in questi giorni, continua, e ho capito una cosa: posso vivere io la vita al posto tuo.
Dopo queste frasi ho visto nettamente dal fondo della chiesa dove avevo trovato posto, la reazione della folla che gremiva ogni spazio: teste che improvvisamente si alzavano, un’aggiunta di silenzio al silenzio già imperante, coppie e amici vicini che si toccavano lievemente e si scambiavano sguardi complici; all’esterno poi, in attesa dell’uscita della bara, quell’espressione era diventata il primo argomento di scambio. Ecco, a volte basta davvero poco: parole cor-rispondenti, sostantivi, aggettivi e verbi che restituiscono ciò che si sta provando e/o si desidera che accada perché, in queste come in tante altre situazioni della vita meno dolorose, si apra una sorta di nuova visuale, all’inizio incerta, appena accennata ma che può diventare in seguito una méta da perseguire.
Nella pratica però è molto più complesso da realizzare: ci sono pregiudizi e ostacoli di natura intellettuale, abitudini radicate dall’esperienza individuale, regole sociali non scritte assolutamente attive in tanti di noi che convergono tutte verso un unico centro: quello che una persona esprime durante la sofferenza è intoccabile, sacro, immodificabile.
Eppure esiste un’altra strada da perseguire: avvalersi delle situazioni che si incontrano nella vita, impegnarsi in un’attività costante di sensibilizzazione, creare occasioni formative, diffondere con strumenti diversi l’importanza e la straordinarietà di un approccio specifico al linguaggio che non si rifugia, come purtroppo accade, nelle analisi generiche, non si esaurisce nelle riflessioni esistenziali di natura filosofica, antropologica e sociale, non si limita a registrare e analizzare i fenomeni ma cerca di appartenere totalmente e fedelmente al suo proprietario. Perché il linguaggio, quando è la reale e certa espressione di ciò che siamo e vogliamo che accada, non solo consente alla sofferenza di evolversi ma incentiva e sostiene le azioni concrete da mettere in campo per continuare a vivere, non a sopravvivere.
Opporsi al pensiero magico, cioè al tabù che impedisce di intervenire sul linguaggio di chi soffre, è certamente arduo e per molti versi di scarsa efficacia immediata se paragonato a ciò che è dominante, ma ne vale la pena; vale la pena, con tutte le conseguenze annesse, dedicarsi a ciò che aiuta l’amore ad esserci quaggiù.
Cosa ne pensate?