Quando la musica e il canto sono al centro del rito funebre, di Cristina Vargas
All’inizio del mese di gennaio, mentre ero in Colombia, ho partecipato alla dispersione delle ceneri di una cara amica di famiglia. Non era prevista una vera e propria cerimonia, ma i figli hanno scelto un bel luogo di montagna, che era stato importante per lei in vita, e ci siamo riuniti lì per spargere le ceneri e per piantare un albero nativo, che può vivere per secoli nelle foreste tropicali ed è simbolo di permanenza e di rinascita. Mentre alcuni scavavano, le note del Concerto d’Aranjuez hanno scandito un silenzio lungo, appena modulato dal suono del vento, dal fruscio delle foglie, dalla vanga che smuoveva la terra e dal cinguettio degli uccelli. Non c’erano né ufficianti, né sacerdoti, ma la forza della melodia ha conferito solennità e profondità alle nostre azioni, trasformandole in un rito a tutti gli effetti.
Questa esperienza mi ha motivato a riflettere sul ruolo della musica e del canto nella ritualità funebre, e mi ha permesso di sperimentare in prima persona la potenza di questi mezzi artistico-espressivi nel dar voce a ciò che non può essere detto a parole. Mentre ascoltavamo, parlare non era necessario, perché in qualche modo sapevamo senza bisogno di dirlo quello che gli altri stavano provando: la musica ci ha offerto la possibilità di condividere significati ed emozioni profondi, senza passare attraverso la dimensione verbale. In uno dei più citati passaggi del saggio La musica e l’ineffabile, il filosofo Vladimir Jankélévitch scrive infatti: “Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, l’uomo non può che cantare”.
Sebbene la musica sia presente in molti funerali, in alcune culture l’esecuzione musicale, il canto o la danza sono il perno intorno al quale si struttura l’ultimo rito.
In Colombia, per esempio, esiste una forma tradizionale di canto funebre, il Lumbalù, che racchiude tutte le potenzialità che abbiamo appena menzionato, a cui si aggiunge un elevato valore storico-politico, perché è sinonimo di resistenza e di lotta per la libertà.
Il Lumbalù fa parte dell’articolato ciclo rituale che accompagna la morte a San Basilio di Palenque. La storia di questo villaggio, che dista 50 chilometri da Cartagena de Indias, inizia sul finire del XVI secolo. In quel periodo Cartagena era uno dei punti nodali del traffico di schiavi africani, che sbarcavano dalle galere spagnole, venivano venduti come merci e poi trasportati verso le piantagioni del sud lungo il fiume Magdalena. Nonostante il carattere disumano delle traversate oceaniche, e i terribili abusi che erano costretti a subire, alcuni schiavi riuscirono a fuggire. Fra loro, il primo e più importante leader – ricordato dalla tradizione orale e dalle cronache dei missionari spagnoli – fu Benkos Bioho, che insieme ad altri cimarrones (così venivano chiamati gli ex schiavi ribelli e fuggiaschi) fondò il primo palenque, un insediamento libero e autogestito nelle montagne. Nel 1713, dopo oltre cent’anni di resistenza agli attacchi degli spagnoli, la corona spagnola accordò la libertà e l’indipendenza ai fuggitivi, il villaggio di San Basilio assunse ufficialmente il suo nome attuale ed è da allora considerato il primo territorio libero del continente americano.
Il Lumbalù è un rito funebre che integra la musica, il canto, la danza e il pianto, per facilitare il transito dello spirito fra il mondo dei vivi e il mondo delle ombre. Quando muore un adulto i familiari si riuniscono intorno al defunto e intonano un lamento seguendo un ritmo particolare, che alterna il pianto, i rimproveri al morto per le colpe commesse in vita e le lodi per le sue virtù e i suoi meriti. Quando il defunto è lavato, vestito e messo nel feretro, accorrono tutte le persone del villaggio e il capo del palenque porta il grande tamburo Lumbalù, da cui prende nome questa tradizione. Per nove giorni e nove notti il tamburo scandisce senza sosta il ritmo allegro e sostenuto della musica, mentre intorno al feretro si avvicendano donne e uomini, che cantano e ballano per non lasciare mai da solo il defunto e accompagnarlo con gioia nella sua dipartita verso il mondo degli antenati. Al termine della veglia, lentamente, vengono tolte le candele, si spengono le luci e ci si allontana dalle porta perché l’anima possa uscire e chi resta possa tornare a vivere.
La cultura palenquera è sincretica e, in riti come questo, tracce delle religioni africane tradizionali si mescolano con universi simbolici legati al cattolicesimo e al nuovo mondo. Nel 2005 lo spazio culturale di Palenque de San Basilio è stato riconosciuto come patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’UNESCO.
La tradizione dei canti e dei lamenti funebri è presente anche in tutta l’area mediterranea. L’antropologa Lila Abu Lughod ha studiato i canti legati al lutto in una piccola società beduina, e ha mostrato come essi prendano forma a partire da una tensione fra il modo in cui si parla della morte nell religione ufficiale, l’Islam, e un sentire soggettivo, che si esprime al femminile e che accoglie vissuti individuali che non trovano altrove espressione.
Nei canti prende forma la contraddizione profonda, forse irrisolvibile, fra la fede che invita al rispetto e all’accettazione della volontà di Dio, e le emozioni intense e dirompenti che si provano di fronte alla perdita, come la solitudine, la paura, l’angoscia, la frustrazione e la rabbia, persino quella contro Dio, che ha permesso che la tragedia accadesse. Quest’ultima emozione, che come sappiamo fa parte in molti casi del lutto, trova un’espressione socialmente legittima e accettabile soltanto nel contesto del canto funebre.
Ernesto De Martino, nel suo noto libro Morte e pianto rituale definiva il lamento funebre una “tecnica del piangere”, che ha la funzione sociale di offrire una risposta rituale alla “crisi della presenza”, preservando i dolenti sia dallo strazio del grido disperato, sia dal silenzio che isola e blocca ogni possibilità di condivisione.
Per quanto diversi fra loro, riti come il Lumbalù e il canto funebre beduino testimoniano che la musica è sia un mezzo comunicativo che permette di socializzare le emozioni nelle loro molteplici manifestazioni, sia il vettore che rende il funerale un’esperienza realmente condivisa. C’è infatti qualcosa di profondamente coinvolgente e umano nel sentire insieme le note; nel permettere al ritmo di entrare nel corpo; nel sostare nell’alternanza fra silenzio e suono che scandisce il respiro; nell’accogliere le immagini evocate dalle parole e nello sperimentare tutte le sensazioni che la musica è in grado di offrirci.
E voi, che ne pensate? Vi è capitato di sentire la potenza rituale della musica di fronte alla morte o al lutto?