La legge 219 sul Consenso Informato: quali novità? di Marina Sozzi
La legge 219, sul Consenso informato e sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvata alla fine del 2017 ed entrata in vigore a fine gennaio 2018, contiene in sé due innovazioni culturali molto importanti: in questo articolo parliamo della prima (il Consenso informato), e un secondo post sarà dedicato alle DAT.
L’articolo 1 della legge afferma il diritto dei cittadini a conoscere le proprie condizioni di salute e a essere informati in modo completo, aggiornato e comprensibile su diagnosi, prognosi e conseguenze dei trattamenti sanitari consigliati dal medico. Ciò significa che il soggetto delle scelte sulla salute è l’individuo malato, con i suoi familiari e i suoi cari. Non si tratta di un’affermazione scontata o di poco conto. Storicamente, dai tempi della scuola medica di Ippocrate (V secolo a.C.) agli anni Sessanta del Novecento, il rapporto medico-paziente ha seguito un modello paternalistico: la relazione è stata sempre considerata fortemente asimmetrica, così che stabilire cosa fosse bene per il paziente spettava solo al medico. Nel corso dei secoli quasi nulla è mutato. Ancora nei codici deontologici degli anni 70 e 80 del Novecento, si raccomanda di nascondere al paziente la malattia grave, e semmai di comunicare alla famiglia la prognosi infausta. In tale atteggiamento era anche presente l’idea (verrebbe da dire, il pensiero magico) che togliere la speranza della guarigione al malato avrebbe peggiorato le sue condizioni fisiche. Quindi, viva la menzogna (anche diverse correnti all’interno della Chiesa – con l’eccezione di Agostino – ritenevano che tale menzogna a fin di bene non fosse peccato).
Solo molto recentemente il modello paternalistico è stato messo in discussione, e oggi si tende a pensare, erroneamente, che sia tramontato. Ma chiunque di noi abbia dovuto firmare un modulo di consenso informato, per un esame invasivo o un’operazione chirurgica, sa che la propria firma si riduce a mero adempimento burocratico, e raramente comporta un’autentica comunicazione tra medico e paziente.
Sono inoltre disponibili alcuni dati sconcertanti, raccolti negli Usa negli anni 2000, riguardo alla percentuale di verità detta ai pazienti sulla diagnosi (i dati si trovano nel volume di Marzio Barbagli, Fine della vita. Morire in Italia). I medici hanno parlato apertamente della diagnosi al 93% dei pazienti con cancro al seno o alla prostata, ma solo all’84% di quelli con cancro ai polmoni, al 78% dei malati di Parkinson, al 48% di quelli malati di ictus, al 45% degli affetti da Alzheimer, al 27% di quelli che soffrono di altre forme di demenza.
Come leggere questi dati? Se la prognosi si fa infausta, o se si tratta di malattie rispetto alle quali la medicina si sente impotente, come le demenze, la verità viene detta più raramente: non solo sulla prognosi, ma anche sulla diagnosi. E i medici americani hanno ammesso la loro difficoltà nel dire la verità al malato. In Italia, dati come questi non sono neppure raccolti, e non oso immaginare cosa emergerebbe da una tale indagine.
Inutile ricordare anche che nella maggioranza dei casi il consenso informato è oggi un foglio che ha come principale ruolo quello di proteggere il medico da eventuali rivendicazioni legali da parte dei pazienti. Venuto meno il paternalismo, non è stato sostituito da una relazione aperta e sincera tra medico e paziente, dall’auspicata alleanza terapeutica. Anzi. Entrambi sono sulla difensiva, due diffidenze si incrociano. Il paziente teme l’incompetenza del medico, non accetta che la medicina possa fallire, e non è più paziente, ma esigente, come scrive Ivan Cavicchi. E il medico, che da un lato pensa di dover essere onnipotente, e dall’altro sa di poter fallire, cerca di proteggersi da eventuali denunce.
In questa pessima situazione, che fortunatamente ha un certo numero di felici eccezioni, era senz’altro indispensabile una legge che spiegasse bene in cosa consiste il consenso informato, quali sono i diritti dei cittadini e i doveri dei medici. E tuttavia, non possiamo dare un giudizio positivo su questa legge, neppure su questo prezioso articolo 1.
Quando si vuole cambiare una prassi, infatti, non è sufficiente enunciare come dovrebbero andare le cose. Occorre stabilire come fare perché le cose cambino. In questo caso, è indispensabile (la legge lo dice) fare formazione ai medici, affinché imparino a parlare con i loro pazienti, e a comunicare anche le cattive notizie. Affinché i dottori comprendano che la speranza non è necessariamente aspettativa di guarigione, e che i pazienti hanno tanti altri tipi di speranza che possono coltivare, anche alla fine della vita. Affinché i dottori riescano a mettere in gioco anche la loro umanità, la loro umana fragilità, nel parlare con i pazienti (e allora si vedrebbero le denunce contro i medici diminuire vertiginosamente). Il tempo della comunicazione è tempo di cura, recita la legge. Bellissima affermazione di principio, ma come ottenere che entri nella prassi clinica?
Senza un’adeguata e sistematica formazione, non c’è speranza che le cose cambino, se non con enorme lentezza: i tempi lunghi dei cambiamenti spontanei di mentalità.
Ma questa legge non fa nulla per essere motore di cambiamento: non indica quali enti dovrebbero fare formazione, e neppure stanzia denaro, neppure un euro, a tal fine. Neppure auspica che una vasta campagna di informazione sia dedicata ai cittadini e ai pazienti, che continuano a delegare ai medici scelte che non sanno di poter fare in prima persona e che non ritengono di avere la capacità di fare. Peccato. L’ennesimo contentino a chi voleva la legge, l’ennesima occasione perduta.