I Met You: cosa succede quando una madre incontra nella realtà virtuale la figlia morta? di Davide Sisto
Il 6 febbraio 2020 l’emittente sudcoreana MBC ha trasmesso una parte sostanziosa di un documentario, intitolato I Met You, il quale mostra l’incontro – tramite Realtà Virtuale – tra una donna, Jang Ji-sung, e la figlia Nayeon, morta nel 2016 a sette anni a causa di un tumore. Il progetto, portato avanti dall’emittente sudcoreana per oltre otto mesi, si è occupato innanzitutto della graduale ricostruzione delle fattezze e della voce di Nayeon, a partire dalle fotografie e dai documenti audiovisivi che l’hanno immortalata nel corso della sua breve vita. In secondo luogo, ha usufruito del sostegno offerto da un’altra bambina della stessa età, la quale è stata sottoposta a più sessioni di motion capture per rendere realistici i movimenti dell’avatar. Quindi, ha creato un ambiente virtuale specifico che, simile a un parco, risulta composto da un prato, da un numero significativo di alberi e da un cielo costellato da molteplici nuvole bianche. All’interno di questa specie di parco è stato inserito l’avatar di Nayeon, una volta integrate insieme le sue personali memorie digitali e le movenze dell’altra bambina sottopostasi al progetto.
Il risultato, visibile anche su YouTube all’interno di un video condiviso dalla MBC stessa e visualizzato da quasi venti milioni di utenti, è sconvolgente: il documentario, infatti, sovrappone costantemente la presenza “fisica” della madre nell’asettico studio di registrazione alla sua presenza “virtuale” nel mondo creato a tavolino, al quale si accede tramite un visore. Il video mostra Nayeon che si muove verso la madre, comincia a dialogare con lei, le dona un fiore e poi le offre una fetta di torta, dal momento che l’incontro ha avuto luogo nel giorno del compleanno della bambina. Jang Ji-sung, in lacrime, muove le mani nel vuoto, in direzione del volto della figlia che le appare sullo schermo del visore: l’alternanza delle riprese tra il mondo reale e il mondo virtuale mette lo spettatore nella condizione di cogliere gli effetti che produce l’immersione in un mondo immaginario. La vicenda di Jang Ji-sung e Nayeon evidenzia i giganteschi progressi nell’ambito di quella “presenza psicologica” che – secondo Jeremy Bailenson, direttore del Virtual Human Interaction Lab in California – dovrebbe rappresentare la caratteristica fondamentale della Realtà Virtuale, annullando la distanza tra il mondo reale e quello virtuale. Non a caso, Jang Ji-sung, una volta superata la commozione, descrive l’esperienza vissuta con queste parole: “Forse è davvero il Paradiso. Ho visto Nayeon, che mi ha chiamata, mi ha sorriso, è stato molto breve ma è stato un bel momento. Penso di aver vissuto il sogno che ho sempre voluto. Spero che tante persone si ricordino di Nayeon dopo aver visto lo show”.
Le parole usate da Jang Ji-sung sono, a mio avviso, molto importanti per cercare di comprendere una simile iniziativa senza assumere una posizione – anche comprensibilmente – solo negativa. Chiunque lavori, infatti, nel campo dell’elaborazione del lutto sa bene quali siano i pericoli di questo esperimento tecnologico: in una situazione di particolare fragilità emotiva e psichica, si rischia di confondere la rappresentazione virtuale con la realtà “fisica”, maturando una dipendenza che vanifica il ruolo salubre del rito funebre. Si mette da parte il significato positivo della rottura tra il mondo terminato (vissuto insieme alla persona deceduta) e il nuovo mondo (vissuto senza la persona deceduta), rimanendo imprigionati nel ricordo e nella sofferenza per l’assenza di un legame che è venuto fisicamente a mancare.
Le parole di Jang Ji-sung portano alla luce, tuttavia, un altro significato da attribuire a questo esperimento: esso rappresenta un breve momento di ricongiunzione, simile a un sogno, che permette alla madre di interagire – almeno, una volta ancora – con la figlia deceduta. Dagli albori dei tempi, ogni innovazione tecnologica nasconde implicitamente in sé il desiderio di mantenere un legame, non solo spirituale, con il morto. Pensiamo, banalmente, alle numerose diatribe sui pericoli che le invenzioni della fotografia e del fonografo generavano all’interno del fragile legame tra i vivi e i morti. L’uso della Realtà Virtuale, in questo senso, permette di rendere più vivido il ricordo delle movenze, dello sguardo e della voce del morto, impendendo che il tempo ne determini la lenta e malinconica cancellazione dalla memoria. Permette, da un altro punto di vista, di ritagliarsi una piccola via di fuga dalle leggi della vita, riprendendo il contatto desiderato con la persona che non c’è più, anche se all’interno di un contesto finzionale.
Ora, sono ampiamente consapevole dei tanti rischi che ne derivano: innanzitutto, la potenza della Realtà Virtuale non è paragonabile a quella della fotografia, dal momento che la prima a differenza della seconda permette una vera e propria interazione con il morto. In secondo luogo, non tutti hanno la lucidità e la razionalità per non rimanerne intrappolati. In terzo luogo, non tutti maturano lo stesso tipo di rapporto con il proprio passato: c’è chi è più propenso a rimanerne nostalgicamente legato e, in tal caso, l’esperimento di I Met You può generare solo conseguenze negative. Infine, bisogna tener conto delle differenze culturali: i paesi orientali come la Corea del Sud, il Giappone e la Cina hanno un legame tradizionalmente più intimo e complesso con le rappresentazioni tecnologiche delle persone (gli ologrammi, per esempio, svolgono un ruolo sociale molto più sviluppato rispetto al nostro paese). Pertanto, ciò che funziona all’interno di determinate culture e società non è detto che funzioni in altre culture, portate a una maggiore diffidenza nei confronti delle innovazioni tecnologiche.
In conclusione, soppesando i pro e i contro, ci tengo a provare a interpretare I Met You senza un atteggiamento eccessivamente impaurito o pregiudizievole. Mi piace vederlo come un tentativo molto innovativo, quasi utopico, di mantenere vivo il ricordo dei propri cari, pur essendo consapevole che ogni innovazione porta con sé una serie di pericoli che mai vanno sottovalutati. Credo che al pregiudizio sia necessario contrapporre quell’apertura mentale che permette di affrontare la rivoluzione digitale in corso con razionalità, di modo da offrire alle persone che rischiano di rimanerne intrappolate il miglior supporto possibile, un supporto che viene inevitabilmente a mancare se si dice a ogni novità tecnologica “no” a prescindere.
Cosa ne pensate?