La demenza e la paura di dipendere dal prossimo
Vorrei oggi provare a guardare la malattia d’Alzheimer da un punto di vista inconsueto, che definirei culturale.
Mettiamo per un breve periodo tra parentesi la paura che succeda ai nostri cari o a noi stessi. Facciamo cadere in un momentaneo oblio le immagini che abbiamo dei malati che ci è accaduto di andare a trovare o di curare a casa: le loro parole per noi prive di senso, il loro errare senza sapere dove, le loro fughe, la loro confusione, e la rabbia, lo sguardo perduto, l’immobilità vuota, l’impossibilità di riconoscerci, il loro perdere progressivamente l’abilità di vestirsi, lavarsi, alzarsi, mangiare. Dimentichiamo anche la nostra sconsolata disperazione, il nostro sentimento di solitudine, se si è trattato di una persona per la quale abbiamo nutrito affetto. E i molteplici problemi pratici ed economici che l’assistenza ha creato o crea.
Vi sto chiedendo molto? Avete ragione… “a che pro?” vi domanderete.
Vorrei riflettere su un timore diffuso, quello di PERDERE L’AUTONOMIA e di DIPENDERE DA ALTRI. Si tratta forse della “Paura” per antonomasia, che ci destabilizza almeno quanto quella di soffrire o di morire. Anche se dipendere da altri è una necessità in molte patologie, il malato di demenza rappresenta l’incarnazione di questo terrore, poiché il decorso della malattia è una progressiva scomparsa della memoria e delle abilità acquisite.
Così, a volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “se mi ammalo di demenza, mi uccido”. “Stare al mondo con la demenza è vegetare, non vivere”. “Nel mio testamento biologico ho scritto che non voglio mi si diano antibiotici se avrò una complicazione polmonare, frequente nei malati di Alzheimer” (questo è quello che ho detto io).
Perché ci fa tanta paura dipendere da altri? Che timore nascondiamo, esattamente, dietro quel senso di disagio intollerabile, al solo pensiero di non essere autonomi? C’è qualcosa che possiamo fare per mitigare la nostra paura?
Vi ricordate quando eravamo bambini e avevamo la febbre? Era una pacchia mangiare sul vassoio che la mamma portava a letto, la spremuta d’arancia, i giornalini nuovi, papà che tornato dal lavoro si fermava in camera nostra… da piccoli non avevamo paura di non essere autonomi, di essere di peso, di dipendere dalle cure altrui. Cosa ci è successo dopo, quando siamo entrati nel mondo adulto?
Nella nostra cultura vige l’idea che fare da soli sia un valore (“si è fatto tutto da sé”), e che l’individuo costituisca l’unità minima della società (non la famiglia, non la stirpe). E cosa intendiamo per “individuo”? Un uomo con una personalità definita e stabile, razionale, padrone del proprio destino, in grado di dominare le proprie emozioni e di scegliere per sé, facendo riferimento solo alla propria volontà (senza ledere l’altrui libertà) in qualunque circostanza.
Ma siamo proprio sicuri che l’individuo autonomo, slegato dagli altri e indipendente sia il primo tassello su cui si fonda la nostra società? Non potrebbe essere il contrario? A me pare che sussista una dimensione collettiva, un “noi” che permette all’”io” di esistere: la visione dell’individuo vincente nel pensiero occidentale non pare realistica. Non nasciamo nell’iperuranio, ma in una certa porzione del pianeta Terra, in un determinato paese, in una certa epoca storica, in una famiglia, che ha reti di relazioni amicali e lavorative: siamo, quindi, dipendenti da mille fili invisibili che contribuiscono a costituire e legittimare le nostre emozioni, le nostre opinioni, le nostre scelte. Non siamo soli al mondo, apparteniamo a molti insiemi umani, a molti “noi”, che non sono immutabili (perché evolvono nel tempo) ma che ci condizionano in diversi modi, nel corpo ancor prima che nella mente. E corpo e mente, contrariamente alla tendenza occidentale a tenerli distinti, sono tutt’uno. Già Lévi-Strauss aveva messo in luce l’insistenza tematica, quasi la fissazione della cultura occidentale sull’io a discapito del noi. Il grande sociologo Baumann ci ha mostrato, più recentemente, il prezzo che paghiamo all’individualismo imperante, alla frammentazione, all’oblio della fragilità umana e della solidarietà: una solitudine senza fine.
In virtù di questo insieme di idee mitologiche sull’individuo autonomo e indipendente, da adulti tendiamo a dimenticare che la fragilità, l’impotenza, il bisogno d’aiuto che sono evidenti nel bambino, nell’anziano, e ancor più nell’anziano malato di demenza, sono universali, fanno parte dell’essere uomini. Dipendiamo dagli altri per tutto il corso della nostra vita, senza accorgercene. Poi, se ci ammaliamo, la dipendenza si manifesta, con tutti i tormenti, legati al sistema di valori nel quale viviamo, che si aggiungono al dolore di essere malati. E cominciamo a ruminare pensieri nella nostra mente affannata: “se non sono autonomo, se rischio di “dipendere” dall’altrui solidarietà, rischio di “essere di peso” per i miei figli, di frenarne la corsa, di obbligarli a dedicarmi del tempo, di distoglierli dalla professione, dal guadagno, dalla carriera. E certamente mi ameranno di meno, saranno insofferenti per queste limitazioni, anzi non mi ameranno più. Ma soprattutto, se il mio valore di persona è legato all’indipendenza, ora sono costretto a chiedere aiuto, a gravare su altri, e quindi non valgo, la mia vita perde di significato e di dignità”. Ecco i nodi principali della paura di dipendere da altri.
E la demenza? Fa una grande paura perché il malato neppure si rende conto di gravare sul suo prossimo. E questo appare oggi il culmine della mancanza di dignità. Rimando a un post successivo le complesse considerazioni etiche che l’assistenza a un malato di Alzheimer solleva.
La malattia, con il suo carico di sofferenza per malati e caregiver, ci insegna, piuttosto brutalmente, che dipendiamo reciprocamente gli uni dagli altri molto di più di quanto non ci faccia piacere ammettere. Il demente perde i ricordi, la sua memoria autobiografica se ne va, non riesce a recuperare il ricordo degli avvenimenti della sua vita, e neppure l’identità delle persone con cui ha costruito rapporti affettivi. Ha pertanto bisogno d’aiuto in ogni momento, per costruire la sua quotidianità, perché gli mancano i riferimenti necessari. E’ come se vivesse in un eterno qui e ora, sempre di volta in volta da reinventare.
Vi va di condividere come vi siete sentiti nei casi in cui avete dovuto dipendere da altri, nel corso di una malattia, in seguito a un’operazione, o per altre ragioni? E’ stato difficile? Avete provato disagio? E quando siete stati caregiver? Siete stati insofferenti o avete pensato fosse possibile dedicare tempo alla cura traendone un arricchimento personale?