Cure palliative in hospice: quando e come? Intervista ad Alessandro Valle, di Marina Sozzi
Alessandro Valle, oncologo e palliativista, è il direttore sanitario della Fondazione Faro di Torino, ente del Terzo settore che si occupa di cure palliative sia domiciliari sia residenziali.
Ricordiamo innanzitutto ai lettori di Si può dire morte cosa è l’hospice?
Talvolta si pensa erroneamente che in hospice debbano essere curati i pazienti più gravi. Viceversa, l’hospice è un luogo di cura residenziale specialistico di cure palliative, alternativo alla casa, utile quando le persone, per motivi soprattutto ambientali, non possono essere assistite a domicilio.
Quali sono i principali motivi per cui si opta per l’hospice piuttosto che per la casa?
Per essere seguiti a casa da un centro di cure palliative specialistiche domiciliari occorre una continuità assistenziale da parte dei familiari di 24 ore su 24, vista la gravità dei malati che usufruiscono di questi servizi. I medici e gli infermieri fanno visite frequenti a domicilio, ma il resto del tempo è gestito dai congiunti, o da assistenti familiari, quando questi ultimi vengono attivati. Se si manifesta un sintomo improvviso, acuto, grave, che desta spavento, il malato non deve evidentemente trovarsi da solo. La nostra società non favorisce molto questo accudimento domiciliare, innanzitutto per la struttura spesso complicata delle famiglie. E non tutte le famiglie possono permettersi gli assistenti familiari a pagamento.
Stando così le cose, com’è la situazione italiana degli hospice? Ce ne sono a sufficienza?
No, non sono ancora sufficienti, sono sottodimensionati sia in Italia sia nella nostra regione, il Piemonte. Lo sono già per i pazienti oncologici, rispetto ai dati epidemiologici. Ma c’è uno spaventoso sottodimensionamento se si considera l’esigenza di implementare le cure palliative anche per le patologie non oncologiche. Tanto più che, tra le cause di morte identificate dall’Istat, le più frequenti patologie oncologiche arrivano al quarto/quinto posto, mentre le prime tre sono: la cardiopatia ischemica, lo stroke e la broncopatia cronico ostruttiva. Specialmente quest’ultima presenta il bisogno (spesso disatteso) di essere seguita con cure palliative.
Le cure palliative, dal punto di vista delle competenze, sono pronte a rispondere a questi bisogni?
E’ una domanda che merita due riflessioni: la prima è che, dal punto di vista della ricettività, sia domiciliare che hospice, le cure palliative non sono pronte. Già oggi, come dicevamo prima, anche mettendo insieme le risorse del Servizio Sanitario Nazionale e del Terzo settore, non riusciamo a soddisfare il bisogno di cure palliative; la situazione peggiorerà quando aumenterà la richiesta da parte di pazienti affetti da patologie non oncologiche. La seconda riflessione riguarda la mentalità ancora “onco – centrica” di molti palliativisti. Infatti, non tutti i centri di cure palliative specialistiche sono formati adeguatamente per seguire le altre patologie, e troppi palliativisti tendono ancora a interpretare le cure palliative solo come cure di fine vita. C’è quindi ancora molta strada da fare. Bisogna formare i palliativisti, e sensibilizzare, oltre che formare, gli specialisti.
Cosa significa dirigere un hospice? Che problematiche specifiche ci sono?
Le maggiori difficoltà in hospice si incontrano nel sostenere i familiari. Se si è optato per l’hospice, talvolta è perché la famiglia non può essere presente, o l’abitazione non è adeguata, ma spesso è anche perché i parenti faticano a fronteggiare la sofferenza e la morte imminente del proprio caro. Le difficoltà di accettazione implicano momenti di rabbia, frustrazione, di colpevolizzazione degli operatori. Questa realtà è forse, dal punto di vista assistenziale, la parte più impegnativa. Poi ha molta importanza anche la dimensione organizzativa, l’interazione con il personale. Chi dirige deve essere presente, accogliente con gli operatori quando si trovano in situazioni difficili, ma anche in grado di riorientare il percorso tenendo alta l’asticella sia della competenza scientifica sia dell’accoglienza, entrambe fondamentali in un contesto di cure palliative residenziali.
Tenere alto il livello della competenza relazionale è la sfida più difficile. Nelle organizzazioni non profit il rischio di avere personale non adeguato al delicato compito affidatogli è minore in confronto all’ambito pubblico. La Fondazione Faro, che io dirigo, ad esempio, opera una selezione molto accurata del personale. C’è un primo colloquio di accoglienza e un piano di formazione; l’inserimento al lavoro avviene dopo un esame individuale, con un semestre di prova. In ambito pubblico vi sono i concorsi per accedere ai posti di lavoro in cure palliative, ma spesso, anche per ragioni amministrative, non può essere garantito il dispendio di energie e risorse necessarie per avere personale davvero formato.
Le cure palliative sono anche importanti per una più equa distribuzione delle risorse in sanità?
Sì, oltre al migliore accudimento dell’ammalato, c’è anche un risparmio. Risparmio che dipende soprattutto dall’evitamento di costi inutili, che scaturiscono da ricoveri ospedalieri inappropriati. Una buona assistenza, con un corretto controllo dei sintomi (anche quelli estemporanei, come le crisi respiratorie o un dolore acuto improvviso), evita il ricorso all’ospedale.
Nei Pronto Soccorso spesso vengono effettuati accertamenti diagnostici o prese decisioni terapeutiche che sono futili alla fine della vita. Quando un malato in fin di vita accede a un Pronto Soccorso, ciò accade generalmente perché i familiari sono disperati, si scompensano, possono anche essere un po’ aggressivi, e ciò innesca sovente il meccanismo spiacevole della medicina difensiva, che contribuisce ad aumentare gli interventi eseguiti, con un ulteriore esborso di risorse (e maggiore sofferenza per il malato). Il ricovero in hospice azzera gli ingressi al Pronto Soccorso.
C’è un altro problema economico indiretto, che sta emergendo, e che riguarda le ore di lavoro perse dai familiari, che devono seguire i loro congiunti in percorsi in Pronto Soccorso o in conseguenti ricoveri ospedalieri.
Ormai moltissimi studi evidenziano l’efficacia delle cure palliative per lenire le sofferenze delle persone. E questo, come sanitario, è l’aspetto che mi interessa di più. Ma gli studi evidenziano anche il circolo virtuoso che le cure palliative creano nell’utilizzo delle risorse. Nelle aziende sanitarie, però, manca sovente la visione d’insieme: ogni area costituisce un centro di costo, e il dirigente incaricato non deve sforare, ma manca una figura apicale che implementi le cure palliative sapendo che questo porterà a un risparmio e a un migliore utilizzo delle risorse che ricade su tutta l’azienda.
Voi avete esperienza di vostri cari che sono stati curati in un hospice? Volete raccontarci come vi siete trovati?