Negazione della morte e Covid-19, di Marina Sozzi e Davide Sisto
Durante i mesi più oscuri dell’epidemia di Covid-19, ci siamo interrogati più volte su cosa stesse accadendo della negazione della morte che caratterizza la nostra cultura. Da un lato, l’intera popolazione del nostro paese, soprattutto nelle regioni più colpite, è stata investita da un’acuta angoscia di morte, difficilmente ignorabile. Dall’altro lato, abbiamo assistito a diverse manifestazioni di negazione della paura e dell’angoscia, con i concerti sui balconi, così poco in accordo con le sirene delle ambulanze, e con l’hashtag #andràtuttobene.
Ora che l’epidemia ci ha dato un po’ di respiro, gli individui cercano di dimenticare quello che hanno vissuto, ignorando le precauzioni, col rischio di farci nuovamente precipitare in una seconda ondata epidemica in autunno. Pare quindi che non si possa parlare di una maggiore coscienza della mortalità indotta dalla pandemia: come spesso accade, e come sanno coloro che hanno sperimentato il rischio della vita, tale coscienza dura finché il pericolo è attuale. Una più profonda consapevolezza della finitezza richiede un processo di crescita e di riflessione personale che non deriva solo dall’angoscia di morte.
Non stiamo parlando soltanto di gente comune, di giovani che si affollano nei bar per lo spritz serale. Vi sono intellettuali di primissimo piano che hanno dimostrato di mettere in atto raffinati processi di negazione della paura. Caso emblematico, il filosofo Giorgio Agamben, teorico della biopolitica, ossia di quell’insieme di pratiche con le quali la rete dei poteri capitalistici gestisce i corpi e le vite degli individui.
Durante il lockdown, Agamben ha pubblicato numerosi brevi articoli sul sito dell’editore Quodlibet dai titoli emblematici: “Biosicurezza”, “La medicina come religione”, “L’invenzione di un’epidemia”, ecc. Il fulcro teorico di questi articoli consiste nell’evidenziare come la maggior parte dei cittadini italiani abbia accettato supinamente ogni tipo di limitazione della propria libertà – “limitazione decisa con decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato di poter imporre”, scrive Agamben – per evitare un pericolo di natura sanitaria. Addirittura, il filosofo italiano definisce “frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate” le misure di emergenza adottate per questa “supposta epidemia”. Egli è convinto che il comportamento comunemente adottato nel corso del lockdown rispecchi la trasformazione della scienza e della medicina nelle religioni del nostro tempo, le quali riconoscono nella malattia “un dio o un principio maligno […] i cui agenti specifici sono i batteri e i virus” a cui va contrapposto “un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia”. Il 17 marzo ha scritto: «È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.»
Siccome nulla è semplice e lineare, parte del ragionamento di Agamben è vicino a quello che facciamo, anche all’interno di questo blog, sulla necessità di ripensare il ruolo della morte e della malattia nella vita. È vero che la malattia è sovente trasformata in un dio maligno contro cui occorre combattere sempre e in ogni situazione fino allo stremo delle forze, usando le armi della scienza e della medicina; è vero che va sfatato il mito della medicina come onnipotente artefice di guarigione, e che occorre sottoporre a critica alcuni aspetti della biomedicina. Tuttavia, il ragionamento di Agamben ha esiti radicalmente differenti dai nostri, proprio perché, da uomo del Novecento, non riesce a fare i conti con la propria angoscia di morte, non la riconosce come componente ineludibile della stessa vita umana, componente antropologica e non prodotto di una società malata. Non entreremo nel merito della filosofia di Agamben e delle sue riflessioni sulla biopolitica. Ci sembra tuttavia che sia un buon esempio di quanto sia radicata, nella nostra cultura e nel nostro pensiero, la negazione della morte. Viene in mente anche Sartre, peraltro allievo di Heidegger come Agamben, quando scriveva che è impossibile prepararsi alla morte. La morte non fa parte delle possibilità dell’uomo, anzi è ciò che interrompe bruscamente l’arco delle possibilità di ciascuno, ne rappresenta l’annullamento. Sartre scrive che la morte appare come l’assurdo che costeggia e minaccia la vita umana: “Così la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato”.
Queste, che possono sembrare astratte dissertazioni filosofiche, ci servono per comprendere che la negazione della morte, la difficoltà della nostra cultura ad includerla nella vita, ha profonde e complesse radici nella nostra storia, e non credo che possa essere scalfita dall’esperienza del Coronavirus. Piuttosto, la pandemia potrebbe portarci a riflettere sull’esigenza di fare educazione alla morte, fin da bambini, a tutti i cittadini. Insieme all’educazione civica. Perché solo un individuo consapevole della propria finitezza può diventare un cittadino responsabile.
Che ne pensate?