Il “messaggio del giorno dopo”: leggere i pensieri scritti del caro estinto, di Davide Sisto
Il recente film documentario dedicato al chitarrista blues/rock Eric Clapton (“Eric Clapton: Life in 12 Bars”, 2017) ha riportato alla luce una nota e triste vicenda che riguarda la sua vita personale: nel 1991 il figlio di cinque anni Conor, avuto insieme con l’attrice italiana Lory Del Santo, precipita accidentalmente dal cinquantreesimo piano di un grattacielo di Manhattan, sfracellandosi su un terrazzino dopo un volo di oltre cento metri. La vicenda ha ispirato una delle canzoni più famose di Clapton, la struggente “Tears In Heaven”. Nei giorni successivi alla proiezione del film documentario nelle sale cinematografiche italiane, è stata più volte intervistata Lory Del Santo a riguardo di questa tragedia avvenuta diversi decenni fa. Un particolare mi ha molto colpito: l’attrice ricorda che, rientrata a Londra insieme a Clapton per il funerale del figlio, un giorno arriva il postino per consegnare una lettera rossa. La donna si era dimenticata che, poco prima della tragedia, Conor aveva scritto “I love you” al padre su un biglietto che Del Santo, poi, aveva spedito da New York a Londra, di modo che Clapton la ricevesse. La consegna da parte del postino di questa lettera lascia impietriti i due (ex) fidanzati: a entrambi pare di essere all’interno di una narrazione letteraria, in cui un ultimo messaggio d’amore, e di involontario congedo, viene recapitato quasi a voler simbolicamente assolvere da qualsivoglia senso di colpa il padre, assente quando il bambino è caduto dal grattacielo.
Questo episodio, al di là della sua connotazione letteraria, mi ha fatto riflettere sui cosiddetti “messaggi del giorno dopo”. Vale a dire, su tutti quei pensieri personali del morto che, inaspettatamente, vengono ritrovati da chi soffre per il lutto, aprendo ferite che si stanno rimarginando o – viceversa – offrendo inconsapevolmente un aiuto per superare il dolore momentaneo. Scritti per essere effettivamente letti, come nel caso di Conor ed Eric Clapton, o per essere invece tenuti segreti, tali pensieri hanno conseguenze significative, positive o negative, su chi è debilitato a causa della perdita.
Possono, da una parte, generare sensi di colpa e rimpianti perché i sentimenti di quella determinata persona non sono stati capiti, sono stati trascurati o, semplicemente, sono stati sottovalutati. Siamo, infatti, tutti talmente presi nel caos della vita quotidiana che, inevitabilmente, è facile perdere di vista le esigenze di chi ci sta ogni giorno accanto. Possono creare, dall’altra parte, fraintendimenti mai più risolvibili, specie se si tratta di parole scritte esclusivamente per sé in un periodo di litigio o di contrasto. Possono anche svelare segreti che era meglio non conoscere (per esempio, la presenza di un amante o qualche altro scheletro nell’armadio). O, viceversa, eliminare dubbi o preoccupazioni che non si ha avuto il coraggio di affrontare faccia a faccia.
Con la rimozione della morte dalla nostra vita quotidiana ci dimentichiamo che, improvvisamente, possiamo non esserci più e i nostri documenti rischiano di lasciare aperte ferite o di creare incomprensioni che non potranno mai più essere risolte. Da studioso della cosiddetta “morte digitale” mi sto, da tempo, occupando di tutte le novità che la quantità di dati, informazioni e comunicazioni registrati per sempre nel web producono all’interno del nostro modo di intendere la memoria, il lutto e – perché no? – l’immortalità. Pertanto, credo che un’organizzazione ragionata di ciò che scriviamo sia necessaria per il bene di chi ci ama, con l’eventualità sempre presente della morte.
Lo crede ancor più di me Margareta Magnusson in riferimento però agli oggetti fisici, non digitali. Questa studiosa svedese ha inventato il termine Dostadning, vale a dire la “pulizia della morte” (Death Cleaning in inglese). L’idea è, cioè, quella di pianificare preventivamente la propria eredità (oggetti, abiti, testi scritti, ecc.), eliminando ciò che si ritiene superfluo e meditando su cosa si desidera lasciare agli altri, siano essi oggetti o messaggi. La “pulizia della morte” offre una serie di opportunità non indifferenti: 1) ci permette di riflettere sul fatto che non siamo destinati a vivere per sempre e che tutto ciò che produciamo sopravviverà alla nostra morte; 2) ci permette di riflettere sul fatto che riempiamo la nostra casa di una quantità infinita di oggetti superflui: fare selezione fa bene anche per capire la differenza tra ciò che è veramente importante e ciò che è invece inutile; 3) ci permette di riflettere sul fatto che ogni nostra singola parola può avere degli effetti profondi su chi ci ha amato e che non avremo modo di porre rimedio, nel caso quelle parole esprimano sentimenti momentanei a cui, in realtà, poco crediamo (per chi vuole approfondire, Margareta Magnusson ha scritto, di recente, questo libro: “The Gentle Art of Swedish Death Cleaning: How to Free Yourself and Your Family from a Lifetime of Clutter”).
Avete, a proposito del “messaggio del giorno dopo”, qualche storia da raccontare? Aspettiamo le vostre risposte e le vostre riflessioni.