La morte al tempo del Coronavirus, di Marina Sozzi
In questi giorni convulsi, in cui il pericolo di contagio del coronavirus ci lascia sbigottiti, scardina le nostre certezze e mina la sicurezza delle nostre vite, mette a rischio la nostra salute (giovani o vecchi che siamo); in questi giorni in cui, se non siamo accorti, il nostro sistema sanitario nazionale rischia di collassare; in cui la nostra vita sociale e culturale è sospesa, e la nostra economia corre il pericolo di entrare in un lungo periodo recessivo; in cui la paura domina le menti, mi sono chiesta quale contributo potesse dare questo blog, che ha sempre trattato di morte.
La morte è infatti il fantasma che aleggia oggi sopra le nostre città contagiate, ferite e deserte, in modo del tutto inedito per i nostri contemporanei. Cosa aggiungere agli innumerevoli interessanti commenti scritti da giornalisti e scrittori da un mese a questa parte? Non è facile.
Tuttavia, mi pare che non solo abbiamo tutti paura di ammalarci e morire. Ma risulta anche particolarmente inquietante il “come” delle morti che il coronavirus ci mette di fronte.
Un tempo, quando la medicina non aveva strumenti efficaci per combattere gran parte delle patologie, la morte giungeva sovente a causa di malattie acute. Il morire era brutale e sopraggiungeva rapidamente.
La medicina novecentesca, con la sua ricerca sempre più efficace in farmacologia, con la sua sempre più raffinata tecnologia chirurgica e diagnostica, aveva allontanato da noi “la morte improvvisa” da malattie brevi e travolgenti, per la quale si pregava una volta “libera nos Domine”, quella morte che non ci lasciava il tempo di accomiatarci dal mondo e mettere l’anima in pace con Dio.
Oggi le nostre morti sono, nella maggior parte dei casi, morti al rallentatore, che sopraggiungono per malattie croniche e degenerative che ci privano, piano piano, di fette di vita e di autonomia. Morti prevedibili con prognosi lunghe, morti alle quali ci si può, se si vuole (se si desidera andarsene consapevolmente), abituare poco per volta, fino, in alcuni casi, ad essere davvero “sazi di giorni”.
Il coronavirus arriva imprevisto e sbaraglia (oltre a molte altre cose) anche tutto il nostro apparato di pensiero sulla morte, la nostra (mi verrebbe da dire) Death Education. Le cure palliative, l’accompagnamento, l’hospice, il domicilio, la dolcezza, perfino l’essere circondati dai propri cari: tutto quello che ci rassicurava, pur nel triste pensiero di dover un giorno morire, viene meno.
Le morti per coronavirus sono e saranno morti che si consumano in ospedale, forse in terapia intensiva, in isolamento, velocemente, proprio con quei tubi che avevamo attribuito all’accanimento terapeutico e che non volevamo più, nei nostri fine vita. L’idiosincrasia per i tubi, per respirare o per nutrirci, ci aveva portati a volere una legge che ci permettesse di stilare le nostre Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Molti di noi hanno voluto scrivere che non desideravano rianimazione, respirazione artificiale e nutrizione artificiale. E ora sembra che proprio quel rischio incomba nuovamente sulle nostre vite. E ancor peggio: i nostri cari saranno tenuti lontani, per timore del contagio. E, nelle nostre più plumbee rappresentazioni, saremo circondati solo da operatori intabarrati in scafandri protettivi e in probabile burn out da superlavoro.
Non è solo il rischio di stare male e quello di morire, che preoccupa. E’ la quarantena, il cordone sanitario che isola le persone, che separa le famiglie. E’ l’orribile percezione che chiunque può essere un pericolo per noi. E’ l’apprensione per i nostri cari. E’ questo antico apparato di un ossessivo pensiero della morte che avevamo completamente archiviato. Qualcuno, non del tutto a sproposito, ha ricordato la peste del Trecento, o quella del Seicento, anche se la mortalità del Covid-19 è certo molto diversa…. Tuttavia, il memento mori che avevamo messo in soffitta torna prepotente nella nostra quotidianità. Inutile dire che non siamo preparati a confrontarci con una tale invasiva precarietà generalizzata.
Nessuna cultura è mai stata pronta ad accogliere un’epidemia, penso. Manzoni ce lo ha raccontato in modo magistrale. Ma certo nella nostra cultura, anche coloro che non hanno negato il pensiero della morte, anche coloro che erano in grado di prendere in considerazione la propria mortalità in un contesto protetto di accompagnamento palliativo, sono ammutoliti di fronte al Covid-19. Mi includo. Siamo ammutoliti.
E ci riconosciamo fragili e paralizzati dal terrore, nonostante le nostre conoscenze, la nostra medicina, la nostra razionalità occidentale. Mi viene in mente Sartre, che sosteneva che non sia possibile prepararsi alla morte. Diceva che gli uomini sono come prigionieri reclusi nel braccio della morte: sanno di dover essere fucilati, e si preparano per quella morte, salvo poi essere falciati via da un’epidemia di influenza spagnola.
E mi viene in mente anche un altro pensiero. Anche le nostre morti, addolcite e ovattate, sono un incredibile privilegio, uno straordinario esito della nostra cultura. Speriamo di poter presto tornare a pensare alla morte per malattie croniche…
Credo sia utile raccontarci la nostra paura, o ciò che ci passa per la mente di fronte a questo pericolo nuovo. Aspetto i vostri commenti.