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Tag Archivio per: Death education

Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

16 Maggio 2025/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Si parla moltissimo di Death Education. Alla base del bisogno di “educare alla morte” sta l’idea che la nostra società sia incapace di affrontare il morire e il lutto: quindi si rende necessaria qualche forma di “pedagogia” che insegni a tutti noi come prepararsi alla morte propria e dei propri cari.
Ho già scritto in questo blog che non condivido più l’idea di questa inadeguatezza del nostro tempo. E cito solo un fattore di grande adeguatezza: la nascita e la diffusione delle cure palliative, che hanno saputo elidere la sofferenza che accompagnava il morire. E scusate se è poco…
Peraltro, la discussione sulla possibilità che gli esseri umani hanno di prepararsi alla morte è antica quanto il mondo. Per citare solo i più famosi filosofi che hanno partecipato a un dibattito che si è dipanato nei secoli, ricordiamo Socrate, Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne, Spinoza, Schopenhauer, e, più vicini a noi, Heidegger e Sartre. Per alcuni di questi pensatori riflettere sulla morte significava imparare a vivere una vita più piena e consapevole, attribuendole un senso più profondo.
Altri hanno ritenuto futile ragionare sulla morte e cercare di prepararsi, perché questa ci coglie spesso di sorpresa, e ignoriamo quando e come si verificherà. Siamo vivi e possiamo meditare solo sulla vita, che è l’unica cosa che conosciamo.
Questo dibattito è ancora attuale.

Ora, io non sono certa che si possa insegnare alle persone a prepararsi a morire, malgrado le innumerevoli “Preparazioni alla morte” pubblicate nel medioevo e nel rinascimento. Lo stesso Erasmo da Rotterdam scriveva, proprio nella sua Della preparazione alla morte, che non c’è buona morte senza buona vita.
Ma anche la buona vita non basta. In cure palliative è noto che soltanto poche persone con grandi risorse emotive e culturali riescono a “entrare nella morte ad occhi aperti” (per usare le parole di Marguerite Yourcenar) e con serenità.

Che fare dunque? In primo luogo, non facciamoci troppe illusioni: stiamo cercando di fare i conti con ciò che gli esseri umani sanno essere il pericolo maggiore, e che tutte le culture del mondo hanno considerato un tabù. Non è facile e continuerà a non essere facile.

In secondo luogo, occorre tenere presente una distinzione di cui abbiamo più volte dibattuto, ma che mi sembra utile riassumere. 1) La preparazione alla «morte» è impossibile, se intendiamo la morte come momento del decesso. Infatti, come scriveva Jankélévitch, di fronte al nostro annichilimento il pensiero si azzera: la morte non è pensabile. Jankélévitch affermava che talvolta possiamo sfiorare tangenzialmente la nostra morte, ad esempio quando ci troviamo un capello bianco o una ruga in più. Allora abbiamo una breve rivelazione del fatto che essa giungerà, ma questa intuizione ci fa rimbalzare verso la vita, non possiamo soggiornare nel pensiero della morte. Quando tocchiamo brevemente la fine che verrà, tuttavia, la nostra vita è arricchita dalla consapevolezza del limite comune dell’umano, la mortalità, che ci sospinge verso una dimensione più etica dell’esistere. La preparazione alla mortalità è dunque cosa diversa, i due termini morte e mortalità non sono interscambiabili.

2) La percezione della finitezza, quando è profonda e matura, ci orienta verso la dimensione della cura, del prendersi cura dell’altro, visto nella sua vulnerabilità, uguale alla nostra, e ci allontana dalla violenza, qualunque forma quest’ultima assuma. La tua vulnerabilità è come la mia, io potrei essere al tuo posto.

3) C’è ancora un terzo senso in cui possiamo preparaci alla morte, quando quest’ultima è prossima. Possiamo allora (ma è compito straordinariamente difficile) prepararci a lasciar andare la propria vita, ad accettare che possa concludersi, ed è cosa che si può fare soltanto sul letto di morte.

Ma come si raggiunge la consapevolezza della mortalità, l’unica che possiamo coltivare quando stiamo bene? Attraverso la pedagogia? Non credo. E’ soprattutto nel corso della vita, grazie all’esperienza inevitabile delle perdite, della malattia, della frustrazione. Anche se non sempre queste esperienze fanno crescere la consapevolezza, perché siamo umani e talvolta non riusciamo a orientare gli eventi della nostra biografia in una direzione progressiva, e magari accumuliamo rabbia o rancore. Ma coloro che riescono a far tesoro delle esperienze dolorose o difficili acquisiscono una più alta umanità.

Che ruolo hanno dunque gli studi sul morire e sul lutto? Non ci proteggono dall’angoscia di morte, non sono “preparazione” alla morte.
Sono fondamentali perché arricchiscono il nostro sapere e la nostra capacità di gestire la fine della vita, di garantire la migliore qualità della vita di chi muore, e di sostenere coloro che affrontano la morte altrui. In parte parliamo di studi scientifici (includendo in questa espressione anche quelli umanistici, a scanso di equivoci) rivolti ai professionisti. In parte parliamo di una buona e seria divulgazione, rivolta a tutti i cittadini. Non chiamerei tutto questo Death Education, perché mi pare presuntuoso pensare di educare qualcun altro a fare i conti con il limite e la mortalità. Come tutti gli altri studi, accrescono il nostro bagaglio di conoscenza.

Cosa ne pensate? Avete acquisito questa consapevolezza della mortalità? E se sì, come l’avete raggiunta? Grazie, come sempre, per i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/clessidra.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-16 10:59:552025-05-16 10:59:55Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi

Death information & Death education? di Nicola Ferrari

18 Gennaio 2024/47 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Riceviamo e pubblichiamo con piacere questa riflessione di Nicola Ferrari, che da molti anni, con l’associazione Maria Bianchi di Mantova si occupa di sostenere le persone in lutto.

Cos’hanno in comune, nell’ambito della Death education, eventi quali convegni, lectio magistralis, laboratori, tavole rotonde, spettacoli teatrali, concerti, reading di poesie, mostre di fotografie e pittura, rassegne letterarie, seminari, cineforum e poi passeggiate tra i cimiteri, cene in nero, escursioni di gruppo all’imbrunire, Death café, gala, dialoghi con autori, visite guidate, letture sceniche, performance, installazioni visuali e sonore, webinar, podcast, libri, video caricati in rete, live streaming, incontri sui social media, blog, forum e senza dubbio anche altro?

L’idea che educare corrisponda a informare, istruire, condividere esperienze, pensieri e vissuti; detto in altre parole: la Death education si basa sull’idea che aumentare le conoscenze specifiche su questo aspetto della vita, e narrarsi gli uni con gli altri, significhi educarsi (e forse prepararsi) alla morte.

Che cosa significhi nel concreto educarsi alla morte è un quesito complesso, che pone a sua volta molti altri interrogativi (cfr. in questo blog il contributo Death education? di Marina Sozzi, che li presenta in dettaglio). Ma, indipendentemente da questi problemi, che includiamo nell’ambito più vasto della tanatologia, nel significato della parola ‘educazione’ è connaturato, e continuamente ricercato, il cambiamento della persona coinvolta.

Non esiste autentica attività educativa che non preveda, come fine ultimo, la possibilità di una trasformazione, di uno sviluppo, in virtù del quale le potenzialità del soggetto vengano, nell’ormai classica e accettata analisi del termine, tirate fuori, estese, dilatate. È proprio per questo che trovo il termine Death education, declinato poi nelle varie attività citate all’inizio, piuttosto inappropriato: non basta, purtroppo, ascoltare persone esperte sul tema, che con le loro proposte fanno sorgere in noi nuove considerazioni, non è decisivo aumentare la conoscenza su aspetti psicologici, sociali, spirituali che non si possedevano prima, o confrontarsi e dialogare sui temi della mortalità, del lutto, del fine vita, così come non è sufficiente vivere emozioni ed esperienze individuali o in gruppo appositamente predisposte.

Il tema della morte, nostra e altrui, del lutto, della finitezza e tanto altro, non è una questione satellitare, non è trattabile come altri temi o situazioni della vita che ci riguardano ma in modo più tangente, rispetto ai quali le iniziative culturali citate sopra sarebbero strumenti utili e sufficienti per farci un’idea e prendere posizione.

Ciò non significa che gli incontri pubblici siano inutili: proporli significa coinvolgere e appassionare persone, ma si tratta in questi casi di Death information, non di Death education cioè di occasioni per avvicinarsi, per introdursi, per prepararsi a un cammino di ben altro spessore. Perché ognuno di noi possa vivere un percorso educativo rispetto alla morte occorre che gli accada altro, di più, di diverso rispetto al solo ascolto, lettura, confronto, dibattito.

Magari potessimo arrivare a fare i conti con la nostra fine, con la perdita di chi amiamo, con l’annuncio o il periodo di una grave malattia, così come vorremmo che accadesse, magari con quella forza, serenità, coraggio, consapevolezza che stiamo cercando e che costituiscono le ragioni per cui partecipiamo ad eventi, per cui leggiamo libri sul tema, eccetera.

Death information è quindi il termine secondo me più appropriato, corretto ed efficace da utilizzare, ben sapendo che una parola è molto più di una parola: stiamo parlando di ciò che è necessario per avvicinarsi al tema della morte, per potersi accostare con un primo livello di coinvolgimento emotivo, ampliando la nostra conoscenza, cominciando a conoscere altre persone con la loro storia, la loro ricchezza e la loro fragilità.

La Death education si pone invece al livello seguente, non per valore o qualità ma perché offre un percorso successivo che permette (o almeno tenta) di attivare un cambiamento dentro se stessi rispetto alla modalità di affrontare la questione cardine della morte. E questo percorso, che si può declinare in modi diversi, ha però delle caratteristiche ineliminabili che lo contraddistinguono e che si distinguono dalla prima fase di Death information:
– una durata temporale significativa, a differenza del momento puntuale da dedicare a un convegno, un evento, un incontro;
– il totale coinvolgimento della persona, che non si pone quindi solo in una modalità ricettivo-passiva, di mero ascolto;
– la disponibilità a mettersi costantemente in relazione con la propria esperienza di vita;
– la concentrazione sui cambiamenti concreti da attivare come conseguenza di uno sviluppo sulle questioni che vengono affrontate;
– la necessità di confrontarsi nel tempo quando, come può accadere, ci si trovi ad affrontare la morte reale, propria o altrui.

Non è semplice stabilire come realizzare ciò che definisco Death education; come strutturare i percorsi per indurre una più profonda consapevolezza, che integri e specifichi, la precedente; come affrontare i limiti intrinseci in qualunque cammino; come valutare gli esiti. Queste difficoltà non cambiano, a mio avviso, la questione di fondo: è necessaria una nuova espressione (Death information) per definire ciò che oggi facciamo intorno al tema della morte.

Cosa ne pensate? Il termine Death information vi sembra più appropriato? Cosa fate per accostarvi al tema della morte, e cosa ne ricavate? Grazie, come sempre, per il vostro contributo.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/01/history_hourglass_photos_gol.jpg 265 351 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-01-18 18:26:082024-01-19 08:43:41Death information & Death education? di Nicola Ferrari

Death education? di Marina Sozzi

23 Novembre 2022/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

foto-di-A.Zhuravleva

L’espressione “Death education” è così diffusa tra coloro che si occupano di morte e morire che pare che il suo significato sia arcinoto e scontato. Tuttavia, se ci fermiamo un attimo a riflettere, è piuttosto fumosa e poco concreta.

Desidero quindi pormi degli interrogativi su questa locuzione: chi, come e a che scopo dobbiamo educare alla morte?

Cominciamo dal chi: i bambini? gli adulti? gli operatori sanitari e sociosanitari? le persone in lutto? coloro che aiutano le persone in lutto? coloro che affrontano la propria morte? tutti i cittadini del mondo occidentale?

E come? Con interventi nelle scuole, facendo cultura, formazione, proponendo riflessioni sulla morte, moltiplicando blog come questo, pagine Facebook o altri canali social? Questi interrogativi, come vedete, ci spalancano la visione di un insieme complesso di problemi differenti, che sarebbero da affrontare separatamente. La Death education appare una sintesi che, invece di essere funzionale, ci impedisce di entrare nel merito di ogni singolo aspetto.

Ma ora arriva la parte più ardua.  A che scopo dobbiamo educare alla morte? E perché esiste questa necessità?

La Death education è infatti la risposta che si usa dare a un altro luogo comune, ossia l’idea che esista nella nostra cultura un diffuso tabù, o rimozione, o negazione o evitamento della morte. In concreto, quando pensiamo alla negazione della morte ci vengono in mente i nostri contemporanei che denunciano gli operatori sanitari quando muore una persona cara; ci ricordiamo di coloro che ignorano la vulnerabilità propria disprezzando quella altrui (migranti, poveri, malati, vecchi, disabili, morenti, come scriveva in modo magistrale Norbert Elias in La solitudine del morente); pensiamo ai medici che non si arrendono davanti alla morte neppure quando è tempo, e continuano a proporre terapie futili e inappropriate, privando i malati della consapevolezza; pensiamo ai familiari che mettono in atto la congiura del silenzio; pensiamo ai genitori che non dicono ai bambini che è morto un nonno o l’altro genitore. Sono problemi sociali sui quali è bene mettere pensiero, e che non intendo certo minimizzare.

Tuttavia, dopo le grandiose opere di Philippe Ariès e Michel Vovelle, le riflessioni di Geoffrey Gorer e Norbert Elias, manca oggi un lavoro che approfondisca questo specifico tema, quello dell’evitamento della morte. Davvero neghiamo la morte? O la paura e l’orrore per la morte ha assunto forme differenti nelle varie culture, e ci troviamo oggi di fronte non a una svolta storica (che ci permetta di contrapporre un passato di familiarità con la morte all’odierna difficoltà) quanto a una forma storicamente determinata di risposta alla morte? E’ una domanda che dobbiamo porci, perché è anche vero che la conoscenza della propria mortalità (il sapere di morire) rappresenta una minaccia esistenziale per l’uomo in quanto la morte è in contrasto con l’istinto di sopravvivenza che caratterizza tutti gli esseri. Esiste quindi una quota di ansia legata al pensiero della mortalità, che non dipende solo dall’atteggiamento di una cultura nei confronti della morte, ma che è un elemento antropologico.

La risposta contemporanea alla morte è magari poco efficace. Ma si tratta pur sempre di una elaborazione culturale complessa, che è riduttivo interpretare semplicemente come una carenza, alla quale rispondere con la Death education, intesa come una sorta di bacchetta magica.

Intanto, mi viene spontaneo notare che è pressoché impossibile fare “educazione alla morte”. La consapevolezza della morte non è possibile raggiungerla se non si è in prossimità della fine della vita, nel momento in cui la propria morte assume contorni di realtà e attualità.

Quello che è possibile fare è educare alla mortalità, che è cosa diversa, e non è solo questione di termini. Saper riconoscere la propria finitezza, quindi la propria vulnerabilità, fa di noi esseri migliori, più tolleranti nei confronti degli altri, più capaci di vicinanza, più attenti alla sofferenza altrui (ma anche più capaci di individuare la propria e comprenderla). Il modo migliore per educare alla finitezza sembra essere aiutare le persone, se possibile fin da bambini, ad accettare qualche frustrazione, ad accogliere il limite, che ci segnala appunto la nostra imperfezione e fragilità. Educare alla finitezza significa dare il senso del limite.

Il che ha a che fare con la morte solo parzialmente. La morte è la Finitezza per antonomasia, con la maiuscola, e certo può servire far comprendere ai bambini, per gradi, e seguendo la loro capacità di comprensione, che siamo mortali. Accanto a questo è altrettanto indispensabile l’alfabetizzazione emotiva, che è altrettanto fondamentale. Saper riconoscere le proprie emozioni e dare loro un nome significa anche riuscire più facilmente a tollerarle.

Questo discorso complesso non è certo concluso, anzi è appena dissodato. Ma credo sia importante, passo dopo passo, provare a mettere in forse le certezze troppo radicate che hanno preso forma in quel meraviglioso crocevia di saperi che è la tanatologia, il discorso sulla morte.

Avete voglia di seguirmi in questa riflessione, che avrà altre puntate?

E intanto: voi che cosa pensate della Death Education?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/11/bambini-modulo-5-e1669149950327.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-11-23 10:14:592022-11-23 10:26:51Death education? di Marina Sozzi

La Death Education tra i carabinieri, di Davide Sisto

14 Gennaio 2022/2 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

A novembre 2021 sono stato invitato a Viareggio, in qualità di tanatologo, al convegno “Suicidi in divisa. Analisi, gestione e prevenzione del fenomeno. Aspetti civili e penali”, organizzato dal Nuovo Sindacato Carabinieri (NSC). L’urgenza di questo convegno nasceva dal fatto che, a partire dal 1° gennaio, si erano suicidati nel corso dell’anno appena passato circa cinquanta esponenti delle forze dell’ordine: sette guardie giurate, sei appartenenti alla Polizia Locale, cinque alla Polizia Penitenziaria, quattro alla Polizia di Stato, quattro alla Guardia di Finanza, due alla Marina Militare e ben ventidue esponenti dell’Arma dei Carabinieri. Pertanto, il NSC ha voluto provare ad analizzare le molteplici ragioni di questo drammatico fenomeno con l’ausilio di associazioni che si occupano in maniera specifica del problema, quindi di psicologi, sociologi, politici, giornalisti, ecc. Particolare attenzione è stata dedicata alla presenza di Sergio De Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo, noto per aver arrestato nel 1993 Totò Riina.

All’interno di questo contesto assai variegato ho ritenuto preziosa la possibilità di portare il mio contributo in quanto studioso di tanatologia e Death Education. Ora, occorre innanzitutto fare una premessa doverosa: il tema dei suicidi in divisa implica un necessario rimando a un insieme di fattori psicologici, familiari, sociali, culturali e ambientali che ineriscono allo specifico ambito lavorativo di cui parliamo. Di conseguenza, non è compito di un professionista esterno entrare – con presunzione di conoscenza – all’interno di quelle dinamiche gerarchiche, disciplinari, relazionali e, a volte, giudiziarie che caratterizzano la quotidianità di chi presta servizio nelle forze dell’ordine. E che, di fatto, sono a fondamento – quando risultano particolarmente stressanti o ingiuste – della scelta estrema di togliersi la vita.

Detto questo, il contributo della Death Education può essere fecondo, in primo luogo, riguardo alla possibilità di acquisire chiara consapevolezza delle conseguenze negative della rimozione sociale e culturale della morte. Prendere coscienza della necessità di discutere senza pudore o imbarazzo della morte e della nostra costitutiva vulnerabilità esistenziale significa, infatti, offrire uno strumento importante per ridimensionare quei meccanismi tossici che, contraddistinguendo i legami gerarchici e il mito della mascolinità, provocano un senso di isolamento nel singolo lavoratore. Spesso, in altre parole, un certo superomismo malato può essere ridimensionato anche tenendo conto della democratica finitezza esistenziale che non esclude nessuno e che è alla base della rivalutazione qualitativa dei rapporti interpersonali.

In secondo luogo, la Death Education può rappresentare un punto di partenza importante per rivedere il rapporto tra la società e il tema del suicidio, il quale risulta essere ancora oggi il non plus ultra dei tabù. Di suicidio si parla il meno possibile, spesso nemmeno lo si menziona quando ha luogo. Si tende, generalmente, ad associare la scelta del suicidio all’effetto di una debolezza psicologica che, prima, porta all’isolamento lavorativo del singolo individuo, soprattutto in ambienti di lavoro in cui la forza – mentale e fisica – è ritenuta imprescindibile. Poi, una volta avvenuto il suicidio, spinge a concentrarsi sui sensi di colpa, sulla rabbia nei confronti del suicida, sull’insieme di cose che si potevano fare e non si sono fatte. Quindi, porta l’attenzione più sugli altri che su chi ha ritenuto che vivere non avesse più senso. Un’attenzione precisa dedicata alle evoluzioni storiche e sociali del suicidio, al legame tra il suicidio e la disposizione arbitraria della propria vita, al confine labile tra l’opportuna prevenzione e l’inopportuna – invece – patologizzazione del gesto suicidario richiedono l’ausilio di tutti quei professionisti che si occupano di tanatologia e di Death Education e che possono fornire anche solo degli spunti per districarsi nella complessità delle questioni.

In altre parole, ritengo sia doveroso riuscire a estendere la presenza dei tanatologi in tutti quei campi lavorativi in cui è basilare una riflessione attenta sul nostro legame con il fine vita. Così come è importante che, all’interno della nostra società, ci si cominci ad accorgere di questo peculiare campo di studi interdisciplinari, cogliendo il filo rosso che lega molteplici nevrosi presenti nei nostri rapporti interpersonali alla decennale rimozione sociale e culturale della morte dal nostro quotidiano.

Voi cosa ne pensate? Ritenete utile la presenza dei percorsi di Death Education in più ambiti lavorativi della nostra società? Come sempre, attendiamo commenti e riflessioni.

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Quali hospice per il futuro? di Marina Sozzi

23 Ottobre 2021/9 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nella mia vita ho visitato molti hospice, alcuni sono all’interno di strutture ospedaliere, altri hanno la fortuna di godere di una posizione meravigliosa, di essere all’interno di ex ville, con parchi ricchi di alberi secolari e vista di grande bellezza. Gli hospice non sono tutti uguali, alcuni somigliano un po’ troppo a reparti ospedalieri, altri riescono a dare l’idea della casa che vogliono il più possibile mimare.

Quasi tutti, però, sono spesso difficili da trovare, decentrati rispetto al centro della città, e all’interno degli spazi dedicati si fa solo assistenza a chi sta lasciando la vita. Certo, talvolta all’interno degli hospice ci sono attività culturali, musicoterapia o arteterapia, Pet Theraphy e altre iniziative. A mio modo di vedere non basta.

Forse è giunto il momento di ripensare un po’ la nostra concezione dell’hospice, così come dobbiamo imperativamente ripensare le RSA dove muoiono i nostri anziani.

Il punto è che tutte queste strutture risentono un po’, nonostante le migliori intenzioni (soprattutto delle cure palliative), della difficoltà che la nostra cultura ha nel rapportarsi con la morte. La morte è sempre marginalizzata, e negli hospice entrano solo gli addetti ai lavori, medici palliativisti, infermieri di cure palliative, e gli altri professionisti dedicati (oltre ai familiari e ai volontari, naturalmente, pandemia  permettendo).

E se immaginassimo invece di collocare un hospice nel cuore pulsante di una città? Di affiancare all’hospice, nella stessa struttura architettonica, le famose case della salute dei medici di famiglia di cui tanto si parla, ambulatori di medici specialisti, ambulatori di cure palliative simultanee o precoci, e centri di formazione sanitaria e culturale, o comunque luoghi frequentati da molte persone per svariate ragioni?

Lo scopo sarebbe molteplice: ottenere che altre specialità mediche si confrontino quotidianamente con l’approccio palliativo, vedendo i colleghi lavorare e incontrandoli alle macchinette del caffè; rendere più facile, per i medici di medicina generale, attivare per tempo le cure palliative; fare in modo che i cittadini passino frequentemente di fronte all’hospice, ed entrino nella struttura anche per fare altre cose (vedere il loro medico di famiglia o altri curanti, sentire un concerto o una conferenza), così da favorire una maggiore familiarità con la fine della vita; contribuire alla diffusione delle cure palliative precoci e simultanee.

I numeri ci dicono che il bisogno di cure palliative sta crescendo in modo esponenziale nel mondo, e in particolare nei paesi in cui c’è una lunga aspettativa di vita e quindi molte persone anziane e fragili.

Invece di parlare in modo aulico e teorico di Death education (peraltro utile e sacrosanta, specie se si va a farla nelle scuole), perché non proviamo a rivoluzionare i luoghi in cui siamo soliti nascondere i malati gravi e i morenti?

Le cure palliative dovrebbero continuare la loro opera di istanza critica nei confronti della biomedicina, ma anche nei confronti di loro stesse, per evitare il rischio di diventare solo una branca della medicina (a maggior ragione ora che c’è una Scuola di specialità in cure palliative), e riuscire invece a progettare sempre nuovi modi di integrare la morte nella vita.

Che ne pensate?

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La Death education e l’emergenza sanitaria, di Davide Sisto

7 Settembre 2020/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante il periodo primaverile di lockdown in tanti abbiamo sperato nell’acquisizione inedita da parte dei cittadini italiani di una maggiore consapevolezza nei confronti del proprio essere mortale. L’improvviso pericolo quotidiano, accompagnato dalle ricorrenti immagini dei morti e dei morenti sui social network e nelle trasmissioni televisive, ha spinto addirittura a credere che col passare del tempo si sarebbe probabilmente prestata molta più attenzione collettiva nei confronti dei percorsi di Death Education, solitamente messi da parte – tanto dalle istituzioni pubbliche quanto dai privati cittadini – a causa della decennale rimozione della morte dallo spazio pubblico.

Ora, giunti alla fine dell’estate, l’impressione che si ricava dai primi mesi post-lockdown è quella di una problematica confusione generale: da una parte, sono numerosi i casi di coloro che hanno preferito rimanere reclusi nei propri spazi abitativi per evitare qualsivoglia rischio sanitario, ponendo di fatto sotto vetro la propria vita quotidiana e convivendo con incipienti patologie di natura psicologica. I dati che arrivano da Telefono Amico Italia sono, per esempio, allarmanti: “quasi duemila le richieste di aiuto ricevute da Telefono Amico Italia, una cifra raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2019”, leggiamo il 4 settembre su Tgcom 24. Dall’altra, un numero sostanzioso di cittadini ha affrontato il periodo estivo come se nulla fosse successo: cancellata rapidamente ogni traccia delle difficoltà psicofisiche vissute nei mesi precedenti, costoro hanno trascorso le vacanze con la solita spensieratezza, non prestando particolare attenzione alle regole stabilite dallo Stato e facilitando – di conseguenza – una recrudescenza del virus. Lungi da me colpevolizzare specifiche categorie di persone, come troppo spesso viene fatto in modo erroneo sui quotidiani d’informazione; tuttavia è evidente che non è risultato armonico – almeno in linea generale – il rapporto tra il sacrosanto bisogno di ritrovare un po’ di tranquillità personale e familiare e la matura consapevolezza relativa alla delicatezza del periodo attuale.

Al tempo stesso, è scomparso dal discorso pubblico qualsivoglia riferimento all’utilità dei percorsi di Death Education per affrontare meglio le sofferenze cagionate dalla pandemia. Mentre negli Stati Uniti sembrerebbe che siano attualmente molto popolari i cosiddetti Death Positive Movement e i Death Doulas, i quali utilizzano ogni strumento comunicativo e sociale a disposizione per affrontare il tema della morte (si veda questo interessantissimo articolo), in Italia rimaniamo in balia della nostra tradizionale ritrosia per ogni discorso pubblico che menzioni il termine “morte”. Ne deriva un mix micidiale tra la consueta rimozione della morte e gli effetti collaterali della pandemia e della quarantena.

Sia coloro che hanno optato per una prudenza patologica sia coloro che hanno invece scelto la spensieratezza radicale portano chiaramente alla luce le problematicità di una vita quotidianamente vissuta senza la consapevolezza della sua fine. I primi, infatti, sembrano aver di colpo riscoperto la propria fragilità esistenziale al punto di decidere di non correre più alcun rischio mortale, rimanendo reclusi in casa. Quasi come se fosse totalmente privo di pericoli uscire dalle proprie mura domestiche nel periodo precedente la pandemia. I secondi, invece, riproducono i soliti superficiali modi di affrontare la quotidianità, ritenendo di essere immuni a qualsivoglia rischio esistenziale e – nel caso specifico – ignorando che la propria libera scelta produce inevitabilmente effetti nefasti nella vita altrui.

A mio avviso, questi due differenti comportamenti, il cui comun denominatore è la scarsa dimestichezza con il pensiero della finitezza e della mortalità, testimoniano in maniera limpida l’assoluta necessità di percorsi di Death Education all’interno delle nostre società. Senza riflessioni metodiche, attente e continuative nel tempo, riguardo al rapporto tra un’emergenza sanitaria e l’innata mortalità che caratterizza ogni essere venuto al mondo, risulta assai difficile barcamenarsi tra le mille difficoltà psicologiche, esistenziali e sociali prodotte da situazioni particolari come quella appena vissuta.

Ora, vi chiedo di raccontare come avete vissuto il periodo estivo e quali sono state le vostre percezioni relative al comportamento collettivo nella cosiddetta “Fase 2”. Anche voi ritenete che sia mancata e continui a mancare una consapevolezza della propria innata mortalità? Attendiamo con curiosità i vostri commenti.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/09/Skeleton-e1599467054237.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-09-07 10:28:262020-09-07 10:28:26La Death education e l’emergenza sanitaria, di Davide Sisto

I Death Café: un nuovo modo per superare la rimozione della morte? di Davide Sisto

1 Agosto 2019/15 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La scorsa primavera sono stato ospite, per la prima volta, di un Death Café. L’evento si è svolto nel centro storico di Genova, nel tardo pomeriggio e all’interno di una rinomata pasticceria locale. Insieme a un pubblico eterogeneo, composto da alcune decine di persone, ho dialogato per un paio di ore intorno al tema della morte nell’età digitale, con tè e pasticcini a rendere la conversazione più familiare.

I Death Café, arrivati in Italia da pochi anni, sono un evento pubblico non profit, inventato dal programmatore inglese Jon Underwood con l’obiettivo – chiaramente indicato nel sito web deathcafe.com – di rendere le persone consapevoli della propria mortalità all’interno di una cornice in grado di metterle a proprio agio: quindi, luoghi pubblici in cui accompagnare i propri pensieri sulla fine della vita con torte, pasticcini, caffè e tè. Il primo Death Café risale al 2010 ed è stato tenuto a Parigi, per poi diffondersi in tutta Europa e negli Stati Uniti. Solitamente, vi è un facilitatore, che può essere un tanatologo, uno psicologo, un sociologo o un filosofo, che tira le fila del discorso e permette ai partecipanti di dare coerenza ai loro interventi, creando così un contesto in cui le riflessioni sulla morte non sono confuse né sfilacciate. Ma capitano anche situazioni di totale autogestione in cui il motivo della riuscita o del fallimento dell’incontro è la capacità dei partecipanti a organizzare i propri ragionamenti.

L’aspetto più interessante è la tipologia molto varia dei partecipanti: studenti universitari, anziani che hanno patito il lutto per il loro coniuge, figli che hanno perso da poco i propri genitori, persone che sono semplicemente curiose. Questo è il punto fondamentale: la curiosità di parlare di morte all’interno di una pasticceria. La scelta strategica del luogo, che tiene distante l’austerità tipica dei classici centri in cui si svolgono le conferenze, è finalizzata a normalizzare un dialogo sulla morte. Rappresenta, in altre parole, un modo per prendere di petto la rimozione sociale e culturale che ha segnato il morire durante il secolo scorso e dimostrare che non c’è nulla di inusuale o di “alternativo” nel discutere insieme di questi temi in un contesto quotidiano in cui solitamente si parla di tutt’altro. Dopo un’iniziale timidezza, si rompe il ghiaccio e ciascuno racconta le proprie esperienze personali, le proprie paure, i propri rimpianti. La differenza di età dei partecipanti non è un problema, almeno per l’esperienza che ho avuto a Genova. Ciascuno riesce a porsi dal punto di vista altrui, anche perché sono il più delle volte simili le reazioni di fronte alla perdita di una persona amata o dinanzi alla consapevolezza che si è mortali. Alla fine, i partecipanti si sentono rilassati e tornano a casa con la stessa sensazione di chi è andato in palestra: si sono allenati a far rientrare nella propria vita ciò che, solitamente, si tiene alla larga e, per tale ragione, provoca enorme disagio psicologico.

Ora, non sono ovviamente convinto che bastino i Death Café a superare la rimozione. Occorre, infatti, agire in più luoghi della nostra società: sarebbe opportuno incrementare le lezioni di tanatologia all’interno delle Università e i corsi specializzati per gli infermieri e per i medici negli ospedali, quindi sviluppare percorsi educativi e pedagogici per i bambini, nonché aumentare le attività di sostegno per coloro che hanno patito un lutto. Ciò detto, quello dei Death Café è un buon modo per rendersi conto che c’è un problema e per provare, in modo semplice, ad affrontarlo affinché – un giorno, temo ancora lontano – non siano più necessari.

Sono fermamente convinto che sarebbe il caso di svilupparli e renderli capillari in tutta Italia, creando una rete che li trasformi in eventi capaci di coinvolgere tutti i cittadini, senza distinzioni di età, di nazionalità e di classe sociale. Lenendo la sofferenza che provoca un discorso sulla morte con un buon pasticcino al cioccolato.

Avete mai partecipato a un Death Café? In tal caso, come vi è sembrato? Quali sono, secondo voi, i temi che andrebbero maggiormente affrontati durante un incontro di questo tipo?

Attendiamo i vostri commenti.

 

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/08/Depositphotos_8903108_s-2019-e1564645250650.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-08-01 09:41:532019-08-01 09:41:53I Death Café: un nuovo modo per superare la rimozione della morte? di Davide Sisto

La morte si fa social? Intervista a Davide Sisto, di Marina Sozzi

25 Settembre 2018/5 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Come molti dei lettori di questo blog hanno senz’altro visto, il libro La morte si fa social di Davide Sisto, appena uscito per Bollati Boringhieri, sta avendo una grande quantità di recensioni. Ho voluto quindi rivolgergli qualche domanda un po’ più approfondita rispetto alla stampa generica: dato che la dimensione virtuale assorbe molto tempo nella nostra cultura, non possiamo più ignorare che cosa accade online a proposito della morte.

La riflessione che hai condotto sulle caratteristiche che assume la morte nel web (in vari e complessi modi) è molto innovativa, soprattutto in Italia. In che misura secondo te il modo di trattare la morte sul web è specchio dell’atteggiamento della nostra cultura offline, e in che misura invece si possono rilevare online nuovi e diversi orientamenti?

Le attuali tecnologie digitali registrano, dunque rendono visibili, i comportamenti che segnano comunemente lo spazio pubblico in cui viviamo. Pertanto, l’onnipresenza della morte nel web – soprattutto, le registrazioni audiovisive di omicidi, suicidi e morti in diretta – mette dinanzi ai nostri occhi quella spettacolarizzazione del morire che è la conseguenza prima della sua rimozione sociale e culturale. Noi, in altre parole, guardiamo quei video su YouTube come se fossero dei film. La differenza fondamentale emerge, secondo me, negli spazi interattivi, come i social network: il fatto che la morte sia così presente all’interno di luoghi adibiti a creare perlopiù amicizie e relazioni sentimentali mette le persone dinanzi alla realtà della morte. La presenza dei profili dei morti su Facebook, il più grande cimitero che vi sia al mondo, e la condivisione pubblica delle malattie tumorali da parte di giovani Youtuber registrano visivamente la morte. La vediamo, come non siamo più abituati a farlo offline. Se, pertanto, utilizziamo questa opportunità per educare le persone tanto a un uso corretto del web quanto a comprendere il ruolo della morte nella vita, allora forse il web diventa uno strumento per guardare la morte e il suo legame con la vita in modo diverso rispetto agli ultimi decenni.

Questo libro sta avendo molto successo, segno che il tema della morte interessa e che, se coniugata con il mondo digitale, incuriosisce ancora di più. Nel tuo libro parli di Death Education, immaginando che possa aver luogo online. Oltre a questo blog (che spero possa stare nel novero delle fonti di educazione alla morte) mi fai qualche altro esempio di fonte a disposizione di molti, in grado di modificare la mentalità ?

Il primo esempio che mi viene in mente è “La Cura” (http://la-cura.it/) di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. Scoperto di avere un tumore al cervello, Iaconesi – che è un ingegnere robotico e un hacker – mette online la propria cartella clinica e chiede al mondo intero di partecipare alla sua cura. Crea, cito le sue parole, “una cura partecipativa open source per il cancro”. Rispondono milioni di persone da tutto il mondo – artisti, ricercatori, medici, ecc. – portando un loro personale contributo. Questo tipo di esperimento, che ha permesso la guarigione di Iaconesi, ha creato una autentica comunità attorno al malato di tumore, facendolo uscire dall’isolamento sociale in cui troppo spesso si ritrova. Un altro esempio è quello delle “cancer vlogger”, ragazze che pubblicano quotidianamente video su YouTube o Facebook in cui parlano della loro malattia a milioni di spettatori. Molti studiosi sostengono che questo fenomeno sia utile per ripensare il rapporto tra salute e malattia, vita e morte. Nel nostro blog abbiamo parlato qualche anno fa del sito “Soli ma insieme” (http://www.solimainsieme.it/), che offre strumenti significativi per bambini e ragazzi in lutto. Per quanto riguarda più specificamente la Death Education, nelle scuole, negli ospedali e nelle Università inglesi e americane sono utilizzate le forme di elaborazione collettiva del lutto su Facebook come occasioni per discutere della morte. Stacey Pitsillides, ideatrice del sito “Digital Death” (www.digitaldeath.eu), è un esempio di ricercatrice che utilizza la presenza della morte nei social network all’interno di progetti universitari interdisciplinari che mettono in dialogo le discipline umanistiche e quelle scientifiche. Sarebbe interessante farlo pure in Italia.

Nel libro parli spesso di consolazione delle persone che hanno subito una perdita. Consolazione che si può cercare in siti che propongono avatar del defunto e spettri digitali; ma anche nelle interazioni su Facebook a proposito della morte dell’amato; o perfino nell’invio di messaggi Whatsapp al morto. La psicologia ci insegna però che il dolente ha bisogno, prima di tutto, di prendere coscienza della morte del proprio caro. Tutti questi sostituti virtuali del morto non rischiano di rallentare il processo di elaborazione del lutto?

Il rischio è tangibile. Da una parte, i cosiddetti “griefbot”, per mezzo dei quali è possibile continuare a dialogare con i morti, rappresentano chiaramente la non accettazione della perdita e del distacco. Sono la conseguenza del tentativo di tenere stretto a sé digitalmente chi non potrà più esserci fisicamente. Dall’altra, la presenza dei profili dei morti su Facebook e su WhatsApp può mantenere vivo a tempo indeterminato il dolore in un genitore che ha perso il figlio. Va però anche detto che tutti questi mezzi digitali offrono alle persone la possibilità di continuare a tenere stretta a sé una quantità inimmaginabile di ricordi e di narrazioni del defunto. E questo, nei casi in cui il lutto è stato elaborato, è benevolmente consolatorio.
Il prevalere delle opportunità o delle criticità dipende dal lavoro che viene fatto offline. Oggi abbiamo questi strumenti digitali che segnano la nostra vita quotidiana. Sappiamo che possono acuire il dolore per la perdita o, in alternativa, possono fornire una maggiore consolazione rispetto al passato. Se il dolente è abbandonato a se stesso, ovviamente le criticità del web prevalgono. Anche in questo caso mi chiedo: quando la società imparerà a mettere a frutto con intelligenza e raziocinio le inedite opportunità offerte dal progresso?

Ho trovato molto interessante la questione della memoria. La memoria, per esistere e avere senso, ha bisogno anche di oblio. Qualcosa si ricorda perché si dimentica il resto. Non stiamo affastellando troppa memoria? Tutta questa memoria non rischia di trasformarsi in una nuova forma di oblio indifferenziato? Questa domanda non vale solo per i defunti, ma certo nel caso della morte appare particolarmente pertinente.

Con me sfondi una porta aperta. Sono quasi privo di fotografie della mia vita personale e familiare. Tendo ad accumulare meno ricordi possibili. Dal momento che ho un carattere malinconico, lo tengo a bada cercando di guardare sempre in avanti, senza tener troppo conto di ciò che mi sta alle spalle. Oggi, le persone accumulano in formato digitale una quantità inimmaginabile di fotografie, registrazioni audiovisive, testi scritti. Tutto questo materiale è profondamente dispersivo e soffocante. Ma, di nuovo, la memoria digitale può trasformarsi in un’occasione per fare selezione e per preparare la propria eredità personale. Se si insegnasse, a partire dagli anni della formazione scolastica, l’importanza dell’oblio per la memoria stessa, forse si riuscirebbe anche a rendere le persone consapevoli di quanto sia necessario selezionare le proprie memorie per il futuro. Questa quantità immensa di memorie è l’ennesima occasione per porsi la domanda: “cosa voglio lasciare agli altri dopo la mia morte?”. Quindi, per riflettere sulla propria mortalità e sull’uso responsabile del web nei suoi confronti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/09/Depositphotos_110069884_s-2015-e1537871405124.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-09-25 12:32:212018-09-25 12:32:21La morte si fa social? Intervista a Davide Sisto, di Marina Sozzi

La morte è uno scandalo o un evento naturale? di Davide Sisto

13 Novembre 2017/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

1 Adriaen van Utrecht (1599 - 1652) - Vanitas Still-Life with a Bouquet and a Skull -Due delle principali obiezioni filosofiche mosse alla Death Education, quindi al tentativo di spiegare il ruolo imprescindibile e naturale della morte per lo sviluppo della vita, sono le seguenti: innanzitutto, la morte è uno scandalo, un evento che di per sé è terribile e non ha nulla di naturale. In secondo luogo, ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi è proprio quella coscienza della propria mortalità che lo spinge a non accettarla, utilizzando la propria ragione per tentare di sconfiggerla una volta per tutte.

L’idea della morte come scandalo, quindi come evento o processo innaturale, è strettamente legata alla nostra tradizione cristiana: la morte, infatti, non prevista dal progetto originario di Dio, è la conseguenza prima del peccato originale, quindi di un uso deleterio della libertà da parte dell’uomo. Da qui deriva il carattere negativo e angoscioso del morire, il quale permane a tempo indeterminato nonostante il sacrificio di Cristo renda il morire un passaggio obbligato per la salvezza e la resurrezione. Il carattere scandaloso della morte è, pertanto, dovuto al fatto che essa non è il frutto della volontà divina.

L’idea, invece, che l’uomo si distingua da tutti gli esseri viventi in quanto l’unico a essere cosciente della morte e, dunque, da sempre impegnato a sconfiggerla attraverso le sue attività razionali e spirituali è un retaggio filosofico tipicamente occidentale, figlio tanto della cultura che separa la mente dal corpo quanto della convinzione che la ragione sia una nostra esclusiva prerogativa. Pertanto, consapevoli razionalmente di essere mortali, cerchiamo ogni giorno di non pensarci, svolgendo attività lavorative, culturali, artistiche, ecc. per mezzo delle quali proviamo a renderci – in un modo o nell’altro – immortali.

Queste sono due obiezioni che mi è capitato di ricevere più volte durante convegni o incontri pubblici in cui ho parlato di Death Education. Ora, se, da una parte, non sono convinto che l’uomo disponga di un’esclusiva coscienza della propria mortalità, semmai ogni essere vivente ne ha consapevolezza secondo le sue irripetibili caratteristiche specifiche, dall’altra non credo che lo scandalo cristiano della morte non possa collimare con l’idea della sua naturalità.

Siamo abituati a tener conto del celeberrimo sillogismo in base al quale tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale. La mortalità è, in altre parole, una cifra che definisce – nel qui e ora – non solo la nostra condizione di esistenza, ma la vita stessa nel suo fluire. Qualche giorno fa, Emanuele Severino, durante un convegno, sottolineava una cosa tanto banale quanto fondamentale: se la giornata di ieri non fosse terminata, la giornata di oggi non sarebbe mai iniziata. Tutto quello che facciamo e che siamo segue un percorso preciso, segnato da un inizio, da un suo svolgimento e dalla sua fine. La gioia del primo giorno di vacanza e la malinconia dell’ultimo giorno; l’angoscia nel momento in cui comincia un’operazione chirurgica e il sollievo, anche solo momentaneo, per la sua conclusione. L’emozione per l’inizio della scrittura di un libro e la sensazione agrodolce quando è terminato. Non c’è azione quotidiana che non segua naturalmente questo percorso. E se tale percorso venisse meno? La dilatazione radicale dei ritmi temporali renderebbe la nostra vita simile a un film al rallentatore. Il mutamento perde di significato, il pulsare eccitato delle emozioni si inaridisce lentamente, tutta l’energia che mettiamo in ciò che facciamo, consapevoli del rapporto dialettico tra l’inizio e la fine, si spegne. Non è un caso che, secondo uno psicopatologo come Minkowski, l’idea dell’immortalità terrena si manifesta puntualmente nel delirio melanconico.

Ora, considerare come naturale l’integrazione tra la vita e la morte, evidenziandone il cospicuo valore pedagogico, non necessariamente contraddice lo scandalo cristiano del morire: possiamo, infatti, riconoscere questa integrazione come un dato di fatto, a cui avremmo voluto volentieri fare a meno ma che rappresenta, nel mondo in cui viviamo, il punto di partenza basilare per costruire giorno dopo giorno le nostre attività e per sviluppare il nostro modo di essere. Pertanto, la nostra ragione, il nostro spirito non hanno senso se le utilizziamo come fossimo dei novelli Gilgamesh alla ricerca ossessiva di un antidoto contro la mortalità; piuttosto, diventano prerogative irrinunciabili se messe al servizio della fragilità che ci costituisce, di modo da rendere qualitativamente luminoso lo spazio temporale che si distribuisce tra l’istante dell’inizio e il momento della fine.

E voi cosa ne pensate? Interpretate la morte come scandalo o piuttosto come evento naturale, o come entrambe le cose al contempo? Attendiamo, come sempre, le vostre risposte.

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