Compassionate cities: utopia concreta? di Marina Sozzi
Anche se in Italia ne abbiamo parlato ancora poco (per ora esiste un progetto a Reggio Emilia), nel mondo sta prendendo forma un’idea molto interessante, quella delle “città compassionevoli”. Già molte città hanno questo titolo, in seguito al lavoro compiuto per diventarlo, come ad esempio Plymouth in Inghilterra, Colonia in Germania, Vic in Spagna, Kozhikode nel sud dell’India, stato del Kerala, eccetera. Di cosa stiamo parlando e da quale esigenza nascono le Compassionate Cities? Partiamo da una constatazione: la morte è un’esperienza sociale con una componente medica, e non il contrario. Il 95% del tempo di una persona che si avvicina alla morte è gestito dai familiari. Il lavoro dei professionisti, pur estremamente prezioso, rischia di restare frammentario se la comunità non è coinvolta nell’esperienza di cura. Sarebbe quindi opportuno che il sostegno che non richiede competenze professionali fosse offerto dalla comunità, ossia da reti di relazioni che si stringono attorno all’anziano, al dolente o al morente. I servizi professionali potrebbero così concentrarsi in modo più efficace sulle proprie responsabilità principali. Per dirlo brevemente, quindi, le Compassionate Cities sono forme di mobilitazione sociale che coinvolgono diverse realtà presenti in una determinata città, al fine di creare e potenziare l’attenzione verso una concezione diffusa della cura, e verso la morte, la perdita e il lutto nella vita quotidiana. Le Compassionate Cities sono, in sostanza, un modello di salute pubblica che incoraggia la partecipazione comunitaria nella cura delle persone. Lo scopo non è trasferire parte del lavoro di cura alle famiglie, gravando, come è stato spesso fatto, sulle donne e sul lavoro femminile; al contrario, si tratta di un modo nuovo di pensare alla comunità e alla cura. Occorre però costruire un modello pratico perché questa cura estesa alla comunità possa essere efficace. In primo luogo dobbiamo chiederci: cosa si intende per comunità? C’è infatti il rischio che la parola “comunità” indichi una generalizzazione poco funzionale e astratta, come “società” o “collettività”, che potrebbe far apparire irrealizzabile l’intero progetto delle Compassionate Cities. Pertanto, è bene precisare che per comunità si intende una serie di reti specifiche (scuole, luoghi di lavoro, abitazioni e quartieri, sindacati, luoghi di cultura, associazioni, luoghi di assistenza per gli anziani), capaci di condividere il peso della cura in modi anche pratici. Affinché questo avvenga, le reti di solidarietà devono essere preparate a sostenere questo ruolo, apprendendo cosa dire e cosa fare per essere d’aiuto a chi affronta l’esperienza della malattia, della vecchiaia, del morire e del lutto. Le Compassionate Cities prendono sul serio domande come: “in che tipo di società voglio vivere?”, “Come vorrei che le persone si comportassero nei miei confronti quando dovrò affrontare la morte e la perdita dei miei cari?” La compassione non va pensata come un meritorio atteggiamento individuale, ma come un impulso potenzialmente universale, che può e deve produrre cambiamento nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle chiese e nei luoghi di aggregazione dei cittadini. Le città compassionevoli si propongono di soddisfare i bisogni delle persone anziane, di chi convive con malattie mortali e di chi ha subìto una perdita, non solo dal punto di vista sanitario. Occorre a tale scopo vedere la salute, la morte e la perdita come fasi del ciclo della vita. Peraltro, le persone che attraversano fasi difficili della propria vita (in quanto anziani, malati, morenti, o dolenti) hanno spesso molto da comunicare al resto della comunità. Da questo punto di vista, i media (ma anche le scuole e i luoghi di insegnamento) hanno un ruolo centrale nel ridare la parola a persone che ne sono solitamente prive. Inoltre, queste città si preoccupano del rispetto delle differenze sociali e culturali: la compassione non può ignorare l’universalità dell’esperienza della perdita, che va intesa in senso lato. L’emarginazione (causata da razzismo, sessismo, discriminazione nei confronti degli anziani, eccetera) è una preoccupazione delle Compassionate Cities, perché crea morte e perdita nella vita degli altri, talvolta simbolicamente, talvolta concretamente e fisicamente. La scuola ha un ruolo centrale in tale processo educativo comunitario, perché è il luogo dove è possibile imparare gli uni dagli altri. Riconoscere le differenze non significa costruire stereotipi religiosi o culturali, anzi, occorre imparare a mantenere aperta e fluida la mente, perché le identità e gli approcci sono storici, e quindi esposti al cambiamento. Infine, le città compassionevoli si fanno carico di garantire cure palliative e supporto al lutto, e di inserirli nella loro pianificazione politica di governo locale, evitando che la morte e la perdita restino esperienze private e individuali; e promuovono la solidarietà, il rispetto e la fiducia tra cittadini, la dimensione comunitaria e conviviale e l’ampliamento delle reti di collaborazione. Che ne pensate di questo approccio? Credete che valga la pena fare lo sforzo per raccogliere le forze e promuovere le Compassionate Cities anche in Italia? Io penso che siamo pronti, che i tempi siano maturi, che questa possa diventare un’utopia concreta, nel senso dato a questa espressione dal filosofo Ernst Bloch: la concretezza dell’utopia sta nel fatto che il suo “non-ancora” in qualche modo esiste già, sia nel desiderio, nella speranza, nell’impegno degli uomini, sia come tendenza dell’evoluzione storica.
Sono molto interessata alle vostre considerazioni.