Michele, la fine della vita e le italiche confusioni
La scorsa settimana, sulla Repubblica c’è stato un dibattito sull’intervista all’infermiere Michele di Careggi. Lo trovate a questo link: http://www.repubblica.it/cronaca/2015/02/26/news/io_infermiere_vi_racconto_leutanasia_silenziosa_nei_nostri_ospedali-108205220/
Dal mio punto di vista, si tratta di un esempio lampante dell’informazione approssimativa che si fa oggi sul tema della fine della vita. Un esempio di confusione, che non aiuta i lettori a riflettere, ma li invita soltanto a schierarsi. Per questo desidero commentarlo, e vorrei sapere la vostra opinione.
Intanto non ci viene detto in che reparto lavora Michele: per privacy, certamente. Ma un conto è lavorare in terapia intensiva, un altro conto in oncologia o in medicina. Se Michele ha a che fare con 30/40 casi l’anno di “terra di nessuno”, ossia di persone sospese tra la vita e la morte (e anche di morti tenuti a cuor battente da macchine) probabilmente stiamo parlando di una terapia intensiva. Il tema degli interventi salvavita estremamente rischiosi, che hanno talvolta come esito terribili casi di stati vegetativi, dovrebbe essere affrontato in primo luogo a monte: quando ha senso fare dei tentativi di rianimazione? Quando desistere?
In queste scelte, come è noto (e molti di noi lo hanno sperimentato per i propri cari), ha grande peso il timore da parte dei medici di essere accusati di incuria e abbandono terapeutico e di essere denunciati. Questo problema si affronta soprattutto sul piano culturale, diffondendo la consapevolezza dell’umana mortalità, accogliendo figure nuove nelle strutture sanitarie, come quella del bioeticista clinico: ben sapendo che i tempi del superamento dell’idea del medico onnipotente saranno lunghi, come tutti i cambiamenti di mentalità. Nel frattempo, certo, occorre una legge sul testamento biologico: perché il caso Eluana Englaro, diciamolo ancora una volta, non è stato di eutanasia, ma di interruzione delle cure. Una volontà (quella di non essere tenuta in vita in stato vegetativo) espressa da Eluana quando era una ragazza ventenne sana, anche se mai messa per iscritto, per sfortuna sua e del padre Beppino.
Michele parla poi di sospensione di farmaci: “smettiamo di darli (…) non facciamo più le cosiddette procedure invasive”. E anche qui, si tratta del condivisibile auspicio di una pratica medica che respinga l’accanimento terapeutico, che adotti la trasparenza verso pazienti e familiari, che si confronti sulle scelte. Entriamo nuovamente in un ambito di tipo culturale e di lungo periodo. Michele parla poi chiaramente di uno “scudo” legislativo, che difenda i curanti dalle accuse dei parenti, e lo identifica nel testamento biologico. E’ questo il testamento biologico? Uno scudo per i medici, ruolo che troppo spesso ha assunto anche il consenso informato? O non piuttosto uno strumento di scelta (e di educazione alla scelta) per i cittadini? Credo sia un’interpretazione al ribasso del ruolo del living will.
La fretta e l’impazienza, che informano la nostra cultura, non sono buone consigliere. Occorre lavorare molto, in tanti, per anni e forse decenni, per modificare la nostra cultura della cura e della morte. Certo non basta una “botta di morfina” per “morire in maniera degna, lasciando un bel ricordo di sé agli altri”: la propria buona morte la si prepara anche in vita, come scriveva Hans Küng.
La morfina ci vuole, senza lesinarla, così come la sedazione terminale, quando il dolore o la sofferenza non sono sotto controllo. Uno zio da me molto amato, con un cancro terminale alle ossa, mi guardò dritta negli occhi e mi disse con un filo di voce: “voglio dormire”. Gli chiesi se voleva essere sedato e rispose di sì con lo sguardo. Fu sedato e smise di soffrire, visse ancora due giorni e poi morì. Queste sono cure palliative, non eutanasia (non è ammessa la confusione): le cure palliative sono garantite a tutti i cittadini, indipendentemente dalla patologia, dalla legge 38 del 2010, ancora largamente inapplicata.
Altra cosa è l’eutanasia, e su questa occorre dire tutta la verità. Se avessimo ottime cure palliative, nel nostro paese, l’eutanasia riguarderebbe, alla fine della vita, ossia in fase avanzata di malattia, un numero esiguo di persone per le quali, come per la maggior parte di noi, non è questione di “spine da staccare”.
Il tema dell’eutanasia (considero eutanasia solo l’iniezione o il cocktail letale, non certo la morfina necessaria a togliere il dolore) riguarda non tanto i pazienti terminali, ma coloro che, pur avendo ancora un’aspettativa di vita di anni, non riescono a sopportare l’esistenza nella condizione di malattia in cui sono costretti. Se discutiamo di eutanasia, questo è il tema, ben più spinoso del dibattito sulla fase terminale delle malattie. Il che non significa che non sia legittimo porsi l’interrogativo sulla depenalizzazione dell’eutanasia, a patto che tale domanda sia impostata nel modo corretto.
Credo che si debba prendere coscienza del fatto che la risoluzione delle molteplici contraddizioni della medicina contemporanea si farà, giorno dopo giorno, con l’aumento della cultura dei cittadini su questi temi, cioè con un dibattito pubblico molto più ampio e onesto di quello presente.