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Tag Archivio per: bioetica

Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi

15 Novembre 2021/11 Commenti/in Interviste, La fine della vita/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Ludovica De Panfilis, che lavora come ricercatrice sanitaria e bioeticista presso l’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. Una figura unica in Italia, che può essere di ispirazione per chi si occupa di cure palliative in Italia.

In cosa consiste il tuo lavoro in ospedale?

Cinque anni fa ho avuto il compito di creare un’unità di bioetica all’interno dell’IRCCS. Il progetto era sperimentale, e si intitolava “La bioetica al letto del paziente”. Io cercai di dimostrare che si poteva fare ricerca sui temi dell’etica della cura, e che questo tipo di ricerca aveva effetti sulla qualità della cura e della vita dei pazienti.

Si trattava di una ricerca bioetica diversa da quella che si fa in ambito accademico: non era una ricerca teorica di filosofia morale, ma entrava nelle dinamiche della relazione di cura. E’ un tipo di ricerca che propone l’implementazione di nuovi servizi e ne misura gli effetti (ad esempio l’aumento della pianificazione condivisa delle cure, la soddisfazione dei pazienti nei confronti dell’atteggiamento degli operatori sanitari rispetto a certi processi decisionali; la valutazione della formazione, l’aumento delle competenze etiche).

L’approvazione della legge 219 alla fine del 2017 ha dato un impulso enorme a queste ricerche, l’etica è divenuta all’improvviso importante. Noi lavoriamo soprattutto con le cure palliative, ma anche con il laboratorio di procreazione medicalmente assistita, con il dipartimento di salute mentale, la neonatologia…

Il bioeticista è diventato una figura ricercata dall’équipe, e ho dovuto destinare delle ore non solo alla formazione, ma anche alla supervisione degli operatori che si confrontano con situazioni eticamente complesse.

Per scelta, invece, non interagisco mai con i pazienti direttamente, per non rischiare di creare confusione con altre figure: lo psicologo, l’assistente sociale.

Questa realtà che mi stai descrivendo, e che certamente è un’eccellenza, esiste altrove o è un unicum in Italia?

Ho cercato altre figure come la mia perché ho avuto l’esigenza di confrontarmi, ma ho trovato solo i Comitati per l’etica nella clinica, che non lavorano sulla sperimentazione, e spesso non riescono a raggiungere i problemi reali. Ho trovato però conforto nella realtà internazionale, soprattutto in America, dove le figure che svolgono il mio lavoro sono obbligatorie per ospedali che superino un certo numero di posti letto.

Penso che l’accademia avrebbe dovuto far virare la bioetica verso questo tipo di ricerca, che avrebbe dato un senso nuovo agli studi di bioetica. È un’occasione persa.

Com’è il tuo percorso?

Mi sono laureata in filosofia, poi ho sentito parlare degli hospice, e nel 2011, appena laureata, sono andata a fare il Master in cure palliative di Bentivoglio, che allora permetteva l’accesso a tutte le lauree. Durante il Master ho capito che la ricerca sarebbe stata la mia strada, e ho poi fatto il dottorato di ricerca in giurisprudenza.

Come mai secondo te la collaborazione più stretta, nella tua azienda, ce l’hai con le cure palliative?

Secondo me le cure palliative sono intrise di questioni etiche: credo che le competenze etiche siano importanti per gli operatori di cure palliative tanto quanto quelle relazionali, comunicative o cliniche. Sono competenze che si concretizzano nel saper accompagnare una persona a prendere una decisione. Non è affatto semplice. Quando ho scritto le mie disposizioni anticipate di trattamento (ci rifletto tutti i giorni) ho pensato “che fatica!”. In cure palliative, quando un paziente desidera concludere la sua vita in modo coerente con il modo in cui l’ha vissuta, le competenze etiche degli operatori diventano fondamentali. Inoltre, il significato più profondo delle cure palliative è quello di essere una medicina orientata alla condivisione delle responsabilità, e delle scelte. Le cure palliative possono trovare nell’etica sia delle risposte che degli strumenti.

Quali sono i nodi più importanti dell’etica nelle cure palliative?

Il primo tema centrale in questi anni è quello della pianificazione delle scelte. La pianificazione condivisa delle cure è un percorso, che si fa con il paziente, che lo porta a prendere decisioni concrete basate sui suoi valori. È importante saper riconoscere il dilemma etico nei pazienti, saper entrare nella relazione di cura con una persona, senza spingere nella direzione che il medico ritiene quella giusta o migliore. Perché anche in cure palliative c’è il rischio di “paternalismo palliativo”.

Lo stesso tema della sedazione profonda continua è intriso di etica, in quanto la scelta di perdere la coscienza fino al momento della morte deve essere condivisa, affinché possa essere vissuta bene da tutti gli attori. Occorre poi distinguere tra l’autonomia teorica e l’autonomia che si concretizza in scelte, in diritto all’autodeterminazione. Il bioeticista presente nelle riunioni d’équipe è importante per permettere agli operatori di riconoscere i temi etici, che spesso mettono in crisi un’équipe e che non vanno confusi con i problemi psicologici, o anche organizzativi, come talvolta accade. Si pensi inoltre al grande mistero della fine della vita, di cui le cure palliative si occupano, e su cui l’etica (e prima ancora la filosofia) si interrogano da che le conosciamo. Le cure palliative trovano nell’etica la strumentazione per affrontare tutti questi problemi.

Inoltre, è possibile che in futuro i palliativisti dovranno confrontarsi con il tema del suicidio assistito, anche se loro sperano di no, ma capiterà, in qualità di esperti di fine vita.

Hai parlato di paternalismo palliativo. Ho visto che hai scritto un articolo sul nudge, ossia sul paternalismo gentile. Puoi raccontarci qualcosa a questo proposito?

Noi facemmo un progetto di ricerca che si chiamava Teach for ethics in palliative care, il cui obiettivo era formare dei professionisti sanitari affinché potessero fare consulenza etica ai pazienti e supervisione etica ai colleghi. Durante questo corso era emerso che la tendenza a indirizzare il paziente verso ciò che i professionisti ritenevano giusto fosse qualcosa di intrinseco, che non riuscivano a controllare. Andando a cercare della letteratura che ci aiutasse a riflettere su questa tendenza trovammo il volume del 2014 di Sunstein e Thaler intitolato Nudge. La spinta gentile.

Il concetto proposto dagli autori è noto: gli uomini hanno debolezze sia psicologiche che cognitive, sono inclini all’inerzia, ai pregiudizi, all’incapacità di previsione, all’errore di prospettiva, sono spesso confusi sul loro vero interesse e pertanto hanno bisogno di essere guidati.  C’è quindi bisogno di “utili suggerimenti”, in grado di neutralizzare i pregiudizi, l’emotività, la pigrizia mentale dei singoli individui, e di orientare così le scelte verso scopi riconducibili al bene dell’individuo, che talvolta lui stesso non riconosce. È il paternalismo libertario di cui parlano i due autori, giustificato, dal loro punto di vista, anche dal fatto che l’assoluta neutralità e oggettività, nel presentare le varie opzioni, non è possibile umanamente. In che modo vi è servito questo volume?

Inserimmo all’interno del corso di formazione un Focus Group dedicato al tema delle spinte gentili: infatti ci accorgemmo che in cure palliative non si parlava affatto di paternalismo libertario, eppure si trattava di un atteggiamento presente anche se del tutto involontario. Concludemmo che il nudging era un concetto attraente ma pericoloso, perché rischiava di non favorire l’autonomia del paziente. La consulenza etica invece poteva essere uno strumento per aiutare i pazienti a decidere in maniera autonoma (ma condivisa) ciò che era importante per loro. Uno dei metodi per evitare di utilizzare questa sorta di spinta involontaria era incoraggiare l’autonomia relazionale. Il nudging è molto utile in alcuni contesti, anche di salute pubblica, ad esempio, ma non nella relazione di cura.

Dimmi se interpreto bene: l’autonomia si realizza proprio nella dimensione della relazione di cura, perché l’autonomia non è qualcosa che possediamo dalla nascita come caratteristica a priori, ma è qualcosa che si raggiunge nella relazione con altri.

Esattamente.

Inoltre, io credo che quando ci si ammala e si inizia a diventare dipendenti dagli altri l’idea di autonomia astratta decada. Si può lavorare su un’autonomia contestuale e quindi cercare di arrivare all’obiettivo di aiutare le persone ad essere veramente autonome.

Ho visto il volume a tua cura Teach to Talk, Apprendere per comunicare, appena uscito. Di cosa si tratta?

Questo è stato un bel progetto pensato e voluto dalla dottoressa Tanzi. Noi ci siamo conosciute durante il master in cure palliative: eravamo tutte e due molto giovani e condividevamo l’idea dell’importanza di un’etica della comunicazione. Il libro parla di una comunicazione che non è solo efficace, che non è solo empatica, ma è soprattutto autentica. Ci siamo interrogate anche su come formare gli operatori a questo tipo di comunicazione, andando al cuore della relazione comunicativa.

Cosa ti ha cosa ti aspetti nel futuro? Come pensi che questa tua professionalità sarà ulteriormente spendibile?

Penso che arriveranno altre spinte normative a sottolineare l’importanza di questa professionalità.  Mi viene in mente, ad esempio, il testo che è stato depositato alla Camera sulla morte volontaria: magari ci vorranno altri dieci anni ad approvarlo, ma la società civile domanda.

Il mio sogno sarebbe trasferire il modello che a Reggio Emilia sta funzionando nel maggior numero possibile di luoghi di cura. Mi piacerebbe che si creasse una schiera di persone che fanno il mio lavoro, con l’obiettivo di migliorarsi sempre, di non pensare mai di avere la verità in tasca, ma anzi di mettersi sempre in questione attraverso la ricerca.

Personalmente, poi, mi piacerebbe dedicarmi solo alle cure palliative.

Come mai questo interesse specifico per le cure palliative?

Le cure palliative devono restare fedeli a se stesse: l’etica completa il profilo del palliativista. Inoltre, nell’attivazione precoce delle cure palliative, di cui oggi si parla tanto, i valori, le preferenze e gli obiettivi della persona sono imprescindibili. Le maggiori soddisfazioni inoltre vengono da lì, la Società italiana di Cure palliative è molto attenta alla dimensione etica. L’etica permette alle cure palliative di mantenere viva la loro coscienza critica nei confronti della biomedicina.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/11/Depositphotos_27181397_S-e1636827406922.jpeg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-11-15 09:57:582021-11-15 09:57:59Intervista a Ludovica De Panfilis, di Marina Sozzi

Riflessioni sulla morte di Vincent Lambert, di Marina Sozzi

12 Luglio 2019/26 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

E’ morto Vincent Lambert, ieri mattina. Il suo caso ha sollevato un dibattito bioetico in Francia sul fine vita, con notevoli ripercussioni anche in Italia.

Riassumiamo i termini della questione, per come è possibile dedurla dai giornali, italiani e francesi, per poi fare alcune riflessioni a margine (perché sono convinta che per esprimere opinioni sulla vita di un uomo occorre: a) una competenza medica specialistica approfondita, b) una competenza giuridica, c) e soprattutto una conoscenza profonda della persona (non solo del caso) e della sua storia biografica e psicologica.

Vincent nel 2008 faceva l’infermiere e aveva 32 anni, era sposato e aveva avuto da poco una bambina. Le conseguenze del grave incidente stradale di cui fu vittima sono descritte in due modi dai quotidiani on e off line. C’è chi ha parlato della tetraplegia e di una lesione cerebrale definita “sindrome della veglia non responsiva”, interpretando quindi Vincent come un disabile, poiché respirava senza ventilatore, il suo cuore batteva, e non era in stato di morte cerebrale.

Altri hanno definito la sua situazione come stato vegetativo, come fecero nel novembre 2018 gli esperti incaricati dal Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne: “stato vegetativo irreversibile cronico”.  Le due definizioni sono simili, e tuttavia lasciano spazio a diverse letture etiche: infatti, intorno a questo caso penoso, si è combattuta per dieci anni una battaglia non solo legale, ma anche intrafamiliare. E questo è, se vogliamo, l’aspetto più triste di questa vicenda.

Le considerazioni che mi vengono spontanee sono le seguenti: e sono interrogativi e auspici piuttosto che certezze.

1) Credo che la medicina dovrebbe essere molto più prudente e guardinga nei suoi tentativi di rianimazione, e che dovrebbe considerare un fallimento grave produrre un vivo/non vivo come è accaduto a Vincent, o ad Eluana, (e oggi pare ci siano in Italia tremila persone che si trovano in una situazione analoga, estrema). Nel suo bellissimo libro, Quando il respiro si fa aria, il neurochirurgo indo-americano Paul Kalanithi scrisse: “Di pari passo con le mie competenze aumentarono anche le responsabilità. Per imparare a valutare quali vite si possono salvare, quali no, e quali non si dovrebbero salvare, serve una capacità di prognosi inarrivabile. Commisi anch’io i miei errori. Come trasportare d’urgenza un paziente in sala operatoria solo per salvargli abbastanza cervello da fargli battere il cuore, anche se non avrebbe parlato mai più, avrebbe mangiato attraverso un sondino e sarebbe stato condannato a un’esistenza che non avrebbe mai voluto… Arrivai a considerarlo un fallimento ancora più madornale rispetto alla morte”.

Si tratta di una riflessione che ogni rianimatore dovrebbe aver modo di apprendere e discutere all’università. L’etica comporta in questo caso, al contempo, esperienza e tecnica: evitare di trasformare una vita umana nell’esistenza di un metabolismo inconsapevole. Fermarsi prima. Rinunciare. Accettare che subentri la morte.

2) Una volta che un medico o un’équipe medica abbia creato, per inesperienza o per fatalità, un’esistenza di questo tipo, si entra evidentemente in un terreno minato, perché qualunque sia la decisione che si prende, si rischia di farlo contro il volere che avrebbe avuto il paziente quando era cosciente. Le Dichiarazioni anticipate di trattamento, o testamento biologico, diventano a questo punto fondamentali. Non depositarle ci espone al pericolo di subire un’esistenza che mai avremmo voluto: non solo, ma rischiamo anche di creare situazioni estremamente penose di litigio tra le persone a cui abbiamo voluto bene, come è successo per Vincent. La moglie contro i genitori e viceversa, parole terribili invece del lutto comune. Anche in Italia, vi ricordo, abbiamo finalmente una legge sulle DAT (legge 219/2017) che dà loro una certa cogenza sulle scelte mediche. E tuttavia, mentre scrivo questo, sono consapevole della lunga strada ancora da percorrere nel nostro paese affinché la compilazione delle DAT diventi una scelta maggioritaria.

3) Inoltre, occorre finirla con l’uso improprio delle parole, come troppi giornalisti hanno continuato a fare anche per il caso Lambert. La parola “eutanasia” non ha nulla a che fare con quanto è successo, perché nessuna sostanza letale è stata somministrata a Vincent. Sono state sospese delle cure, che nel suo caso riguardavano l’alimentazione e idratazione artificiale. Che queste ultime siano da considerarsi cure mediche è stato ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica. E il fine vita di Vincent è stato accompagnato da cure palliative (da una sedazione palliativa profonda), per accertarsi che non soffrisse.

Chi ha scritto che il caso di Vincent è paragonabile a quello dell’anziano non più capace di nutrirsi da solo o del bambino disabile ha fatto un’operazione che non condivido, quella di utilizzare un caso estremo e generalizzarlo, per colpire la mente e la pietas di chi legge. Ma, come non bisogna applicare tecnologia medica sproporzionata, sia per gli anziani sia per ogni altra persona, qualunque sia la sua età, così non bisogna generalizzare. Ogni caso ha la sua specificità, e deve essere pensato nella sua singolarità, mentre le leggi fungono da quadro di riferimento.

4) Mi è subito venuto in mente, vedendo lo strazio della madre, che è rimasta accanto a Vincent per più di dieci anni, che questi genitori vadano aiutati e sostenuti a elaborare il lutto e a dare un senso diverso alla propria vita. Altrimenti, si sarà responsabili del deragliare di altre vite, vite che rischiano di frantumarsi senza lo scopo di tenere in vita il figlio.

Voi come la pensate? Come avete visto questa storia?

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Distinguiamo bene i termini: limitazione delle cure non è eutanasia, di Maria Teresa Busca

8 Ottobre 2016/1 Commento/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Definition of word euthanasia in dictionaryIn Italia il dibattito sulle materie eticamente sensibili, e quindi anche sulle questioni riguardanti il fine vita, oscilla tra una radicale ideologizzazione e il silenzio. Dilaga la spettacolarizzazione mediatica della malattia e della morte, che tende a sostituire la necessaria profondità e complessità della riflessione. Questa situazione si accompagna a una confusione di termini, significati e contenuti, sia nell’ambito dell’informazione sia in quello della politica: sovente espressioni quali “limitazione delle cure”, “eutanasia” e “suicidio assistito” vengono tutte ricomprese nella parola-contenitore “eutanasia”.

Al contrario, un approccio ragionato, basato sulla condivisione del significato preciso che si intende dare alle parole si dimostra l’unico davvero utile a compiere scelte individuali meditate e consapevoli alla luce del principio di autodeterminazione.

Infatti, quando in ambito scientifico o giuridico si parla di limitazione delle cure, eutanasia e suicidio assistito s’intendono concetti del tutto diversi tra loro. Tali concetti implicano scelte compiute da persone affette da malattie differenti per natura e gravità, attuate con differenti responsabilità e implicazioni morali. Ma qual è l’obiettivo primario della riflessione bioetica, se non fornire strumenti per prendere decisioni in maniera razionale, autonoma e responsabile? Per questa ragione è necessario prima di tutto fare chiarezza, esaminando attentamente tali differenze per avviare una discussione aperta e non ideologica sul tema del fine vita.

Per “limitazione delle cure” s’intende l’interruzione o il non avvio di trattamenti diagnostici o terapeutici che risultino eticamente sproporzionati e/o clinicamente inappropriati. Sono eticamente sproporzionati i trattamenti che per il malato comportano oneri superiori ai benefici attesi. Gli oneri s’intendono come oggettivi, cioè previsti dalla scienza medica – gli effetti collaterali dei trattamenti – o soggettivi, quelli percepiti come tali dal malato. Sono invece clinicamente inappropriati i trattamenti che non corrispondono più ai criteri di efficacia e appropriatezza clinica, non essendo più in grado di modificare positivamente la prognosi (guarigione o stabilizzazione della malattia).

In Italia, la limitazione delle cure è prevista dall’articolo 16 del Codice di Deontologia Medica e può attuarsi in qualsiasi contesto assistenziale.

Una limitazione delle cure può avvenire a seguito della decisione del malato che esprime insindacabilmente il suo dissenso rispetto all’inizio delle cure o che, altrettanto insindacabilmente, ritira il suo consenso alla loro prosecuzione, come garantito dall’articolo 32 della Costituzione (che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti e stabilendo che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge). Oppure per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé, quando le cure e/o i supporti vitali, non contrastando più validamente il processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta. In quest’ultima situazione i fatti salienti sono: la liceità morale di evitare inutili sofferenze; l’irreversibilità del processo del morire scientificamente provata; il limite sperimentato della cura; l’inutilità della sua prosecuzione.

La causa della morte in questo caso è dunque la malattia. La limitazione delle cure non viene quindi posta in essere per abbreviare la vita del malato; in ciò differisce dall’eutanasia o dal suicidio assistito, che invece hanno lo scopo di causare nel più breve tempo possibile e in maniera indolore la morte del paziente, ma per lasciare che si concluda un processo di morte causato da una malattia non più guaribile o stabilizzabile.

Il senso dell’agire clinico non si colloca tra “fare” o “non far nulla”, ma tra “fare” o “fare altro” (cfr. a tal proposito il documento prodotto dal Cortile dei Gentili e presentato al Senato il 17 settembre 2015, Linee propositive per un diritto della relazione di cura e delle decisioni di fine vita)

Vale a dire, l’agire clinico deve saper abbandonare i trattamenti sproporzionati per garantire invece una presa in carico globale del malato, finalizzata a migliorare la qualità della parte finale della sua vita, riducendone la sofferenza psicologica e fisica e risparmiandogli la solitudine, considerandolo vivo fino alla fine e meritevole di solidarietà e di rispetto per la globalità della sua persona attraverso le cure palliative.

Nel documento Linee propositive è inoltre evidenziata la necessità di riconoscere che la dignità della persona è da individuare proprio nella sua libertà di scegliere il rifiuto di cure sproporzionate, preferendo un accompagnamento di tipo palliativo. Questa considerazione è importantissima ancora una volta rispetto alla necessità di non confondere questa scelta con quella dell’eutanasia e del suicidio assistito. Nel rispetto della diversità delle impostazioni teoriche, il documento rappresenta un concreto esempio di come sia possibile, con sincerità e rigore, non solo ascoltarsi, ma anche ritrovarsi in qualità di appartenenti a un’unica comunità.

Voi, quando leggete sui quotidiani a proposito dell’eutanasia, siete coscienti di queste differenze di significato? O ritenete che spesso non sia chiaro il senso in cui si parla di eutanasia a livello mediatico? Mi piacerebbe sapere quali idee avete quando sentite parlare di “eutanasia” nei discorsi pubblici e se tali idee tengono conto della distinzione tra limitazione della cura, eutanasia e suicidio assistito.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/10/Fotolia_86049433_S-1-e1475870346642.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-10-08 08:12:002016-10-08 08:12:00Distinguiamo bene i termini: limitazione delle cure non è eutanasia, di Maria Teresa Busca

Medici, “appropriatezza” e salute

8 Febbraio 2016/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Che cosa ci auguriamo come cittadini quando ci rechiamo dal nostro medico di famiglia? In primo luogo, che si tratti di un medico competente e attento, non di un semplice burocrate compila-ricette. Che sappia tenere le fila dei vari aspetti della nostra salute, che comprenda le nostre patologie senza rinviarci in una danza di appuntamenti specialistici, quando non sono necessari. Oggi credo si possa affermare che è in aumento la consapevolezza dei medici di medicina generale rispetto al loro ruolo sul territorio, e che molti medici – giovani e meno giovani – rivendicano tale ruolo. Questo va detto, nonostante accada, naturalmente, di imbattersi nella mediocrità, come in ogni campo dello scibile.
Occorre aggiungere, visto che siamo in tempi di vacche magre, che un buon medico di famiglia, libero di fare il suo lavoro con coscienza, è anche un grande risparmio per la sanità. Meno specialisti, meno esami inutili, ma il giusto monitoraggio sulla salute dei suoi assistiti. Prevenire costa meno che curare.
E invece, tra gli infiniti lacci e lacciuoli che già rendono arduo il mestiere del medico di medicina generale, sentite l’ultimo decreto del ministero della Salute, comparso sulla Gazzetta ufficiale n. 15 del 20 gennaio 2016 (qui il link per i curiosi), dal roboante titolo Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale.
Non posso descrivervi in dettaglio il decreto, che tocca vari argomenti, scritto con un linguaggio talmente astruso e azzeccagarbugli da risultare incomprensibile agli stessi medici. Ma posso riassumerlo in pochi passaggi. Occorre risparmiare, quindi: più di 200 prescrizioni, se fatte al di fuori dei criteri di “appropriatezza”, sono a totale carico del paziente. Tra gli esami ai quali ora è possibile accedere solo nel rispetto di certe condizioni, alcuni sono molto comuni, come ad esempio il colesterolo o la funzionalità epatica. Altri, come le indagini radiodiagnostiche e genetiche, si prescrivono con minore frequenza, e in genere per individuare patologie gravi o gravissime, che possono compromettere la stessa vita del paziente. Esempio principe, il tumore. Quel tumore che il ministro Lorenzin sostiene demagogicamente che occorre “vincere”.
In sintesi, questo decreto ci regala: più burocrazia, meno tempo terapeutico, incertezza e timore di essere sanzionato per il medico, più spesa per il paziente, meno controllo sulla salute dei cittadini.
Il termine chiave sembra essere “appropriatezza prescrittiva”. E chi decide se un esame è o meno “appropriato” per un cittadino? Il medico, viene spontaneo rispondere, di concerto con il suo paziente, nel nome dell’alleanza terapeutica! Nossignore. Etica medica, bioetica, etica della cura sono semplici parole per i nostri burocrati del ministero.
Facciamo un esempio, nel quale si decide con sconcertante leggerezza della vita e della morte dei cittadini: e qui la parola BIOPOTERE assume un’inquietante concretezza. Quando il mio medico può prescrivermi accertamenti di radiologia diagnostica se ha il dubbio che io abbia un cancro?
L’articolo 2 del decreto dice che questi sono i riferimenti che il medico deve tenere presenti:
1) anamnesi positiva per tumori (che significa, esattamente? vogliamo continuare a far finta che le cause ambientali del cancro non esistano?)
2) perdita di peso (che avviene a malattia avanzata, per quanto ne so)
3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane (quale terapia?)
4) età sopra 50 e sotto 18 anni (questa è la condizione più assurda: in base a quale epidemiologia?)
5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna (cioè quando è tempo di cure palliative?)
Lasciatemi chiudere con un racconto personale. Un anno fa accusavo un dolore ai nervi intercostali, non ingravescente e non continuo, non ero dimagrita, avevo avuto un po’ di miglioramento con una terapia antinfiammatoria. Dopo varie ipotesi e tentativi diagnostici, il mio medico disse che non comprendeva, e che per sicurezza mi prescriveva una PET (esame radiologico complesso, e costoso). Dalla PET è emerso che in effetti ho un cancro, carcinoma mammario nella zona del mediastino, non operabile, difficile, ma ancora senza metastasi. Oggi, dopo un anno di cure, potrei avviarmi verso una remissione della malattia, anche se non è ancora certo. L’accuratezza del mio medico mi ha probabilmente salvato la vita. Ma ciò che è certo è che, se non avessi fatto una PET, non sarei qui a parlarvi di quest’argomento. E lui, il mio medico, d’ora in poi, se non si ferma questo brutto decreto, sarà costretto a tenersi i suoi sospetti per sé, o a spiegare a un proprio paziente (che teme essere malato di tumore) che dovrebbe fare un accertamento, ma che non ha il permesso di prescriverglielo. Se lo specialista non lo prescrive, il mio medico lo potrà prescrive solo a pagamento….. È giusto? E chi non ha il denaro? Dobbiamo avallare il principio che la sopravvivenza cambi in base al reddito?
Con quale coraggio si parlerà ai medici di etica professionale?
Altro interrogativo: e i giornalisti dove sono di fronte a questo grave taglio alla salute? Non avrebbe dovuto essere pubblicamente discussa una decisione come questa?
Non sta cambiando, silenziosamente e impercettibilmente, la sanità italiana? Questa non è democrazia. Non possiamo più permetterci la sanità pubblica che abbiamo avuto fino ad oggi?
E’ imperativo che i cittadini siano informati e che si apra un dibattito serio sul futuro.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/02/Depositphotos_7637828_s-2015-e1454854211109.jpg 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-02-08 09:58:552016-03-17 16:37:13Medici, “appropriatezza” e salute

E INFINE…si può dire morte

1 Dicembre 2014/61 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici,
come sa chi mi conosce personalmente o ha letto Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, sono vent’anni che studio la controversa relazione di noi esseri umani con il proprio e l’altrui morire, con i lutti, con i riti, con la memoria dei defunti, con i luoghi dei morti; con la malattia, la medicina, le cure palliative e le scelte che si possono fare alla fine della vita; con la paura d’invecchiare, con l’estrema vecchiaia, con le demenze dei propri cari.

Tutti temi che fanno tremare anche i più coraggiosi tra noi, che fanno fare gli scongiuri ai più superficiali, ma che rappresentano pure il destino comune a tutti, anche ai tanti che preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Temi, inoltre, che restituiscono, a chi vi si addentra, un significato non solo al proprio diventare vecchi e morire, ma soprattutto alla vita di ciascuno, nella sua pienezza.

Da un paio d’anni scrivo questo blog, ma ora sento l’esigenza di agire, negli anni che mi restano, per aiutare chi soffre e per condividere con quante più persone possibile un messaggio che mi ha cambiato la vita: la consapevolezza della morte ci insegna che ogni singolo istante è unico e, se sappiamo assaporarlo, restando nel presente, ciò che ci viene restituito è il tempo, che di solito fugge impietoso. E inoltre, se sentiamo (nel corpo, non solo nella mente) il senso della fragilità, della vulnerabilità umana, possiamo essere più solidali e responsabili, e dare il giusto peso alle relazioni (in questo mondo frammentato, regno dell’autismo di massa).

Molti sono coloro che mi hanno invitata a fare qualcosa di più sull’invecchiare e il morire, temi sui quali le persone, oggi, desiderano riflettere. Mi hanno convinto facilmente, perché ci stavo pensando. Ho pensato a un’associazione, che trasformi i mei studi in aiuto a chi attraversa una difficoltà o un dolore, e in azione sociale.
Vorrei, prima di definire in modo preciso il profilo di questa associazione, avere le vostre considerazioni. E, vi prego, andate a ruota libera. Se esistesse una siffatta associazione (chiamiamola INFINE Onlus…), quali dovrebbero essere le sue priorità?
Quali i temi su cui impegnarsi a fondo, sia in ambito sociale sia sul piano della ricerca e della divulgazione?
Quali i contesti in cui agire? Quali battaglie condurre? Con quali strumenti?
Vi sono grata in anticipo per le vostre opinioni e i vostri suggerimenti, che sono certa arriveranno numerosi.
A presto in associazione!

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Brittany Maynard e la nostra morte

7 Novembre 2014/19 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

In questi ultimi giorni si è parlato moltissimo, su tutti i media, di Brittany Maynard, la ragazza americana che ha scelto di morire con un suicidio assistito, prima che il tumore che le aveva invaso il cervello le impedisse di vivere una vita da lei considerata degna. Si è trattato di un suo diritto, riconosciutole nello Stato dell’Oregon. Inutile dire che la sua storia, come tante altre di vite con destini tanto tristi, ci commuove. Brittany non ha solo scelto di morire, ha voluto rendere pubblica la sua morte. E da quel momento in poi, non è più di lei che stiamo parlando, ma di noi.
Due sono le questioni a cui vorrei fare un rapido accenno.
a) Sul tema della fine della vita. Molte firme si sono spese per commentare l’accaduto. Ne citerò solo due: la Pontificia accademia per la vita, per bocca di monsignor Carrasco de Paula, che ha condannato il gesto (non la persona) come non dignitoso. E il giurista Zagrebelsky che, nell’articolo pubblicato sulla Stampa dell’altro ieri si chiede se sia legittimo vietare il suicidio assistito (e implicitamente risponde di no). Un passaggio mi è parso particolarmente interessante: “E’ difficilmente accettabile l’argomento secondo il quale occorre vietare a tutti, perché qualcuno potrebbe non essere pienamente consapevole e quindi libero”. E’ infatti molto complesso il rapporto tra la probabile illegittimità di vietare e la mancanza di una cultura della morte nel nostro paese (che rende fragile la libertà che si intende difendere). E’ un aspetto, questo, di fronte al quale cerco, faticosamente, giorno dopo giorno, di riflettere senza schierarmi. Tutti i miei lettori possono immaginare quanto sia difficile questa posizione, soprattutto in Italia, dove il dibattito su questi temi è ammesso solo per coloro che sono al fronte, da una parte o dall’altra, e l’incertezza, il confronto profondo non hanno diritto di cittadinanza. Fatta questa premessa, mi colpisce che si possa parlare di morte solo davanti a un caso eclatante, che implica il suicidio o l’eutanasia, mentre è ancora tanto raro un dialogo aperto sul quotidiano morire di ciascuno. Non dimentichiamo che suicidio ed eutanasia riguardano lo zero virgola della popolazione, e che è un paradosso disinteressarsi dell’altro 99 per cento.
b) E con questo veniamo al secondo punto. Troppe persone muoiono ancora male, soffrendo fisicamente e spiritualmente, senza cure palliative appropriate, in luoghi non idonei, senza i loro cari accanto, senza sapere neppure cosa chiedere per una morte più dolce. Il fatto che otto milioni di persone abbiano visualizzato il video di Brittany parla chiaro. Tralasciamo il versante morboso della spettacolarizzazione del dolore, che forse esiste per molti, ma che è difficile da analizzare e quantificare. Diciamo invece che tanti sentono l’esigenza di capire, di parlare della fine della vita propria e altrui, ma non trovano sedi e momenti opportuni per farlo. Ricordo che il New York Times pubblica una media di tre/quattro lunghi articoli alla settimana sull’approfondimento della riflessione sulla morte. Anche il Washington Post non è da meno. Dove sono i nostri giornalisti? Sanno che metà degli italiani ritengono che le cure “palliative” siano quelle che non servono a niente, o ritengono che siano solo per i malati di cancro? Interessa ai direttori dei giornali che i cittadini non sappiano pertanto pretendere ciò che è già un loro diritto, ossia essere accompagnati, non soffrire, poter scegliere e sentirsi vivi fino alla fine, finché la malattia lo consente? E inoltre, di conseguenza, non lasciare parenti distrutti da un lutto devastante, carichi di immagini di dolore e di sensi di colpa per essere stati impotenti di fronte alla morte dei loro congiunti?
Parliamo pure anche di quei casi in cui le cure palliative potrebbero non rivelarsi sufficienti. Parliamone in un ampio dibattito pubblico, tutti insieme: palliativisti, bioeticisti laici e cattolici, giuristi, antropologi, psicologi, sociologi, ma soprattutto cittadini. Facciamolo attivando la nostra capacità di ascolto e mettendo tra parentesi i nostri pregiudizi, e anche le nostre battaglie politiche; e ricordiamo che si tratta di casi probabilmente mai universalizzabili, per via dell’incancellabile specificità dell’individuo umano. Se quindi dovrà essere poi stabilita qualche norma di carattere generale, è possibile auspicare che ciò accada dopo questo dibattito, e che si tratti di un diritto lieve e gentile, che entri il meno possibile in quel sistema di relazioni che è la vita delle persone?
Cosa ne pensate?

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La nostra storia, il nostro corpo, il limite

Il corpo che siamo: alle radici dell’etica

18 Settembre 2014/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Ricevo e pubblico con piacere dalla bioeticista Giusi Venuti questo articolo che riflette appieno anche il mio pensiero:

Da dove viene e dove va il nostro sapere? E’ a partire da questa domanda che l’oncologo Van Potter, negli anni Settanta in America, ha fondato una nuova disciplina: la bioetica.
A suo avviso, il compito della bioetica era ripristinare e mantenere il legame del sapere scientifico e tecnologico con la saggezza, intesa come arte di utilizzare il sapere acquisito in modo opportuno. Potter intendeva invitarci a inscrivere nel “corpo che siamo” ogni pensiero, e ogni scelta etica. Una lezione di umiltà, che avrebbe dovuto riportarci alla terra dalla quale tutti nasciamo e alla quale tutti torneremo.
Eppure è facile constatare come il suo monito sia stato e sia continuamente disatteso proprio dalla bioetica, che è diventata una disciplina intellettualistica, nella quale si manovrano principi astratti e concetti vuoti e ciechi (sacralità o qualità della vita? beneficialità o autonomia?).
Siamo ancora in grado di sentire la vita che scorre nelle nostre vene e che costituisce il fondo non scontato su cui ogni presa di posizione teorica poggia?
Quando ci pronunciamo a favore della responsabilità sociale, quando difendiamo gli esclusi e i deboli avvertiamo nel corpo il peso, la paura, il disorientamento, che la nostra stessa vulnerabilità ci provoca?
Ci meravigliamo ancora della potenza di ogni vita che inizia? Siamo in grado di rendercene conto e di coglierla come una manifestazione concreta del differire, dell’essere altro da ciò che si era precostituito o immaginato?
Forse questo era l’invito più genuino di Van Potter quando, da scienziato, evidenziava l’esigenza di sapere come stiano le cose (e che le cose non siano messe bene ormai lo sappiamo tutti) ma anche il bisogno di una saggezza degli atti. Una saggezza capace di dosare e miscelare il desiderio di benessere personale con l’imperativo di rispettare gli altri e il pianeta; il sapere specialistico con la consapevolezza della complessità; la rivendicazione dei diritti individuali con la considerazione dei doveri collettivi.
Sappiamo che è molto difficile far passare nella pratica quotidiana questi richiami morali, che non a caso vengono da Potter stesso codificati in un vero e proprio decalogo.
Forse dovremmo imparare ad agire senza “entrare nella terra promessa”, rinunciando a vedere immediatamente le ricadute delle nostre azioni: ma per far questo servirebbe una nuova educazione etica, capace di accogliere la fragilità e le emozioni di chi, in quanto uomo, è chiamato ad agire con responsabilità, nei limiti di ciò che il suo corpo gli consente, nel qui e nell’ora della vita che gli è toccata in sorte. Ne siamo, ne saremo capaci?
Voi che ne pensate?

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