Il lutto collettivo: ha senso provare dolore per la morte di uno sconosciuto? di Davide Sisto
Il terribile terremoto che ha flagellato in questi giorni il Centro Italia, cagionando centinaia di morti, mi spinge a riflettere su un tema particolarmente delicato e su cui è in corso un ampio dibattito: l’elaborazione collettiva del lutto. In altre parole, il particolare sentimento di dolore e di perdita provato dai componenti di una specifica comunità quando muoiono persone sconosciute, ma percepite geograficamente e/o culturalmente vicine, a causa di un cruento fatto di cronaca, di un attentato terroristico o di una catastrofe naturale.
Nel luglio 2014 il New York Times pubblica un articolo dello scrittore olandese Arnon Grunberg, il quale manifesta il suo radicale scetticismo nei confronti del lutto collettivo, all’indomani dell’abbattimento nell’Ucraina orientale del volo MH17, dei cui 298 passeggeri a bordo 193 erano dei Paesi Bassi (vedi NyT). Grunberg, notando come i social network intensifichino il bisogno di esibire in pubblico le emozioni e determinino altresì un giudizio morale negativo su chi si ritrae dal cordoglio collettivo, si chiede:
- Perché mai dovrebbe avere un senso razionale la sofferenza degli olandesi per la morte dei propri connazionali piuttosto che per quella di cittadini di altri paesi europei? Perché mai dovrebbe creare maggiore dolore in un olandese la morte di duecento sconosciuti olandesi rispetto a quella di duecento iracheni o afghani uccisi durante un bombardamento? In tutti i casi sono, infatti, sconosciuti e, inoltre, gli olandesi morti per l’abbattimento del volo MH17 non sono stati uccisi in quanto olandesi.
- Non è che il lutto collettivo rischi di diventare un pericoloso strumento per promuovere una specifica identità collettiva (nel caso citato: il nazionalismo olandese) e per stabilire quindi una differenza qualitativa tra un “noi” e un “loro”?
- Non è meglio rispettare il carattere intimo, personale e non condivisibile del lutto? Non c’è niente di male a non provare alcun sentimento nei confronti di una tragedia che non ci coinvolge in prima persona. Anzi, è una forma di sopruso e di violenza la pretesa mediatica che tutti debbano sentirsi coinvolti emotivamente quando, per esempio, viene abbattuto un aereo con centinaia di passeggeri.
Nella conclusione dell’articolo Grunberg arriva a sostenere che l’indifferenza al lutto collettivo sia un segno di umanità, poiché farsi coinvolgere da tutta la sofferenza del mondo non potrebbe che renderci casi psichiatrici, a lungo andare distaccati apaticamente dalla realtà quotidiana per limitare il proprio dolore. “Io – conclude – riconosco la tragedia, prendo coscienza che tu sei in lutto, ma non riesco a unirmi a te, non ora. […] E reciprocamente, quando sarà il mio turno di essere in lutto, non ti obbligherò a esserlo anche tu accanto a me”.
Grunberg sottolinea alcune evidenti degenerazioni a cui può andare incontro la partecipazione emotiva della collettività al lutto per persone sconosciute, a seguito di una tragedia particolarmente significativa. Per esempio, il rischio che insorga irrazionalmente una forma di nazionalismo deleterio, che spinga a creare barriere tra un “noi” e un “loro”, è cristallino e lo possiamo constatare sia in questi giorni del post-terremoto in Italia (pensiamo allo stupidissimo confronto stabilito da alcuni tra i terremotati italiani nelle tende e i profughi stranieri negli alberghi), sia dopo i recenti attentati terroristici in Francia (con l’immediata recrudescenza dei partiti xenofobi). Così come, su un piano razionale, è legittimo manifestare alcuni dubbi sul fatto di sentirsi – superficialmente? – coinvolti in un lutto nei confronti di determinati individui o popolazioni, rimanendo indifferenti verso la morte di altri individui o popolazioni (cfr. il caso dei bombardamenti in Iraq), solo perché i primi vivono in territori limitrofi ai nostri, mentre gli altri appartengono a culture lontane e differenti.
A mio modo di vedere, però, il pensiero di Grunberg perde di vista l’aspetto più propriamente “sensibile” dell’elaborazione collettiva del lutto: l’istintiva immedesimazione nella sofferenza indicibile dell’altro e il bisogno di farla propria per far capire – da un lato – a chi sta soffrendo che non è solo e – dall’altro – a se stessi che la morte è parte della vita.
Quando ho letto dell’attentato terroristico al Bataclan, ho avuto un autentico colpo al cuore. Sono un appassionato di musica e di concerti hard rock e, molto probabilmente, fossi stato a Parigi sarei anch’io andato a sentire, in quella maledetta sera, gli Eagles of Death Metal. E, allora, in quel colpo al cuore, nel suo battito frenetico si materializza simbolicamente il senso di perdita di un amico sconosciuto, con cui si condivideva una passione (“fratelli nel metal”, come si dice enfaticamente tra appassionati), dissoltasi in pochi secondi nel vuoto temporale per un semplice sparo. Si materializza lo strazio legato all’immagine di due genitori che, proprio come sarebbe successo ai miei genitori, si vedono crollare il mondo addosso, esattamente l’istante dopo quelli in cui vigeva la serenità al pensiero del proprio figlio nelle viscere dell’adrenalina musicale.
Matura, soprattutto, la coscienza della precarietà della vita, la quale – anche solo per un attimo – ci rammenta il valore della premura nei confronti degli altri. Perché questa è la prima idea che balena nella mente quando, per esempio, si immagina una persona di Amatrice che, andando a dormire serenamente a mezzanotte, si sveglia di colpo poche ore dopo, ritrovandosi – magari – senza più casa e famiglia.
Una simile forma di partecipazione rimane certamente superficiale se non accompagnata da un gesto concreto d’aiuto, un po’ narcisistica (in fondo, più la vittima mi assomiglia, più io provo dolore per lei perché inconsciamente penso a me stesso) e anche lontana dal sentire personale che caratterizza il lutto. Tuttavia, può rivelare anche un lato profondamente pedagogico. La collettività che condivide il dolore per un lutto può maturare, proprio in questa singola occasione, la consapevolezza che la vita non è soltanto un frenetico correre dalla mattina alla sera, senza sapere esattamente verso dove si corre e perché si corre. Non è solo una piattaforma grigia piena di interessi personali e di piccoli egoismi o gelosie. Introiettare in sé, anche per poche ore, il dilaniarsi di chi è stato colpito da una tragedia immane rappresenta un momento di rottura, un breve salto nella consapevolezza che la morte, da un momento all’altro, in una qualsiasi forma, può farci visita e interrompere la precedente corsa. Forse, si diventa casi psichiatrici proprio quando si prende alla lettera il ragionamento di Grunberg, inaridendo il proprio sentire e credendo che ognuno abbia un dolore esclusivo, che riguarda soltanto se stessi e che – appunto – esclude tutti gli altri. Forse, nel partecipare – appunto, anche superficialmente – al lutto altrui si può riaccendere quella fioca luce che, ricordandoci di quanto possa essere precaria la vita, ci fa sentire parte di un legame sociale e ci ricorda il profondo valore della “premura”.
E voi cosa pensate del ragionamento di Grunberg? Attendo opinioni e pensieri.