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Tag Archivio per: vita

Il cimitero, luogo di vita, di Davide Sisto

13 Dicembre 2022/25 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Lo scorso ottobre, a Trieste, ho avuto modo di assistere al documentario intitolato “Il Girotondo” della regista Alice Palchetti. Il documentario, ambientato in uno dei cimiteri di Berlino, ha lo scopo di evidenziare il limite e il confine tra la vita e la morte attraverso la descrizione delle molteplici attività che, in Germania, si svolgono quotidianamente all’interno delle strutture cimiteriali. In mezzo alle tombe viene ripreso, infatti, un numero significativo di bambini intenti a giocare e a rincorrersi come se fossero all’interno di un qualsiasi parco cittadino, mentre gli adulti svolgono le più disparate attività ludiche: concerti, conferenze, spettacoli teatrali, ecc. Queste attività si integrano armonicamente con le processioni funebri, segnate dal dolore per la perdita. I primi piani sulle persone in lutto si alternano a quelli su chi sta, per esempio, recitando. La regista, una volta presentato il suo documentario, non ha nascosto il suo iniziale spaesamento: abituata alle convenzioni italiane, è rimasta dapprincipio perplessa a ricevere inviti da parte degli amici tedeschi per incontrarsi dentro il cimitero quale luogo di ritrovo in vista delle successive attività ludiche. La normalità con cui gli abitanti di Berlino sostano nei cimiteri – anche per leggere, per fare jogging, per fare pausa pranzo, ecc. – l’ha spinta tuttavia a ragionare sul senso del limite e del confine in maniera differente rispetto alle sue abitudini consolidate. Il girotondo, pertanto, rappresenta la metafora dell’ininterrotto passaggio da sopra a sotto la terra e viceversa che caratterizza la casa dei morti, mettendoli costantemente in contatto con i vivi. In altre parole, indica quel confine che unisce e separa, rendendo di fatto il cimitero una specie di dogana tra due differenti mondi. Le immagini dei bambini che corrono tra le tombe servono proprio per sottolineare la circolarità tra l’inizio e la fine.

Guardando il documentario, mi è venuta subito in mente una famosa affermazione di Luigi Lombardi Satriani, appuntata nel bellissimo libro “Il ponte di San Giacomo”: “I morti sono i segni sotterranei della vita”. Questa frase nella sua semplicità, se applicata alla natura del cimitero, non solo conferma le buone intenzioni del documentario di Alice Palchetti, ma indirettamente spiega l’errore principale che commettiamo di solito in Italia.

In Germania emergono soprattutto i limiti e i confini che, dentro al cimitero ubicato nel cuore delle città, uniscono e separano i vivi e i morti, l’inizio e la fine. Nel nostro paese invece ci si sofferma maggiormente sulle alte mura che, cintando strutture cimiteriali spesso collocate ai margini delle metropoli, determinano la rigida separazione tra chi è fuori e chi è dentro.

In tal modo, eliminano la comunicazione tra l’inizio e la fine. Il nostro atavico timore nei confronti dei cimiteri, percepiti come luoghi tristi e lugubri, ci spinge ad allontanarli il più possibile dalla vita di tutti i giorni, rendendoli una tappa obbligata per il solo e canonico giorno dei morti. Ed è veramente un peccato. Lo dico da appassionato di cimiteri. Quando mi reco al loro interno, la prima sensazione che provo è quella di essere dentro una realtà estremamente ricca di vitalità. Ogni cimitero ha, innanzitutto, una sua flora e una sua fauna specifiche, le quali prosperano tra i loculi e i cimeli delle persone decedute. Il silenzio predominante accompagna, quindi, il susseguirsi di informazioni e memorie su chi ha vissuto prima di noi, facendo percepire in maniera simbolica la loro presenza fantasmatica.

È ovvio che se associamo al cimitero soltanto il momento del rito funebre, dunque un evento terribilmente doloroso, non può che scaturirne una normale repulsione. Se, invece, impariamo a popolarlo a prescindere dai riti funebri, svolgendo al suo interno le attività che caratterizzano la nostra quotidianità, riusciamo forse a cogliere meglio il legame tra il presente e il passato, dunque la dialettica tra la presenza e l’assenza che tratteggia la natura del defunto. In tal modo, possiamo disporre di uno strumento prezioso in più per superare la rimozione sociale e culturale della morte e per maturare un atteggiamento meno traumatizzato nei confronti di quel tratto mortale che ci definisce. Proprio per tale ragione, sono convinto che le scuole dovrebbero portare i bambini nei cimiteri, per abituarli a una relazione meno traumatica tra l’aldiquà e l’aldilà.

Nel consigliare il documentario di Alice Palchetti, vi chiedo qual è il vostro rapporto con i cimiteri, se li frequentate o se li evitate. Attendiamo con curiosità le vostre risposte.


ps.le persone interessate a vedere il documentario possono contattare Alice tramite email: alicepalchetti@gmail.com

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/12/Bambini-che-giocano-al-parco-e1670849377612.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-12-13 16:21:112022-12-16 16:39:22Il cimitero, luogo di vita, di Davide Sisto

Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

25 Aprile 2022/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/04/coronavirus-conseguenze-psicologiche-e1650709432692.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-04-25 10:35:392022-04-25 10:35:40Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

Fianco a fianco ai colleghi, di Silvia Tanzi

23 Marzo 2020/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Riceviamo, e pubblichiamo, grati, la preziosa testimonianza di Silvia Tanzi, medico palliativista dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

Sono un medico esperto in cure palliative, intese in senso moderno: cure palliative, quindi, non solo come accompagnamento alla fine della vita, ma appropriate e puntuali là dove esista una complessità fisica, sociale, psicologica o spirituale in una persona malata di una patologia che mette a rischio la sua vita (e nella sua famiglia). Cure palliative in senso moderno, che fanno della ricerca alimento per la clinica e viceversa. E che fanno della formazione agli altri operatori un loro mandato, per diffondere le competenze in cure palliative e l’integrazione tra gli approcci di cura.

Lavoro insieme alla mia équipe dentro un ospedale, e in questi giorni aiuto i colleghi delle malattie infettive a fronteggiare la sofferenza della situazione legata al coronavirus. Cerco di aiutarli dando loro nel più breve tempo possibile un “distillato” di quelle che sono le mie competenze, affiancandoli nella presa in carico di questi fragili pazienti.

Ci hanno chiamato circa due settimane fa per aiutarli a comunicare ai pazienti e alle loro famiglie quello che stava succedendo, per sostenerli nella complessità delle relazioni e nelle scelte rispetto alle decisioni da prendere, affinché fossero il più appropriate possibili.

Da quella richiesta abbiamo deciso di far parte dei loro tavoli di discussione e rimanere accanto a loro nella clinica di ogni giorno. Siamo quindi di aiuto nella gestione dei sintomi fisici più presenti, come fatica a respirare, agitazione, ansia e depressione, dolore. Siamo accanto a loro nelle comunicazioni difficili dovute alla diagnosi del coronavirus o alla comunicazione di un peggioramento. Siamo accanto a loro per accogliere e supportare le emozioni che i pazienti hanno e che possono lasciar andare solo durante la nostra breve visita giornaliera.

Siamo accanto ai colleghi per creare le connessioni che i pazienti hanno perso con le famiglie, spesso famiglie a casa in quarantena. Siamo accanto ai colleghi per ridare alle persone che curiamo un po’ di dignità: cerchiamo di trasmetterla attraverso i nostri occhi, gli unici che restano visibili malgrado i dispositivi di protezione.

Col Covid-19 la morte è ritornata prepotentemente in ospedale, e obbliga gli operatori ad affrontarla. I pazienti non possono essere dimessi e mandati a casa, anche se destinati a morire. E’ palpabile il senso di impotenza degli operatori, e la disperazione dei familiari a casa. Ci si trova così a riflettere sull’esigenza di fare solo ciò che è realmente importante o, ancor meglio, a capire l’importanza di cose che fino a ieri non sembravano a tutti essenziali: toccare il malato, parlargli con gentilezza, farlo sentire unico, entrare nella stanza, rimandargli uno sguardo profondamente umano e di presenza, telefonare alle famiglie pesando le parole, lasciando spazio alle emozioni, condividendo le nostre con loro, offrendo un supporto che continuerà nel tempo.

Siamo dentro alle stanze, siamo lì. Accanto a loro, con una malattia che ha rotto le asimmetrie tra sano e malato, tra curante e curato, perché entrando in quelle stanze ci mettiamo anche noi a rischio di contrarre la stessa malattia.
Mai ho provato una cosa del genere, perché alla fine io ero sempre il medico: empatico, accogliente, gentile, ma sano. Questa condivisione che annulla le distanze, questa vulnerabilità che ci accomuna, ha fatto sì che ritrovassi la mia serenità, che avevo perduto stando in una situazione più protetta, dentro a un centro oncologico.

Sto imparando il senso del mio lavoro più in questi quindici giorni che negli ultimi quindici anni, perché è come se questa pandemia ci avesse obbligati a selezionare ciò che è realmente importante sapere e fare in cure palliative.
Non ho mai sentito così intensamente come ora, nei quindici minuti di visita completamente “bardata”, l’importanza della relazione di cura, della relazione che cura.
Non ho mai compreso bene come ora l’importanza di offrire trattamenti appropriati, in base alla persona che hai davanti, ai suoi punti di forza e alle sue fragilità.
Non ho mai compreso bene come ora l’importanza di avere competenze non solo cliniche, comunicative e relazionali, ma anche etiche. La padronanza dell’etica, come professionista sanitario, mi permette di compiere scelte e aiutare i miei colleghi a fare altrettanto. Scelte orientate a un’etica non meramente utilitaristica, ma pluralista e bilanciata.  Non accettare acriticamente criteri “oggettivi” e inevitabili valutazioni socio-economiche, aiuta non soltanto nel processo decisionale, ma anche a dare un senso alle scelte che si devono compiere e a ristabilire la relazione di cura, anche quando curare sembra impossibile.

Mai come ora “ho rotto la bolla” come palliativista: questa malattia toglie le certezze date per scontate (salute, lavoro, incontri, sport, passeggiate, scuola), la connessione con la tua famiglia, la sicurezza delle cure gratuite garantite a tutti. Perché la cura non c’è ancora, la si sta studiando; e le persone bisognose sono più numerose di quello che il sistema sanitario può reggere. Entrare nella bolla della stanza isolata, con tutte le competenze che posso portare, con la presenza “compassionate” del mio stare, è forse il regalo migliore che potevo farmi.

La gratitudine che ogni giorno ricevo dai colleghi mi conferma che tutto quanto ho fatto prima non è stata preparazione vana. Alla fine, anche se nessuno avrebbe voluto una situazione del genere, ci siamo resi conto di avere gli strumenti giusti almeno per arginare l’ondata di distruzione.
E’ proprio così che mi ero da sempre immaginata le cure palliative dentro un ospedale: fianco a fianco ai colleghi, ai pazienti e alle famiglie per agire insieme nel portare avanti la vita.

 

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Le cure palliative e l’arte, intervista a Massimiliano Cruciani, di Marina Sozzi

20 Gennaio 2020/1 Commento/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Massimiliano Cruciani, presidente dell’Associazione ZeroK di Carpi, che ha lo scopo di diffondere la cultura delle cure palliative attraverso tutte le forme delle arti.

Perché l’associazione Zero k? Quali sono i suoi obiettivi?

Zero k nasce perché due italiani su tre non conoscono la legge 38/2010, la legge 219/2017 e le cure palliative. Noi vorremmo diventare un ponte tra i professionisti delle cure palliative e i cittadini, formando e informando questi ultimi sui loro diritti e sollecitando i primi sui propri doveri. Vorremmo reinventare anche i percorsi formativi per i professionisti, inserendo le arti come momento di crescita umana e professionale. L’obiettivo di Zero k è anche trasferire la cultura delle cure palliative lontano dalla malattia, portarla nel quotidiano di tutti, restituendo alla vita il giusto valore, e alla morte la sua ineluttabile naturalezza.

Che ruolo ha l’arte nelle cure palliative? E’ terapeutica? In che senso?

Le arti hanno sempre avuto, nella storia dell’uomo, un grandissimo valore per comunicare emozioni e sentimenti, per far emergere stati d’animo nascosti o taciuti e soprattutto per poter entrare in contatto con se stessi. Per chi affronta un percorso di malattia e per chi si prende cura di lui (operatori e familiari) l’arte è un’opportunità per potersi esprimere al di fuori dei soliti canali comunicativi, una nuova modalità per raccontarsi, ascoltarsi e crescere. Molti studi dimostrano l’impatto benefico delle arti nella gestione integrata dei sintomi come il dolore, l’ansia, la dispnea…tutto questo è un valore aggiunto se usato a supporto di terapie appropriate. Prima si controllano i sintomi e poi si può fare altro, molto altro. Occorre un cambiamento culturale per cui le cure palliative siano viste come un percorso multidisciplinare di condivisione.

Ci racconti un caso in cui l’arte, nelle sue varie forme, è stata fondamentale?

Potrei raccontare tante storie. Un padre ha rappresentato con un disegno le emozioni vissute dopo esser riuscito a pattinare con la propria figlia di 8 anni a pochi giorni dalla morte; alcuni pazienti hanno scritto poesie come doni per chi resta. Non posso citare una storia in particolare, perché ognuna è una cornice, al cui interno ogni persona ha potuto dipingere la tela con i colori della sua vita. Le arti, la scrittura, la pittura, la musica, il teatro, il cinema, sono strumenti di supporto per raggiungere il miglior benessere possibile in un percorso di malattia.

L’arte serve anche a diffondere la conoscenza delle cure palliative? In che modo?

Con semplicità e leggerezza, raccontiamo la verità. Cerchiamo di mettere in risalto la potenza delle cure palliative, quella di portare luce e vita nei percorsi di malattia. Gli studi dimostrano che l’attivazione precoce di percorsi di cure palliative porta a un miglior controllo di tutti i sintomi, alla riduzione dei ricoveri impropri, alla diminuzione dell’accanimento terapeutico, all’aumento della sopravvivenza e alla diminuzione della richiesta eutanasica. Il nostro obiettivo è cercare di fare chiarezza utilizzando tutte le arti come veicolo d’informazione.

Avete realizzato un video per Federazione Cure Palliative, che parla dei valori delle cure palliative. Quale messaggio volevate soprattutto passare?

Il tempo della vita è un meccanismo che può bloccarsi in un percorso di malattia. Occorre ridare fiducia e speranza per rimettere in moto un ingranaggio bloccato, forse parzialmente arrugginito, ma ancora in grado di funzionare. Anche quando il tempo sembra poco. Le cure palliative sono vita. Il video, con la forza evocativa di immagini e musica, ha lo scopo di dare corpo a questi concetti e trasmetterli a chi ne fruirà.

C’è qualcosa che tieni a dirci e che non ti abbiamo chiesto?

Sì. Le cure palliative rappresentano anche una cultura critica nei confronti della nostra società, un punto di vista filosofico sulla vita, e per questo crediamo che debbano essere comunicate anche a chi non è malato. Ad esempio, dobbiamo imparare a stare negli occhi e nello sguardo dell’altro, accogliendo e non respingendo le paure e sofferenze, ascoltando di più e parlando di meno. La nostra civiltà frena la crescita delle persone come esseri umani, induce a vivere senza riflettere, sempre alla ricerca di soluzioni facili a qualunque problema. La malattia aiuta a capire che siamo “a scadenza”, che occorre quindi vivere il tempo presente. Ma davvero c’è bisogno di incappare in una grave malattia per capire che siamo il trattino tra la data di nascita e la data di morte?

Vi piace l’idea di usare l’arte per parlare di cure palliative? Avete fatto esperienze in questa direzione?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/01/img-20191006-wa0070_1_orig-e1579515853856.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-01-20 11:34:202020-01-20 11:46:49Le cure palliative e l’arte, intervista a Massimiliano Cruciani, di Marina Sozzi

Riflessioni sulla morte di Vincent Lambert, di Marina Sozzi

12 Luglio 2019/26 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

E’ morto Vincent Lambert, ieri mattina. Il suo caso ha sollevato un dibattito bioetico in Francia sul fine vita, con notevoli ripercussioni anche in Italia.

Riassumiamo i termini della questione, per come è possibile dedurla dai giornali, italiani e francesi, per poi fare alcune riflessioni a margine (perché sono convinta che per esprimere opinioni sulla vita di un uomo occorre: a) una competenza medica specialistica approfondita, b) una competenza giuridica, c) e soprattutto una conoscenza profonda della persona (non solo del caso) e della sua storia biografica e psicologica.

Vincent nel 2008 faceva l’infermiere e aveva 32 anni, era sposato e aveva avuto da poco una bambina. Le conseguenze del grave incidente stradale di cui fu vittima sono descritte in due modi dai quotidiani on e off line. C’è chi ha parlato della tetraplegia e di una lesione cerebrale definita “sindrome della veglia non responsiva”, interpretando quindi Vincent come un disabile, poiché respirava senza ventilatore, il suo cuore batteva, e non era in stato di morte cerebrale.

Altri hanno definito la sua situazione come stato vegetativo, come fecero nel novembre 2018 gli esperti incaricati dal Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne: “stato vegetativo irreversibile cronico”.  Le due definizioni sono simili, e tuttavia lasciano spazio a diverse letture etiche: infatti, intorno a questo caso penoso, si è combattuta per dieci anni una battaglia non solo legale, ma anche intrafamiliare. E questo è, se vogliamo, l’aspetto più triste di questa vicenda.

Le considerazioni che mi vengono spontanee sono le seguenti: e sono interrogativi e auspici piuttosto che certezze.

1) Credo che la medicina dovrebbe essere molto più prudente e guardinga nei suoi tentativi di rianimazione, e che dovrebbe considerare un fallimento grave produrre un vivo/non vivo come è accaduto a Vincent, o ad Eluana, (e oggi pare ci siano in Italia tremila persone che si trovano in una situazione analoga, estrema). Nel suo bellissimo libro, Quando il respiro si fa aria, il neurochirurgo indo-americano Paul Kalanithi scrisse: “Di pari passo con le mie competenze aumentarono anche le responsabilità. Per imparare a valutare quali vite si possono salvare, quali no, e quali non si dovrebbero salvare, serve una capacità di prognosi inarrivabile. Commisi anch’io i miei errori. Come trasportare d’urgenza un paziente in sala operatoria solo per salvargli abbastanza cervello da fargli battere il cuore, anche se non avrebbe parlato mai più, avrebbe mangiato attraverso un sondino e sarebbe stato condannato a un’esistenza che non avrebbe mai voluto… Arrivai a considerarlo un fallimento ancora più madornale rispetto alla morte”.

Si tratta di una riflessione che ogni rianimatore dovrebbe aver modo di apprendere e discutere all’università. L’etica comporta in questo caso, al contempo, esperienza e tecnica: evitare di trasformare una vita umana nell’esistenza di un metabolismo inconsapevole. Fermarsi prima. Rinunciare. Accettare che subentri la morte.

2) Una volta che un medico o un’équipe medica abbia creato, per inesperienza o per fatalità, un’esistenza di questo tipo, si entra evidentemente in un terreno minato, perché qualunque sia la decisione che si prende, si rischia di farlo contro il volere che avrebbe avuto il paziente quando era cosciente. Le Dichiarazioni anticipate di trattamento, o testamento biologico, diventano a questo punto fondamentali. Non depositarle ci espone al pericolo di subire un’esistenza che mai avremmo voluto: non solo, ma rischiamo anche di creare situazioni estremamente penose di litigio tra le persone a cui abbiamo voluto bene, come è successo per Vincent. La moglie contro i genitori e viceversa, parole terribili invece del lutto comune. Anche in Italia, vi ricordo, abbiamo finalmente una legge sulle DAT (legge 219/2017) che dà loro una certa cogenza sulle scelte mediche. E tuttavia, mentre scrivo questo, sono consapevole della lunga strada ancora da percorrere nel nostro paese affinché la compilazione delle DAT diventi una scelta maggioritaria.

3) Inoltre, occorre finirla con l’uso improprio delle parole, come troppi giornalisti hanno continuato a fare anche per il caso Lambert. La parola “eutanasia” non ha nulla a che fare con quanto è successo, perché nessuna sostanza letale è stata somministrata a Vincent. Sono state sospese delle cure, che nel suo caso riguardavano l’alimentazione e idratazione artificiale. Che queste ultime siano da considerarsi cure mediche è stato ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica. E il fine vita di Vincent è stato accompagnato da cure palliative (da una sedazione palliativa profonda), per accertarsi che non soffrisse.

Chi ha scritto che il caso di Vincent è paragonabile a quello dell’anziano non più capace di nutrirsi da solo o del bambino disabile ha fatto un’operazione che non condivido, quella di utilizzare un caso estremo e generalizzarlo, per colpire la mente e la pietas di chi legge. Ma, come non bisogna applicare tecnologia medica sproporzionata, sia per gli anziani sia per ogni altra persona, qualunque sia la sua età, così non bisogna generalizzare. Ogni caso ha la sua specificità, e deve essere pensato nella sua singolarità, mentre le leggi fungono da quadro di riferimento.

4) Mi è subito venuto in mente, vedendo lo strazio della madre, che è rimasta accanto a Vincent per più di dieci anni, che questi genitori vadano aiutati e sostenuti a elaborare il lutto e a dare un senso diverso alla propria vita. Altrimenti, si sarà responsabili del deragliare di altre vite, vite che rischiano di frantumarsi senza lo scopo di tenere in vita il figlio.

Voi come la pensate? Come avete visto questa storia?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/07/Depositphotos_21626721_s-2019-e1562879077639.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-07-12 09:28:352019-07-12 09:28:35Riflessioni sulla morte di Vincent Lambert, di Marina Sozzi

Dialoghi sul tramonto del tempo, intervista a Marilde Trinchero di Marina Sozzi

10 Maggio 2019/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Marilde, il tuo libro La vita è bella. Dialoghi sul tramonto del tempo è molto atipico rispetto ad altri libri che ho letto sul tema della morte. Non c’è una tesi, e neppure un tema centrale. Piuttosto, ti sei messa in ascolto di quello che altri (morenti, familiari, operatori sanitari, tanatologi, militanti per il suicidio assistito) avevano da dire nell’avvicinarsi al mistero della morte. Ci racconti con quale atteggiamento ti sei accostata a questo tipo di scrittura?

Il libro La vita è bella è nato dall’urgenza di apprendere qualcosa su un argomento per il quale mi sentivo sprovvista di strumenti. L’atteggiamento con cui mi sono accostata a questo tipo di scrittura è stato analogo a quello di chi compie un viaggio in un territorio del quale ha una conoscenza limitata e desidera osservare e apprendere il più possibile. Un viaggio privo di un itinerario stabilito in precedenza, coltivando la fiducia che ogni tappa del percorso mi avrebbe suggerito quella successiva. Come in effetti è poi accaduto.
Ho incontrato presto la morte nella mia vita, e mi sono documentata  leggendo libri e guardando film, tuttavia la sensazione che mi ha spesso accompagnata è che la morte mi osservasse e io non riuscissi mai a restituirle uno sguardo diretto. Per questo motivo provo molta gratitudine verso coloro che, attraverso le loro testimonianze, mi hanno permesso di conoscerla meglio. Preparandomi (illudendomi di farlo?), per quando sarà il mio tempo.

Tu sei un’arte-terapeuta: che ruolo ha l’arte, e la bellezza, alla fine della vita?

L’arte e la bellezza sono strumenti che migliorano la nostra vita, rendono feconde le nostre emozioni, i nostri pensieri, attenuano l’angoscia e allentano la solitudine. Attraverso molteplici forme e linguaggi ci mostrano ciò che talvolta non sapremmo vedere. Alla fine della vita, quando la quotidianità perde progressivamente importanza e significato, possono ancor di più avere una funzione trasformativa ed essere una porta d’accesso verso piani più spirituali. Un’opera d’arte può sospingerci verso l’alto, verso l’infinito, e alla fine della vita abbiamo bisogno di ogni aiuto possibile per non ancorarci troppo al nostro corpo. Per lasciarci andare.

Se dovessi riassumere in poche parole quello che hai imparato dalla scrittura di questo libro (e da tutto il lavoro che lo precede), che cosa diresti?

Ho imparato che la felicità esiste anche alla fine della vita, che la consapevolezza e la spiritualità rendono migliore anche la morte, che non mi è passata affatto la paura, ma che poterla nominare mi dà molta forza.

Hai ripreso una frase meravigliosa di Pavese sul proprio suicidio: «Non fate troppi pettegolezzi»: mi sembra un auspicio non solo relativo al suicidio, ma a tutte le morti. Forse si può imparare a rispettare le storie di vita e di morte di ogni persona. Quale percorso educativo servirebbe?

È un tema – quello del rispetto – che mi sta molto a cuore. In particolare verso le persone sofferenti, ma in generale, sempre, tra gli essere umani, in qualunque fase della vita. C’è qualcosa di morboso, nel pettegolezzo, nel giudizio, che il morire – specie nei casi di suicidio – semplicemente amplifica. Mi pare esista qualcosa di granitico nell’incapacità comune a troppe persone di indossare i panni di un altro, di praticare l’empatia, di coltivare il dubbio sulla propria vita. Forse più che un percorso educativo sarebbe necessaria una rivoluzione educativa, considerati i livelli di violenza verbale, malignità, calunnie, che – pur essendo sempre esistiti – sono stati ulteriormente sdoganati dal fatto che pure alcuni politici e organi di informazione non ne sono privi. Legittimando delle pratiche che creano parecchio dolore durante la vita, figuriamoci quando bisogna fare i conti con la vulnerabilità della sua fine. (Sia che si tratti del morente, sia dei familiari).
Mi fanno ben sperare le nuove  generazioni: l’attenzione che hanno verso il clima, l’ambiente e i luoghi in cui viviamo, e ho fiducia e speranza che saranno proprio questi giovani a educare noi adulti/anziani in nuovi percorsi di attenzione e cura.
Proviamo a immaginare che rivoluzione sarebbe se questi ragazzi ci insegnassero non solo a ripulire la terra e il mare dalla plastica, dai rifiuti, ma a moltiplicare quel gesto in un’abitudine quotidiana nella quale ciascuno di noi si impegna a ripulire il proprio linguaggio dalla cattiveria, a governare il giudizio, a recuperare il pudore, a praticare il rispetto e ad allenare la gentilezza.

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Ripartire dal dolore. L’esperienza di Luke, un americano a Roma, di Di Luke Lombardo, traduzione di Claudio Cravero

22 Aprile 2019/19 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Può la perdita del proprio amato trasformarsi in una forma di rinascita? A prescindere dal credo religioso, dal tipo di unione, matrimonio o coppia di fatto (ancora da normare in molti comuni italiani), che cosa significa perdere la propria dolce metà?Un incontro inaspettato con Luke, uno straniero di mezza età in visita a Torino di recente, continua a echeggiare con le sue parole: Riavviare, ripristinare e resettare. La lista degli input potrebbe proseguire, ma per Luke l’elenco si ferma a Rinascimento. Luke ha deciso di trasferirsi e reiniziare la sua vita proprio in Italia, culla della rinascita umanistica. Il blog Si può dire morte diventa un’occasione per osservare il tema della morte tenendo in considerazione il melting-pot culturale, ossia la cultura di provenienza o di adozione; il dolore della separazione dal punto di vista di una coppia omosessuale attraverso le parole di ‘Un americano a Roma’. Dopo 23 anni trascorsi con Darin, il marito di Luke morto a causa di un tumore nel 2018, Luke ha deciso di riscrivere la storia della sua vita. Si tratta di un passaggio, che dal biologico (la morte del corpo) diventa biografico. Il suo viaggio è iniziato con un biglietto di sola andata Los Angeles-Roma ed é in-progress nel suo blog The Spaghetti Diaries (Claudio Cravero)

La mia storia di perdita non è unica rispetto al lutto di chiunque altro perda una persona cara. Ciò che potrei considerare unico é l’insieme delle scelte che sto facendo non solo per affrontare il dolore, ma per dare una risposta alla domanda esistenziale che, dalla notte dei tempi, l’essere umano si pone costantemente: “Dove sto andando?”.

Quando subiamo una perdita traumatica, tra queste la morte del proprio compagno, credo sorga spontaneo interrogarsi sul senso di quanto successo e cercarne un significato. Qual è stata la ragione della fine? Che cosa tutto questo ha a che fare con me? Che cosa la morte mi insegna e quale lezione posso imparare da qui in poi?

Dopo la morte di mio marito nel 2018, la mia passione per i viaggi, il desiderio di conoscere culture e persone diverse, unite al mio amore per l’Italia, nonché paese di mio nonno, sono stati di conforto per aiutarmi a scoprire ciò che la vita aveva in serbo per me. La vita di un essere umano non può fermarsi all’esperienza biologica della morte del proprio amato, per quanto lacerante questa possa essere. Credo che il mondo non sia che un piccolo punto, a prescindere dalle dimensione esplorabile del nostro pianeta, rispetto alla grandezza della vita stessa. Adesso più di prima, quindi, la sperimentazione del viaggio e la mia destinazione.

Inizialmente, ho anch’io opposto resistenza ad una possibile fase di rinascita biografica. Per resistenza, intendo il desiderio di non voler cambiare nulla e lasciare tutto esattamente com’era prima che mio marito morisse. Questo avrebbe significato tentare di replicare una vita di fatto non replicabile. La mia resistenza, quindi, era nei confronti di una vita vista in prospettiva. L’aspetto retrospettivo della resistenza, al contrario, mi permetteva solo di stare nel dolore per averne un’esperienza profonda. Ma questo atteggiamento non mi aiutava a uscirne, a guarire. Ho ritrovato questa attitudine più e più volte anche mentre frequentavo gruppi cosiddetti ‘del dolore’. Il mio centro a Palm Desert, in California,  è stato il primo luogo nel quale ho iniziato a dare una forma collettiva e diversa al dolore. Sebbene abbia trovato conforto nel raccontare la mia storia personale e il mio rapporto con la morte, ho visto molte altre persone del centro stagnare e opporre resistenza al cambiamento di prospettiva: non riuscivano a vedere la loro perdita da un’altra angolazione.

Ho ascoltato storie di persone che combattevano da anni contro il proprio dolore, e cercavano continuamente di riconnettersi con quel punto nel quale la morte le aveva separate dai loro cari. Non credo che il tempo guarisca le ferite, come comunemente si è soliti rincuorarci. Il dolore non diminuisce nel corso del tempo. Quello che cambia è l’atteggiamento rispetto alle possibilità di una vita più ampia, proprio lì, al di là del dolore. Il dolore è una forma di crescita per permettere alla vita di chi resta di espandersi. In un certo senso, la nostra biografia si amplifica proporzionalmente allo spazio che decidiamo di dare alla vita stessa, sperimentando così una trasformazione del dolore in qualcosa di più grande e inaspettato. Ho così compreso che l’espansione della mia biografia fosse l’unica opzione per vivere una vita ‘con’ e non ‘senza’.

Con la morte di Darin ho deciso di salutare 30 anni incredibili e colmi di ricordi in California, donando e vendendo quanto possedevo. Al tempo stesso, ho espresso quanta gratitudine possibile rispetto a quanto ricevuto sino ad allora e sono ripartito dalla mia esperienza per creare un nuovo e più profondo valore per la mia stessa esistenza. In questa direzione, il cambiamento ha corrisposto alla mia comprensione, fisica, emotiva ed intellettuale, di una vita da vivere in modo più autentico e profondo, volta alla creazione di valore – ovunque mi trovi.

Essendo italo-americano, sebbene cresciuto negli Stati Uniti, le mie esperienze familiari mi facevano pensare che dopo la morte del proprio coniuge si dovesse convivere con il lutto per il resto della vita, definendo un prima (con) e un dopo (senza); due tempi precisi ma in ogni caso riempiti e definiti dalla perdita. Nonostante i cambiamenti culturali in corso, mi sono scontrato con abitudini sociali alle quali non avevo mai prestato attenzione prima. Ad esempio, non mi ero mai accorto di quanto siamo propensi a catalogare e classificare il nostro status con etichette. Dopo la morte di Darin, mi sentivo continuamente chiamare ‘vedovo’.  Confesso che, a 47 anni, ho rifiutato questa definizione, poiché sarebbe rimasta tale a meno che non mi fossi risposato. È vero, di fatto sono vedovo, ma questa classificazione mi rimanda sempre e solo alla situazione dell’“assenza” di mio marito.

Inoltre, in una relazione gay, credo che l’etichetta ‘vedovo’ porti con sé ulteriori complicazioni ancora da sciogliere. Sebbene i diritti delle coppie omosessuali siano avanzati in modo significativo nell’ultimo decennio, solo ora si inizia a sentire parlare di ‘vedovi’o ‘vedove’ tra le coppie dello stesso sesso. A livello socio-culturale, anche questo aspetto diventerà inevitabilmente sempre più comune e mi auguro che presto sia affrontato anche a livello politico e civile. Infatti, mi sento ancora chiedere come sia morto il mio ‘amico’.

La perdita di un amico è una cosa, la perdita del tuo compagno o della tua compagna é ben altra. Quindi rispondo in genere che “ho perso il compagno di una vita, non ho perso un amico”. Mi sembra ci sia ancora molta confusione in questo senso. Il diritto al lutto del proprio amato è lo stesso a prescindere dalla sessualità dei partner.

Durante questo processo iniziato con la morte di Darin, ho trovato che la scrittura sia a pieno titolo una forma di terapia. Ora capisco perché gli scrittori scrivono, quasi come mossi da un’urgenza comunicativa. Anche se non so ancora dove il mio blog The Spaghetti Diaries mi porterà nei prossimi mesi, vorrei che le persone che leggono i miei post capissero l’importanza delle scelte che facciamo per la nostra vita, indipendentemente dalle circostanze. La mortalità, si sa, é un aspetto della vita, ma la morte del tuo amato non è la morte di te. È, anzi, lo stimolo per ripartire e continuare a cercare il proprio scopo, il più grande possibile.

 

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Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi

12 Gennaio 2018/18 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Matryoshka doll set isolated on a white background

Perché abbiamo paura della morte? E soprattutto, è possibile addomesticare tale inquietudine, che per alcuni è un vero e proprio disagio con cui convivere?

Non parlo tanto, qui, della paura della morte che si manifesta nella prossimità della nostra fine biologica, ma di quell’inesausto sgomento che ci prende al pensiero della nostra finitezza, che può condizionarci a ogni età e in ogni situazione di vita. Quella paura che rende vano, e forse anche futile, il detto del filosofo greco Epicuro, secondo cui “se ci siamo noi, non c’è la morte, se c’è la morte non ci siamo più noi”. Infatti, nonostante questa sia un’indubbia verità, passiamo buona parte della nostra vita ad avere paura, perché vita e morte non sono realtà chiaramente distinte, ma aspetti fittamente intrecciati del destino umano.

La paura della morte è legata, nell’uomo, proprio all’acuta coscienza che egli ha del proprio limite. La morte rappresenta l’ignoto oltre la fine, il mistero per antonomasia, e gli esseri umani hanno sempre cercato soluzioni per attutire l’angoscia che ne deriva loro: risposte religiose, come quella del cristianesimo o dell’islam, che prefigurano altri mondi cui la morte apre il passaggio. O consolazioni laiche, come il pensiero dell’“eredità d’affetti” che ciascuno può lasciare all’umanità, sulla falsariga di Foscolo.

Il quesito è se sia possibile addomesticare, anche se non proprio superare, la paura della fine nel corso della nostra vita. Il filosofo Jankélévitch sosteneva che da un lato c’è la morte come legge naturale, necessità impersonale, perfettamente comprensibile e razionalizzabile. Dall’altro lato c’è la morte come minaccia concreta, inaccettabile, tragica e scandalosa, che incombe sul singolo individuo. In questo secondo significato la morte è inconoscibile e indicibile. Il pensiero si annienta se prende come oggetto la morte, e l’angoscia che essa suscita è legata al nostro tempo umano, all’impossibilità di rappresentazione, al crollo, all’annullamento, all’inabissarsi del pensiero stesso. Sembra dunque, come peraltro pensava anche Sartre, che sia impossibile prepararsi alla morte, e quindi anche affrontare la paura della morte.

A mio modo di vedere, però, occorre capirsi sul significato che diamo al temine “morte”. Se per morte intendiamo l’istante del trapasso, si può dare ragione a Jankélévitch.

Tuttavia, proprio per via della stretta implicazione che c’è tra vita e morte nella quotidianità umana, è possibile accostarsi al pensiero della finitezza in molti modi. Uno di questi è cominciare a guardare alla nostra cultura dal punto di vista della consapevolezza della mortalità. C’è infatti una difficoltà antropologica nell’affrontare la paura di morire, ma ce n’è una molto più grande che è di carattere culturale.

La nostra società ci impone infatti di non condividere socialmente l’ansia per la morte: parlare di morte è considerato segno di indelicatezza o di cattiva educazione, in particolare in presenza di persone anziane, bambini o malati. Il diktat del silenzio induce nella maggior parte dei nostri contemporanei la mancanza di elaborazione, perché l’uomo, animale sociale, non riesce ad accogliere e sistematizzare le proprie ansie e paure se non nella dimensione della condivisione. In questo clima, all’individuo non resta che cercare di sfuggire alle proprie ansie non pensandoci, distraendosi, mettendole da parte ogni volta che si presentano. Invece di cercare di fare i conti con la finitezza, scappiamo a gambe levate, buttandoci nel lavoro o in troppe relazioni superficiali, talvolta facciamo uso di sostanze psicotrope più o meno legali, acquistiamo oggetti inutili. Forse così facendo siamo funzionali alle logiche della civiltà nella quale viviamo, ma certo non contribuiamo alla nostra felicità.

Abbiamo citato la felicità. C’è forse un legame tra elaborazione della paura della morte e felicità? Penso di sì, a patto di non intendere per felicità l’insulsa spensieratezza che aleggia negli spot pubblicitari, a patto di comprenderla come quello stato di appagamento in cui coincidiamo con quel che siamo, perché abbiamo accettato i nostri limiti. E a patto, inoltre, di non illudersi di poter trovare, una volta per tutte, un’incrollabile serenità di fronte alla nostra morte. Ho sperimentato in prima persona, durante la mia malattia oncologica, la difficoltà della mente ad accogliere la propria possibile morte, il rifiuto di toccare la concretezza della fine. Attraverso quell’esperienza mi sono fatta l’idea che solo in una reale prossimità della morte biologica sarà forse possibile lambirla – se non coglierla – col pensiero.

Tuttavia, se si accetta che il dialogo con la morte ci accompagni negli anni, ritengo che il percorso di avvicinamento al pensiero della fine serva, e sia in grado, oltre che di addomesticare la paura, anche di arricchire all’inverosimile la vita: di emozioni, sensibilità, intelligenza. E di riempire di significato le relazioni più autentiche. Ce la dice lunga, a tal proposito, la lettera di Holly Butcher postata su Facebook il 3 gennaio e rapidamente diventata virale: “Voglio solo che la gente smetta di preoccuparsi così tanto dei piccoli stress insignificanti della vita e cerchi di ricordare che tutti abbiamo lo stesso destino, dopo tutto. Quindi: fai quello che puoi per far sì che il tuo tempo sia degno e grande.”

Ma come fare a venire a patti con la paura della morte? Pensiamo innanzitutto che essa non è un monolite, ma è composta da un insieme inestricabile di tante paure più o meno grandi.

Ottenere una migliore convivenza con questa paura, allora, comporta un processo elaborativo, che non può essere fatto in solitudine. Occorre rigirarsela in mente insieme a persone che ci comprendano, scomponendola, e guardando dentro a quel contenitore della Grande Paura, che sembra impossibile da aprire. Cosa troviamo là dentro? Timore della sofferenza? Della perdita della propria individualità? Del dolore di chi resta? Dell’annientamento del nostro mondo? Come bamboline russe, una dentro l’altra, possiamo imparare a estrarre queste paure più piccole una alla volta, esaminarle e cercare di comprendere la loro funzione nella nostra vita. Vedremo allora scendere il tasso di inquietudine, e cominceremo a capire cosa davvero è importante per noi.

Avere paura, sentirsi fragili, non è disdicevole, è umano. Non ce lo ripeteremo mai abbastanza. E Holly scrive: “E’ questa la cosa della vita: è fragile, preziosa e imprevedibile, e ogni giorno è un dono, non un diritto dato.”

Cosa ne pensate? E’ possibile ammansire la nostra paura della morte? Voi ci avete provato? Ci siete riusciti?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/01/Depositphotos_45512471_s-2015-e1515689547593.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-01-12 11:14:302018-01-12 11:14:30Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi

La morte è uno scandalo o un evento naturale? di Davide Sisto

13 Novembre 2017/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

1 Adriaen van Utrecht (1599 - 1652) - Vanitas Still-Life with a Bouquet and a Skull -Due delle principali obiezioni filosofiche mosse alla Death Education, quindi al tentativo di spiegare il ruolo imprescindibile e naturale della morte per lo sviluppo della vita, sono le seguenti: innanzitutto, la morte è uno scandalo, un evento che di per sé è terribile e non ha nulla di naturale. In secondo luogo, ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi è proprio quella coscienza della propria mortalità che lo spinge a non accettarla, utilizzando la propria ragione per tentare di sconfiggerla una volta per tutte.

L’idea della morte come scandalo, quindi come evento o processo innaturale, è strettamente legata alla nostra tradizione cristiana: la morte, infatti, non prevista dal progetto originario di Dio, è la conseguenza prima del peccato originale, quindi di un uso deleterio della libertà da parte dell’uomo. Da qui deriva il carattere negativo e angoscioso del morire, il quale permane a tempo indeterminato nonostante il sacrificio di Cristo renda il morire un passaggio obbligato per la salvezza e la resurrezione. Il carattere scandaloso della morte è, pertanto, dovuto al fatto che essa non è il frutto della volontà divina.

L’idea, invece, che l’uomo si distingua da tutti gli esseri viventi in quanto l’unico a essere cosciente della morte e, dunque, da sempre impegnato a sconfiggerla attraverso le sue attività razionali e spirituali è un retaggio filosofico tipicamente occidentale, figlio tanto della cultura che separa la mente dal corpo quanto della convinzione che la ragione sia una nostra esclusiva prerogativa. Pertanto, consapevoli razionalmente di essere mortali, cerchiamo ogni giorno di non pensarci, svolgendo attività lavorative, culturali, artistiche, ecc. per mezzo delle quali proviamo a renderci – in un modo o nell’altro – immortali.

Queste sono due obiezioni che mi è capitato di ricevere più volte durante convegni o incontri pubblici in cui ho parlato di Death Education. Ora, se, da una parte, non sono convinto che l’uomo disponga di un’esclusiva coscienza della propria mortalità, semmai ogni essere vivente ne ha consapevolezza secondo le sue irripetibili caratteristiche specifiche, dall’altra non credo che lo scandalo cristiano della morte non possa collimare con l’idea della sua naturalità.

Siamo abituati a tener conto del celeberrimo sillogismo in base al quale tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale. La mortalità è, in altre parole, una cifra che definisce – nel qui e ora – non solo la nostra condizione di esistenza, ma la vita stessa nel suo fluire. Qualche giorno fa, Emanuele Severino, durante un convegno, sottolineava una cosa tanto banale quanto fondamentale: se la giornata di ieri non fosse terminata, la giornata di oggi non sarebbe mai iniziata. Tutto quello che facciamo e che siamo segue un percorso preciso, segnato da un inizio, da un suo svolgimento e dalla sua fine. La gioia del primo giorno di vacanza e la malinconia dell’ultimo giorno; l’angoscia nel momento in cui comincia un’operazione chirurgica e il sollievo, anche solo momentaneo, per la sua conclusione. L’emozione per l’inizio della scrittura di un libro e la sensazione agrodolce quando è terminato. Non c’è azione quotidiana che non segua naturalmente questo percorso. E se tale percorso venisse meno? La dilatazione radicale dei ritmi temporali renderebbe la nostra vita simile a un film al rallentatore. Il mutamento perde di significato, il pulsare eccitato delle emozioni si inaridisce lentamente, tutta l’energia che mettiamo in ciò che facciamo, consapevoli del rapporto dialettico tra l’inizio e la fine, si spegne. Non è un caso che, secondo uno psicopatologo come Minkowski, l’idea dell’immortalità terrena si manifesta puntualmente nel delirio melanconico.

Ora, considerare come naturale l’integrazione tra la vita e la morte, evidenziandone il cospicuo valore pedagogico, non necessariamente contraddice lo scandalo cristiano del morire: possiamo, infatti, riconoscere questa integrazione come un dato di fatto, a cui avremmo voluto volentieri fare a meno ma che rappresenta, nel mondo in cui viviamo, il punto di partenza basilare per costruire giorno dopo giorno le nostre attività e per sviluppare il nostro modo di essere. Pertanto, la nostra ragione, il nostro spirito non hanno senso se le utilizziamo come fossimo dei novelli Gilgamesh alla ricerca ossessiva di un antidoto contro la mortalità; piuttosto, diventano prerogative irrinunciabili se messe al servizio della fragilità che ci costituisce, di modo da rendere qualitativamente luminoso lo spazio temporale che si distribuisce tra l’istante dell’inizio e il momento della fine.

E voi cosa ne pensate? Interpretate la morte come scandalo o piuttosto come evento naturale, o come entrambe le cose al contempo? Attendiamo, come sempre, le vostre risposte.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/11/resriv_4-e1510518849734.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-11-13 10:36:282017-11-13 10:36:28La morte è uno scandalo o un evento naturale? di Davide Sisto

Non siamo immortali di Laura Campanello

27 Luglio 2017/12 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Abbiamo due vite: la seconda

Inizia quando ci accorgiamo di averne una sola

(Confucio)

Non c’è bisogno forse di scomodare Confucio per poterci dire che la vita che abbiamo è una e che l’unico modo di cui disponiamo per ricordarcene, almeno ogni tanto, è pensare alla morte. E quand’anche credessimo nella reincarnazione la vita che ci è data da vivere, ora, è questa.

Non siamo immortali.

Lo sapeva bene anche Borges che ne ha scritto, inserendosi nella corrente aperta dai filosofi fin dall’inizio del pensiero occidentale … insomma. Filosofia, letteratura, musica, poesia, arte … da sempre prendono vita e si confrontano con l’effimero nella realtà, la precarietà dell’esistenza , la mortalità umana. Ma la cosa che ho sempre trovato interessante e sicuramente utile è che facendolo approdano quasi sempre non ad una mortificazione depressiva o paralizzante, ma ad una esaltazione della vita stessa, proprio alla luce della sua fragilità. Ciascuno si rapporta con la propria finitudine in maniera diversa e unica, a volte faticosamente a volte con più leggerezza, ma credo che Goethe colpisca nel segno:

“Memento mori! [sono parole che] si incontrano di frequente,

non voglio continuare a dirle;

perché dovrei in una vita così breve,

tormentarti con il suo limite?

Perciò […] ti raccomando,

caro amico, secondo il tuo modo,

Memento vivere, non altro.”

L’uomo che accetta di confrontarsi con la morte, in verità si confronta con la vita, di cui la morte è una parte, è l’epilogo, ma è anche ciò che tiene l’uomo nel presente, nel tempo dell’azione e dell’esistenza, della felicità possibile anche nella fatica. Perché l’alternativa a questa vita, per quanto faticosa o dolorosa è la non vita, è non esserci, che è ciò che ci spaventa. Quindi rischiamo di restare immobili in un paradosso: non guardare la morte ci salva dall’angoscia ma alla lunga ci nega un’esistenza autentica e consapevole (come bene scrisse Heidegger, ad esempio, ma anche Simone Cristicchi nella sua canzone “La prima volta che sono morto”). Non importa se a questa consapevolezza arriviamo grazie alle canzoni pop di Sanremo o grazie a complessi e articolati sistemi di pensiero filosofici: l’importante è che ci arriviamo e che questa riflessione cambi e trasformi il nostro modo di vivere.

Allora la morte va nominata, saputa, presa in considerazione perché è quel pungolo che tiene svegli, vivi, presenti a se stessi, agli altri, all’esistenza. Altrimenti si rischia di non accorgersi neanche della vita che abbiamo, attendere la felicità nel corso degli anni, lamentarci per ciò che non abbiamo anziché godere di ciò che la vita ci concede o che potremmo conquistare se non gettassimo via il tempo, immaginando di averne sempre e comunque altro a disposizione, sempre.

L’esercizio filosofico della morte nell’antichità, comune a molte scuole filosofiche, era proprio questo, e lo troverete anche in molte vie sapienziali e spirituali, non a caso.

L’angoscia o l’ansia di morte che spesso sentiamo è per lo più legata alla paura di morire, ma cosa contiene questa paura?

D.I.Yalom, in un libro dal titolo Fissando il sole (2017 ed. Neri Pozza) esplora il nostro rapporto con la morte e ne evidenzia (da psichiatra fondatore della psicoterapia esistenziale negli anni ‘70) il lato positivo, che emerge quando riusciamo a farne occasione per vivere meglio. Il sottotitolo dell’edizione americana (del 2008) recita “superare il terrore della morte”. È interessante: non dice “superare la paura della morte” perché la paura inevitabilmente resta per tutti noi e va esplorata. La differenza è però sostanziale: il terrore paralizza e inchioda, la paura no.

Cosa ti fa paura della morte? Lo chiedo a me, a te che leggi e lo chiedo da anni alle persone malate di tumore o di Sla in fase avanzata o terminale di malattia che incontro nella mia professione. E per molti di loro, per le questioni legate alla paura c’è una risposta, almeno parziale e tranquillizzante, che regala maggiore serenità.

La mancanza di senso, la solitudine e l’isolamento, la sensazione di non aver vissuto – sprecando vita e tempo – o di aver dedicato poca attenzione a ciò che per noi conta davvero, non aver cercato di cambiare in meglio la nostra vita, non aver detto parole importanti a chi amiamo… Sono cose concrete, non sono solo idee o pensieri, e contano nel corso della nostra intera vita e tanto più alla fine, quando il sipario sta per chiudersi e i bilanci esistenziali si impongono, severi e implacabili, ma i rilanci possibili sono pochi o hanno poco tempo per realizzarsi e quindi diventano urgenti e chiari.

Sempre Yalom, sulla scia dei filosofi che ama e propone nei suoi testi, come ad esempio Epicuro, scrive: “La morte uccide, ma il pensiero della morte salva”. Infatti dolore, morte, malattia, lutto, vecchiaia, sofferenza … ci trasformano, nostro malgrado, anche se ovviamente noi fuggiremmo lontano da quell’esperienza. Ma ci possono riconsegnare alla vita in un altro modo. E lo stesso può fare una seria meditazione sulla morte o un buon rapporto con essa nel corso della vita.

Perché quello che ci rende davvero umani è la consapevolezza di noi stessi e della vita per quella che è. E proprio accorgersi di essere mortali porta alla grande esperienza del risveglio che apre al cambiamento, perché se c’è una cosa che chi affronta il morire mi raccomanda spesso non è certo di cambiare il mio modo di pensare, ma di modificare profondamente il mio modo di vivere.

Il senso del vivere, la responsabilità della nostra e altrui esistenza, le priorità da dare alla propria vita, l’ uso del tempo, la capacità di mostrare gratitudine, avere consapevolezza di essere vivi e di come la vita è davvero – nella sua fragilità e nella sua forza – sono le questioni che emergono di fronte alla malattia, alla morte imminente, al lutto di chi alla malattia dell’altro deve sopravvivere col dolore della perdita.

Per questo le persone alla fine della vita vanno aiutate a congedarsi dagli altri, a fare bilanci e piccoli rilanci, a chiudere il cerchio della loro esistenza insieme a chi con loro l’ha condiviso, senza restare vittime di teatri del silenzio e della negazione sulla verità di quanto accade che spesso aggiungono dolore al dolore.

La morte restituisce per la prima volta la misura e il giusto peso alle cose del vivere quotidiano e macroscopico.

Allora, come insegnano i filosofi da sempre, non attendiamo con timore che la morte ci indichi cosa conta nella vita, ma anticipiamola accompagnandoci a lei perché ci aiuti per tutta la vita ad imparare a vivere e morire.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/07/Depositphotos_153460020_s-2015.jpg 333 500 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-07-27 11:33:282017-07-27 11:33:28Non siamo immortali di Laura Campanello

La morte maestra di vita?

25 Giugno 2013/17 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Quando sono stata vicina alla morte in prima persona, dopo un cancro e soprattutto dopo un’infezione da sala operatoria, hanno preso forma nella mia vita fenomeni imprevisti e insperati: mi è passata la paura di morire; mi sono sentita fragile e preziosa, eppure al contempo mortale e sostituibile; ho pensato che, poiché sarei un giorno comunque morta, tanto valeva godere la vita attimo dopo attimo. Sono diventata più coraggiosa, più lieve, più indulgente con me stessa, più sensibile alla bellezza, all’armonia, all’amore.

Pertanto, tendo a comprendere gli operatori di cure palliative quando raccontano che la loro quotidiana presenza accanto a chi muore non li priva della voglia di vivere, anzi affina in loro la capacità di provare semplici gioie. Sono emozioni di cui ho spesso sentito parlare, da quando ho letto la famosa psicologa francese Marie de Hennezel, col suo libro La morte amica, o la dottoressa Kübler-Ross e il suo La morte e il morire, fino a oggi, ascoltando quello che mi narrano molti amici, infermieri, medici e psicologi che lavorano in cure palliative, o semplicemente persone che hanno accompagnato i loro cari nell’ultima tappa della vita. Questo tema è stato da poco affrontato in Québec da Eve Gaudreau, un’educatrice specializzata in cure palliative (la prima nel suo paese), che ha scritto Qui suis-je pour t’accompagner vers la mort? (Chi sono io per accompagnarti verso la morte? http://www.abcdeledition.com/livre-detail/livre-59.html).

Eve dice che accompagnare una persona in fin di vita ci destabilizza perché ci mette di fronte alla nostra finitezza. Come in uno specchio, ci vediamo mortali. Ci fa paura, ma riusciamo anche a fare un bilancio della nostra esistenza, a darle un significato, e a verificare se stiamo procedendo nella direzione voluta.

La morte può essere davvero maestra di vita? A volte, quando rifletto su quest’idea, mi pare che ci sia in essa troppo “buonismo”, e che io mi stia facendo delle illusioni. Allora temo che possa accadermi di perdere la bussola di fronte alla morte di chi amo, o di fronte alla mia stessa morte. E che anche aver passato molti anni a studiare il morire possa non servire a molto…
Altre volte sento che essere passata vicino al baratro del nulla faccia di me una persona più consapevole.
Com’è la vostra esperienza? Avete voglia di raccontare come vi è parsa la vita, come congiunti o come operatori sanitari, stando vicini a qualcuno che si avvicinava alla morte? Migliore e più intensa? O vuota e incomprensibile?

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Coperte di vita per pensare alla morte

22 Aprile 2013/28 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Immaginate una coperta, o una trapunta del vostro letto trasformata in un’opera d’arte, che rappresenti il significato della vostra vita. Questa originale idea è venuta all’Associazione Canadese di Cure Palliative, per far riflettere i propri concittadini sulla fine della loro esistenza.
Il progetto si chiama “Couverture de vie”, o “Life Blanket”.
In Canada, ogni anno, muoiono circa trecento mila persone, e più di un milione sono coinvolte da una perdita; in un breve arco di tempo (nel 2036), a causa dell’invecchiamento della popolazione, saranno due milioni.
Occorre attrezzarsi perché tutti possano essere assistiti con cure palliative, ma è necessario anche che si ricominci, con maggior serenità, a parlare liberamente di vita, di morte, di significato.
L’Associazione di Cure Palliative ha identificato alcune figure di spicco nella politica, nella cultura, nell’imprenditoria (l’ex senatrice Sharon Carstairs, l’ex CEO della farmaceutica GloxoSmithKline, Paul Lucas, l’attrice Sheila McCarthy, l’attore Gordon Pinsent, il cineasta e scrittore Kevin Tierney e il reverendo Brent Hawkes) e ha chiesto loro di immaginare, con la collaborazione di artisti della Toronto School of Art, una coperta personalizzata, un singolare lascito che rappresenti la vita di ciascuno. Gli artisti le hanno realizzate. E’ un modo per stimolare la riflessione di ciascun cittadino sulla propria vita, su quale significato riesce ad attribuirle, su cosa pensa di poter lasciare dietro di sè.
Se avessero chiesto a voi di creare la vostra coperta di vita? Sareste in grado di descriverla?


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Cremazioni rituali a Varanasi (India)

5 Dicembre 2012/15 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte


Passeggiando per le contorte anguste e affollatissime viuzze di Godaulia, la parte vecchia della città sacra per gli induisti, Varanasi (Benares), tra botteghe della seta e dei gioielli, venditori di spezie, the e yogurt, templi seminascosti tra le abitazioni, negozi di noce di betel e pasticceri, mucche e motociclette che suonano il clacson per passare facendo lo slalom tra i pedoni, di tanto in tanto si sente risuonare un mantra ripetuto in modo cadenzato, rama nama satya hai, (il nome di Ram è verità). Nessuno si sposta, né interrompe la propria attività o compie alcun gesto, neppure quando, poco dopo, si vede passare un breve corteo di uomini, alcuni dei quali portano sulle spalle una lettiga, su cui giace un cadavere avvolto in coloratissime rilucenti sete, giallo arancio, rosso, oro e argento. I bambini continuano a giocare e gli adulti a occuparsi dei loro affari. I morti vengono portati per la cremazione rituale al Ghat di Manikarnika, il più antico, o a quello più nuovo di Harishchandra, alle spalle del quale esiste anche un moderno crematorio elettrico, poco usato.
Il rito deve svolgersi secondo la tradizione induista, e occorre seguirne scrupolosamente ogni passaggio. Non ho visto nessuno piangere nei luoghi della cremazione, e neppure nei cortei funebri. Ho chiesto come mai al bramino che mi ospitava, e sia lui che la moglie parevano concordare sul fatto che il rito richiede una grande concentrazione, non è il momento per lasciarsi andare al dolore. Avvicinandosi a Manikarnika, l’atmosfera si fa densa e oscura, pare di essere piombati in un aldilà mitologico, tornano in mente le rive dello Stige e i gironi di Dante. S’incontrano venditori di legna, di sacchetti di polvere di legno di sandalo, di burro chiarificato, di serici sudari funerari, di urne di terracotta. L’odore dei corpi bruciati e il fumo nero che si leva dalle pire fa bruciare gli occhi e tossire. Ma qui vita e morte sono strettamente intrecciate, e morire fa parte della quotidianità come vivere, gioire e soffrire. Un paio di volte, nel traffico soffocante e rumoroso della città, ho visto passare, fissato con corde sul tetto di un tuk tuk, tipica vettura pubblica indiana (un’ape a tre ruote gialla e verde, chiusa sopra e aperta ai lati) un cadavere diretto ai crematori, sulla sua lettiga.
In alto, salendo una ripida scala del Ghat Manikarnika, vi è un edificio che conserva un fuoco sempiterno, e sempre alimentato: è da questo fuoco che viene tolta la scintilla con la quale si dà fuoco ai corpi. La legna costa cara, soprattutto quella di sandalo, che generalmente è utilizzata solo per personaggi importanti. Altrimenti, si usano altri tipi di legna, più a buon mercato: l’importante è saper calcolare il peso della legna che occorre per bruciare completamente il corpo, operazione che richiede almeno quattro o cinque ore.

Quando ci si affaccia sul Ghat pare di essere stati trasportati in un tempo antichissimo. Le pire, soprattutto la sera, sono impressionanti, e rivelano parti di corpi scuriti e deformati dal fuoco, mentre colossali mucche nere camminano incuranti nella cenere e nel fango. Accanto, uomini e donne lavano i panni su pietre poste sul Gange. Continuamente arrivano nuovi corpi addobbati e scintillanti, che stanno in attesa del loro turno di cremazione. Quando il corpo arriva al Ghat, per prima cosa viene lavato nel Gange, immergendolo fino alle ginocchia. Poi è adagiato sulla pira, con la testa a nord e i piedi a sud. Parte della legna viene posta sopra al corpo, che viene cosparso di polvere di legno di sandalo, di burro chiarificato, il ghi, e di qualche goccia di acqua del Gange. Il figlio maschio maggiore, che è la persona deputata a condurre il rito, compie cinque giri intorno alla pira e poi l’accende, a partire dai capelli. La testa e il volto del defunto sono scoperti.
Quando la cremazione è terminata, si getta acqua per spegnere il fuoco e il figlio raccoglie le ceneri nell’urna, che poi devono essere restituite al Gange.

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