La morte dal buco della serratura, di Davide Sisto
Da qualche mese l’opinione pubblica mondiale si interroga sul “Blue Whale”, un terribile gioco a tappe che si articola in cinquanta giorni. I partecipanti devono affrontare una serie di prove, dal guardare film horror per una giornata intera al tatuarsi sulla propria pelle con un coltello una balena blu (appunto, “Blue Whale”). Il loro superamento va documentato con foto e video. Giunti al cinquantesimo giorno, occorre affrontare la prova definitiva: buttarsi dall’ultimo piano di un edificio, facendo in modo che il suicidio venga filmato e, quindi, rigorosamente condiviso sul web. In Russia si contano 130 suicidi legati a questo orribile gioco. Ma diversi casi sono stati segnalati anche nel Regno Unito, in Francia e in Romania.
I suicidi online sembrano essersi molto diffusi, soprattutto da quando i social network hanno dato la possibilità agli utenti di fare video in diretta. Un caso recente che ha destato particolare scalpore è quello della dodicenne Katelyn Nicole Davis di Polk County, in Georgia. La ragazzina, tramite l’app Live.me, usata per gli streaming video, ha girato un filmato in diretta di quaranta minuti che termina con il suo suicidio. Il filmato si è diffuso a macchia d’olio sul web, anche su Facebook e su Youtube, è stato visualizzato da milioni di persone e rimosso a fatica: su Facebook è rimasto per oltre due settimane e tutt’ora è possibile trovarlo online.
Non solo suicidi, anche omicidi in diretta, diffusi in Rete. Terribili sono, per esempio, le immagini in diretta in cui Vester Lee Flanagan uccide a colpi di pistola Alison Parker, giornalista ventiquattrenne dell’emittente Wdbj7, e Adam Ward, il cameraman ventisettenne che era con lei, i quali stavano realizzando un servizio televisivo in un centro commerciale di Smith Mountain Lake in Virginia (Usa). Immagini pubblicate – e ancora visibili, a distanza di oltre un anno – su quasi tutti i quotidiani online del mondo, per cui qualunque individuo di qualunque età ha potuto (e può) vedere e rivedere un omicidio in diretta, sentendo le urla delle vittime. È di questi giorni, infine, la notizia dell’omicidio di un passante scelto a caso, nella zona nord-orientale di Cleveland (Ohio), da parte del trentasettenne Steve Stephens, il quale ha – prima – scritto su Facebook che avrebbe commesso un crimine da imputare alla sua ex fidanzata, colpevole di averlo lasciato. Poi, ha commesso il reato, documentato con il cellulare e diffuso online, pertanto visualizzato da migliaia di persone e rimosso solo tre ore dopo.
Come sostiene Eran Alfonta, il creatore di If I Die (http://ifidie.net/), un’applicazione per Facebook che ci dà la possibilità di preparare videomessaggi di commiato, i quali verranno condivisi una volta morti, noi oggi siamo su Facebook prima di nascere, nelle immagini delle ecografie prenatali, e durante tutte le fasi della vita. Quindi, non c’è niente di strano nel morire su Facebook e sui social network in generale.
Un conto, però, è essere coscienti che l’attuale integrazione tra reale e virtuale implichi che la morte – soprattutto, per quanto concerne la memoria e il ricordo – sia un evento che riguarda necessariamente anche la dimensione digitale della nostra esistenza. Pertanto, operazioni come If I Die possono essere d’aiuto per comprendere quanto morire sia un normale, naturale evento presente nella vita.
Un conto è, invece, documentare e rendere pubblica la morte, confondendo drammaticamente la realtà che le appartiene con la sua rappresentazione teatrale o cinematografica. Questa confusione, già ampiamente evidente nell’orribile pratica degli snuff film, chiama in causa moltissimi fattori psicologici ed emotivi, tra cui il carattere eclatante di un decesso violento. Eclatante perché la società occidentale, per nostra fortuna, non è più abituata a vedere quotidianamente persone uccise o, semplicemente, decedute. L’omicida e il suicida, rendendo pubblico il proprio gesto estremo, paiono così voler evidenziare e dunque consacrare la propria “eccezionalità”: il loro gesto è “eccezionale”, vale a dire è ciò che costituisce un’eccezione rispetto alla norma. “Non è da tutti, dunque il mio gesto e la mia persona diventano memorabili”.
Ma se è chiara la presenza di seri disturbi della personalità nell’omicida e nel suicida, lascia invece basito il bisogno da parte di milioni di utenti di vedere (a volte, addirittura di condividere e commentare) i video che mostrano “senza veli” la morte in diretta di una persona. A mio avviso, tale bisogno è strettamente collegato alla rimozione sociale e culturale della morte e, quindi, alla sua trasformazione progressiva in un tabù, complice – come detto – il periodo di pace che ha segnato il Dopoguerra in Occidente. Aprire questi videoclip equivale al gesto – divenuto un cliché nella cinematografia trash nostrana degli anni ’70 – di osservare dal buco della serratura la ragazza nuda che si fa la doccia. È il proibito a spingere molte persone a interessarsi a simili videoclip, con un rischio oggettivo piuttosto evidente: non cogliere la differenza tra l’attore suicida in un film drammatico che, finito di girare la scena, si rialza da terra e riprende la sua vita quotidiana e l’individuo suicida nella realtà. Abituati alla rappresentazione del morire, la quale ha cominciato a imperversare non appena abbiamo allontanato il fine vita dalla nostra quotidianità, rischiamo di associare mentalmente i filmati che vediamo nei social network allo spettacolo, alla dimensione mediatica. Rischiamo di rimanere intorpiditi e, al tempo stesso, affascinati, senza cogliere realmente il senso autentico, doloroso di ciò che è stato filmato.
La domanda che mi pongo e che vi pongo è questa: senza aver rimosso la morte, trasformandola in un tabù, ci sarebbe stato lo stesso questo interesse nel vedere i video che rappresentano le persone mentre uccidono se stessi o un altro individuo? Io credo che, all’interno di una società in cui è normale avere a che fare con il morire, tali filmati risulterebbero meno interessanti e molto meno richiesti. E voi, invece, cosa ne pensate? Attendiamo i vostri contributi.