Carne digitale. La nostra presenza corporea nel mondo online, di Davide Sisto
La pandemia da Covid-19 ha accelerato una serie di processi sociali, culturali e antropologici già ampiamente in corso nello spazio pubblico. Durante il lockdown, per esempio, ci siamo resi conto in maniera definitiva del modo in cui le tecnologie digitali disgiungono concretamente la presenza dalla localizzazione: mentre eravamo fisicamente reclusi all’interno delle nostre abitazioni, consapevoli che il nostro corpo non può occupare più di un posto alla volta, abbiamo infatti continuato ad agire nel mondo attraverso il prolungamento digitale delle nostre identità personali, libere di muoversi nei vari spazi online. Pur con tutti i limiti del caso, non abbiamo smesso di andare a scuola, di vedere concerti dal vivo, di interagire in tempo reale con le altre persone, di celebrare alcuni riti funebri, ecc. Un piccolo ma significativo spunto, a riguardo, è dato dal documentario The Social Distance, prodotto da Netflix, il quale racconta alcune storie personali il cui filo conduttore è l’uso delle piattaforme digitali per mantenere quelle relazioni intersoggettive interrotte di colpo dal lockdown.
La consapevolezza che la distinzione tra presenza e localizzazione problematizza il nostro modo di definire l’identità psicofisica ha determinato, tra gli studiosi dell’attuale impatto sociale e culturale delle tecnologie digitali, l’idea che siamo immersi con il corpo nella dimensione online. Non che sia un’idea nuova, se teniamo conto dei numerosi studi di fine XX secolo (Pierre Lévy, un nome su tutti) i quali evidenziavano la superficialità interpretativa di chi parlava di mera smaterializzazione o virtualizzazione dei corpi in relazione all’immersione online. In termini letterari, Italo Calvino sottolineava il coinvolgimento corporeo delle persone addirittura attraverso la linea telefonica, come si evince dall’affascinante racconto Prima che tu dica “Pronto”. Ora, nel libro The Global Smartphone. Beyond a Youth Technology (2021), un gruppo di antropologi si è soffermato sugli attuali comportamenti tecnologici delle persone anziane, provenienti da diversi paesi del mondo. Il libro evidenzia come lo smartphone sia oramai percepito – in linea generale – nei termini di “una casa trasportabile”: non è, cioè, più inteso come un semplice device che ci permette di comunicare a distanza, ma come il luogo in cui viviamo, il luogo in cui possiamo “fisicamente” incontrare i nostri cari in mancanza della vicinanza fisica. Margaret Gibson e Clarissa Carden, nel libro Living and Dying in a Virtual World (2018), e Patrick Stokes, nel recente Digital Souls (2021), utilizzano invece uno specifico concetto, piuttosto eloquente, per indicare la nostra presenza corporea in Rete: vale a dire, “carne digitale” (Digital Flesh). Il termine inglese Flesh, parente stretto del tedesco Fleish, indica infatti una vera e propria presenza carnale, non corporea, dei cittadini nella realtà digitale: accumuliamo, infatti, al suo interno connessioni, memorie, investimenti emotivi e temporali che, nel corso del tempo, aumentano la vulnerabilità della nostra identità sociale, culturale ed esistenziale e rendono più complesso il nostro approccio alla dimensione online.
Un esempio specifico che avvalora questo concetto di carne digitale – vulnerabile, soffice e non del tutto decomponibile – è dato dagli attuali comportamenti umani in presenza di un lutto. Il fatto di investire una quantità considerevole di tempo quotidiano nella costruzione delle nostre identità online, soprattutto all’interno dei social media, implica una sopravvivenza post mortem delle nostre cellule digitali che rende più critica l’elaborazione del lutto. Ne ho parlato più volte nel blog: i profili social, se da una parte offrono un prezioso scrigno dei ricordi al dolente, dall’altra rendono più difficile l’accettazione del distacco. Ogni singolo giorno, infatti, il dolente ritrova davanti ai suoi occhi immagini, parole, suoni del proprio amato defunto che impediscono, di fatto, l’inizio di un nuovo mondo senza di lui. Quell’insieme di dati online, complice la particolare temporalità che vige in Rete, sembra rendere fisicamente presente colui che non c’è più, intercettando da un punto di vista psicologico ed emotivo il desiderio recondito di aver vissuto solo un brutto sogno. D’altronde, questa carne digitale favorisce tutti quelle dinamiche romantiche di comunicazione tra i vivi e i morti che sono alla base degli stessi Continuing Bonds, rimandando la mente – al tempo stesso – alle teorie spiritiche del XIX secolo.
Prendere coscienza che, oramai, siamo coinvolti emotivamente e fisicamente nella dimensione online è, a mio avviso, un punto di partenza fondamentale per cercare di comprendere i meccanismi della Rete e per affrontare con più raziocinio possibile le conseguenze della frequentazione dei vari luoghi online. Pensare ancora che vi sia una contrapposizione tra reale e virtuale e che la caratteristica propria della dimensione online sia un’asettica immaterialità significa sottovalutare l’impatto emotivo che tale dimensione comporta nella vita di tutti i giorni. E, di conseguenza, significa non comprendere i nuovi codici simbolici che regolano il nostro atavico rapporto con la morte e con la perdita. Non è questo lo spazio per un’approfondita analisi teorica del nostro essere corpo nei vari luoghi online. Mi limito soltanto a proporre qualche suggestione che permetta di mettere meglio a fuoco quella realtà “onlife”, di cui parla Luciano Floridi, che oramai testimonia il carattere obsoleto di una distinzione rigida tra l’online e l’offline.
Lascio, come sempre, a voi lo spazio per esprimere dubbi o considerazioni in merito.