Il rifiuto della nostalgia e la ricerca del “per sempre” di Davide Sisto
In questo periodo sto traducendo in italiano, insieme a Roberta Clamar, il libro “Foreverism” (Polity Press 2023) del filosofo Grafton Tanner. L’autore ritiene che il mondo presente sia ossessionato dalla durata senza fine degli eventi (personali e non) e manifesti un’avversione totale nei confronti di ogni forma di nostalgia, quale conseguenza di una perdita o di un’interruzione sia reale che simbolica. Il neologismo che Tanner ha coniato – appunto, “foreverism” – rappresenta un punto di partenza significativo per mostrare questa tendenza anti-nostalgica generale, un rifiuto delle cose finite su cui la società capitalistica investe oggi ingenti quantità di denaro. Al di là dei contenuti specifici del testo, mi pare evidente che stiamo vivendo un’epoca segnata da una curiosa contraddizione.
Da una parte, stiamo prendendo finalmente coscienza degli effetti negativi della rimozione sociale e culturale della morte e, pertanto, stiamo cercando di superare il tabù, parlandone in pubblico di continuo, come – forse – mai si è fatto dal Dopoguerra a oggi. Percorsi universitari di Death Education, convegni, rassegne e festival tanatologici, Death Café, pagine social dedicate alla morte: la pandemia da Covid-19 ha spinto la società a cercare di dare un senso alla paura e all’ansia provate tra il 2020 e il 2022, aumentando le iniziative pubbliche e private durante cui confrontarci sul senso della nostra mortalità e della perdita di chi amiamo. Dall’altra, tuttavia, rifiuto della morte trova un prezioso alleato nello strumento che meglio delinea il rivoluzionario sviluppo tecnologico della contemporaneità: vale a dire, la registrazione. La dimensione online, reggendosi sulla continua produzione di dati e sulla loro immediata registrazione, ha portato alle estreme conseguenze la possibilità di vivere e rivivere senza sosta gli eventi che abbiamo amato, spingendoci a forza all’interno di una bolla in cui c’è il costante ritorno del finito. YouTube, Netflix, Amazon Prime e le altre piattaforme di cui facciamo quotidiano uso intensificano radicalmente le abitudini man mano acquisite durante lo sviluppo novecentesco dell’industria culturale di massa. Pertanto, ci permettono di rivivere in qualsiasi momento della giornata i programmi tv, i film, le serie televisive, i concerti, ecc. che hanno segnato il nostro percorso di crescita. Mai come oggi possiamo tenerci alla larga dallo scorrere del tempo, continuando a far finta che i nostri amati prodotti culturali del passato siano parte attiva e pulsante del presente. Il desiderio di non dover scendere a patti con la fine e la nostalgia che ne deriva si riflette, per esempio, nell’aumento esponenziale dell’uso dell’intelligenza artificiale, dell’olografia e della realtà virtuale nei rapporti tra la vita e la morte. Queste vengono utilizzate, infatti, per permettere ai personaggi pubblici di continuare a “vivere” dopo la loro morte, non solo per mezzo delle tracce registrate e, dunque, di per sé passive. Cantanti, artisti, politici, ecc. sopravvivono al loro decesso sotto forma di ologrammi, i quali continuano a svolgere le attività che li hanno resi noti. Anzi, è sempre più diffuso il pensiero che la vecchiaia e la morte non abbiano alcun diritto di interrompere il processo artistico o sociale sviluppato nel corso dei decenni: se non lo si può portare avanti con la propria natura biologica, sarà compito allora dei loro eredi tecnologici proseguire ciò che è stato realizzato. È tutt’altro che una bizzarria la richiesta della cantante pop Madonna, nel suo testamento, di non diventare un ologramma post mortem.
Questo tipo di iniziativa intercetta anche i bisogni dei privati cittadini. Sembra che una delle principali richieste fatte a ChatGPT dagli utenti di tutto il mondo sia quella di riprodurre le caratteristiche specifiche dei cari defunti, di modo che non si possa mai smettere di dialogare attivamente con loro. Pare che in Cina con soli 52 yuan (6,75 euro) si possa già ora in teoria continuare a parlare con i morti, usufruendo dei servizi offerti dalla piattaforma di e-commerce Taobao. E si moltiplicano gli studi interdisciplinari sui cosiddetti “thanabots”, appunto gli strumenti di intelligenza artificiale che riproducono le modalità comunicative di chi è morto.
In altre parole, a una presunta maturità acquisita progressivamente nei confronti del proprio destino mortale si contrappone un rifiuto estremo del senso della fine. Mai come oggi, le tecnologie plasmano un mondo in cui vogliamo bandire ogni forma di nostalgia, in particolare l’accettazione della separazione, pretendendo inoltre un presente immacolato e privo dei segni del tempo che passa. Ma siamo sicuri che sia salutare un mondo in cui il passato, di fatto, viene a identificarsi con un presente che dura per sempre? Il rifiuto della nostalgia, dunque di quel termine che ne è a fondamento, non rischia di renderci emotivamente più apatici e meno capaci di accettare l’inevitabile corso degli eventi? Ho timore che l’eccessivo soffocamento del presente con un passato che non si accetta come tale possa aumentare le difficoltà quotidiane e rendere arduo un percorso di crescita individuale. Come posso prendere coscienza dei miei limiti se il mondo circostante mi promette l’illimitato e l’infinito?
Al di là di tutto, resta – a mio avviso – interessante notare la contraddizione qui descritta, segno di una metamorfosi in corso del rapporto tra chi dà un valore vitale alla morte e chi continua invece a volerla negare. Rapporto atavico, che fa parte della storia dell’umanità ma che, tuttavia, oggi assume caratteristiche particolarmente radicali, a causa del cambiamento della vita umana dovuto alla possibilità di ampliare i mondi in cui vivere in virtù della dimensione online.
Cosa ne pensate? Anche voi notate questa tendenza in corso al rifiuto della nostalgia? Fateci sapere.