Lutto ed emergenza: intervista al dottor Marco Lesca, di Serena Corongi
Abbiamo intervistato Marco Lesca, medico d’emergenza che lavora da anni sul territorio piemontese sia presso la centrale operativa 118, sia in ambulanza, per chiedergli come affronta il lutto durante un’emergenza sanitaria. Il dottor Lesca ci ha raccontato la sua esperienza a titolo personale e non rappresenta il Sistema 118.
Per chi non conoscesse il Sistema 118 (raggiungibile in Piemonte con il numero unico 112) stiamo parlando di un sistema complesso che supporta il cittadino nelle situazioni di urgenza. Quando componiamo il numero, l’operatore che ci risponde (un infermiere), in collaborazione con un medico della centrale, ha il compito di comprendere l’accaduto, sostenerci psicologicamente e inviarci l’ambulanza più adatta. Il dott. Lesca, quando lavora in ambulanza, collabora con infermieri e soccorritori.
Da anni lavora in emergenza e affronta quotidianamente il lutto, ci racconta la sua esperienza? Cosa la mette più in difficoltà? Vedere il lutto e il dolore dei parenti è faticoso e lo stress che viviamo, soprattutto quando siamo in centrale operativa e ci occupiamo di supportare al telefono le persone in emergenza sanitaria, è molto elevato.
L’esperienza mi porta ad affrontare il lutto in modi differenti. In emergenza infatti ci occupiamo di malattia, trauma, infarto, ictus, ostruzione delle vie aeree e tutte le cause che possono portare una persona al decesso. Ci confrontiamo con la morte di neonati o di bambini così come con quella di adulti e di anziani. In molti casi la nostra paura non è solo la possibile morte, ma anche i danni celebrali che possono essere riportati dai pazienti, in modo particolare dai bambini. Questi ultimi vengono spesso trasportati in ospedale per togliere il dolore dagli occhi dei genitori. Alcuni miei colleghi distinguono tra la morte attesa e la morte non prevista, mentre la mia esperienza mi porta a credere che i parenti non siano mai preparati al lutto e quindi personalmente non credo in tale distinzione. Esiste una differenza tra la costatazione di un decesso e una rianimazione: nel primo caso non trattiamo il paziente, ci occupiamo di decretarne la morte e di supportare la famiglia, nel secondo caso invece procediamo per tentare di far ripartire la complessa macchina che è il corpo umano. Infine, c’è il lutto dovuto al suicidio, uno tra i più destabilizzanti per i familiari. In questo caso chiediamo l’intervento degli Spes, le squadre psicologiche di emergenza sociale, per sostenere i congiunti.
L’emozione che si prova di fronte alla morte è molto violenta. I parenti soffrono e piangono per la persona che li ha lasciati o che li sta per lasciare. Davanti a questa sofferenza io da medico provo una forte sensazione di impotenza.
Spesso le persone vedono i medici come onnipotenti e ci chiedono di “salvare” i loro cari in ogni modo e da ogni male. Siamo noi a sentirci e ad essere consapevoli di essere impotenti, e la responsabilità che percepiamo e che ci viene data è per noi fonte di grande stress. In alcuni casi piangiamo a seguito di un servizio, ma mai davanti ai parenti. Per questo motivo nel corso degli anni è stato inserito un sostegno psicologico per i medici e gli infermieri che ne fanno richiesta, ma non è raggiungibile a tutte le ore e spesso prima di avere un colloquio siamo costretti ad attendere settimane.
Come ha acquisito le competenze comunicative per affrontare il lutto con i parenti?
Purtroppo non abbiamo una formazione specifica che ci permetta di affrontare il lutto al meglio. Negli anni ho compreso che ciò che mi spaventa nel vedere la morte è la certezza che prima o poi morirò anche io. Un buon medico deve fare i conti con la propria morte per stare accanto a chi perde qualcuno e a chi sta per morire, ma anche per non essere schiacciato dalla sensazione d’impotenza di cui parlavo prima.
Ho imparato a comunicare grazie all’esperienza e ai racconti dei miei colleghi. Da anni ci tramandiamo e raccontiamo gli interventi che facciamo e le best practices, comprese le strategie per comunicare nel miglior modo con i pazienti e i parenti e i modi per gestire le emozioni che viviamo.
Ho imparato che con i familiari e i pazienti bisogna comunicare come si fa con i bambini, senza dare la possibilità di fraintendimenti, e che è necessario, soprattutto in caso di rianimazione, dare frequenti resoconti del nostro operato, per permettere alle persone di comprendere cosa sta accadendo in tempo reale. Ho lavorato molto anche sul mio tono di voce, fondamentale soprattutto nel supporto telefonico.
Spesso i parenti ci chiedono di assistere alla rianimazione, e in alcuni casi filmano gli ultimi momenti di vita del loro caro. Io non mi oppongo mai a queste pratiche e rispetto il loro bisogno, il bisogno di vedere la morte e di ricordare l’evento. Altre volte ci chiedono di portare via il corpo del defunto e ci raccontano la loro difficoltà nel restare nella stanza o nel dormire nel letto dove è deceduta la persona cara.
Come affronta con se stesso il lutto? Cosa si porta a casa?
Mi porto a casa tutto, mi ricordo di tutti gli interventi in cui ho aiutato le famiglie in lutto. All’inizio della mia carriera li raccontavo a mia moglie, poi ho capito che non era giusto coinvolgerla. Quindi parlo solo con i colleghi e alcune volte faccio fatica a comunicare anche con loro. Anche se non è facile, la condivisione tra colleghi è fondamentale.
Ritengo che noi medici di emergenza avremmo bisogno di più sostegno e di una formazione più specifica per poter fare meglio il nostro lavoro.