Si può dire invecchiare?
Da qualche tempo mi accorgo di invecchiare: i miei cinquantadue anni mi interrogano, e mi suggeriscono di iniziare a fare i conti con il divenire anziana. Così, rimugino e leggo libri: voglio sapere come altre donne e uomini hanno vissuto il loro percorso di invecchiamento, cosa pensano, come si sentono. E m’interessa riflettere sulla nostra cultura, e capire come vengono visti gli anziani e quanto questo sguardo li/ci influenzi.
Parafrasando il titolo di questo blog, mi chiedo: si può dire invecchiare nella nostra società? Mica tanto, la vecchiaia attrae quanto la morte, ed è vista come l’ultima tappa del viaggio verso l’intollerabile fine. Invecchiare è un disvalore nella nostra cultura, basata sulla rincorsa della ricchezza, del successo, del dinamismo, della bellezza e della sensualità. «Vecchio» è quasi un insulto, perché ricorda la prossimità alla decadenza e alla morte, massima vergogna. Si pensa al vecchio in generale come a un essere decrepito, incapace di decidere, demente e malato, privo di speranza e di affetti, fragile e volto verso il passato. Più che pensieri, sono vecchi fantasmi e nuove paure. La medicina ci consente oggi una lunga aspettativa di vita, che da un lato ci rassicura, dall’altro ci terrorizza. Come mi ridurrò? Perderò l’autonomia? Chi mi amerà ancora?
La nostra reazione più comune è quella di cercare di restare giovani, ognuno coi suoi metodi e mezzi, cercando di dimenticare il processo in corso. Ma a che serve fare gli struzzi?
Non è ora di pensare a se stessi anziani come a una risorsa e non come a un problema?
Dicono che i vecchi sono cupi perché disincantati rispetto a sé e agli altri? Bene. Il disincanto, da sempre, è anche misura nella valutazione, e giudizio. Invecchiando, se si riesce a seguire il filo di una possibile saggezza, i valori della prestanza fisica e dell’affermazione sociale si smussano, per lasciar spazio alla ricerca di un benessere più profondo e duraturo. La percezione della propria fragilità (che dovrebbe essere propria di tutti gli uomini) è genitrice del sentimento di umanità. In vecchiaia, la corsa al consumo rallenta un po’ la morsa, e gli anziani potrebbero essere maestri di una semplicità volontaria, di una misurata decrescita, del perseguimento di virtù capaci di non escludere la gran parte dei cittadini (i poveri, gli stranieri, gli stessi anziani, i malati, i disabili, i morenti).
I vecchi come risorsa: questo è un ruolo che la nostra cultura non ci servirà su un piatto d’argento.
Dico a voi, amici over65, come vi sentite? Piatti, privi di progetti e di futuro, ripiegati su voi stessi solo perché non siete più freschi, aggressivi e spavaldi come a vent’anni? Non dovremmo noi, anziani di oggi e di domani mattina, guadagnarci sul campo un nuovo ruolo, mostrando che possiamo essere preziosi socialmente e anche sereni?