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Tag Archivio per: funerale

“Get ready with my boyfriend’s funeral”. Il lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

26 Marzo 2024/6 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Recentemente, durante un mio incontro pubblico sui temi della morte digitale, una partecipante mi ha chiesto un parere riguardo alla versione funebre del celeberrimo acronimo GRWM usato su Tik Tok, YouTube e Instagram. L’acronimo sta per “Get Ready With Me”, “preparati con me” o “prepariamoci insieme”, e indica l’abitudine – da parte soprattutto degli utenti social più giovani – di creare dei tutorial relativi al make-up e al look da indossare durante specifiche circostanze, per lo più solari e disimpegnate. Siamo oramai tutti consapevoli di quanto sui social media vada di moda questo tipo di tutorial, per mezzo dei quali gli influencer sponsorizzano o, comunque, consigliano abiti, modi per fare la perfetta skin care e cose simili. Non immaginavo, però, che spopolasse anche la seguente versione dell’acronimo indicato: “get ready with me for my boyfriend’s funeral” o “get ready with me for my mom’s funeral”. Dietro queste sigle si nascondono centinaia, se non addirittura migliaia, di video in cui vediamo persone molto giovani che si truccano o si vestono davanti alla telecamera in vista della partecipazione al funerale del proprio partner o genitore. I video durano uno o due minuti, hanno generalmente un sottofondo musicale malinconico e contengono qualche concisa frase di spiegazione. In realtà, il funerale solitamente ha già avuto luogo. Il video è, dunque, una specie di messinscena per sottolineare un momento particolare del lutto appena avvenuto, su cui spesso si pone poca attenzione: appunto, il momento preciso in cui ci si deve vestire e truccare per andare al funerale di una persona amata, quindi una situazione di estremo dolore legata a una perdita appena avvenuta. I video, generalmente, uniscono atmosfere drammatiche con altre più ilari o ironiche, guadagnando milioni di visualizzazioni e di like, nonché centinaia di migliaia di commenti di coetanei che raccontano esperienze luttuose simili o che condividono il proprio calore virtuale alla persona immortalata.

Ne cito un paio: Karine, una ragazza che ha appena perso la madre, la quale in un minuto di video mostra il tipo di make up e di abito nero che ha indossato per il suo funerale. Gli hashtag usati, oltre a GRWM, sono #funeral #fyp #foryoupage #foryou. Il video, in cui vediamo la ragazza a tratti in lacrime a tratti con un sorriso disincantato, conta quasi diciotto mila commenti, nonché più di due milioni di like. Ancora più significativo è il video dell’influencer Paige Gallagher che si è truccata davanti alla telecamera per la morte del suo compagno. Durante il video chiede a chi ha vissuto un lutto significativo se ha avuto, durante la fase del rito funebre, la sensazione simile alla sua di essere dentro un gioco in realtà virtuale, in cui si perde il contatto con la tangibilità del reale. Tra i milioni di followers che hanno visto il video alcuni la ringraziano per dare testimonianza a questa particolare situazione del lutto, altri invece la condannano radicalmente. Costoro ritengono, infatti, che sia di cattivo gusto ridurre il necessario raccoglimento per la perdita patita all’ennesima esposizione narcisistica di sé, dando rilievo a cose del tutto futili come l’abito o il make up per andare al funerale.

Durante gli ultimi giorni ho osservato numerosi video simili su Tik Tok per cercare di farmi un’idea sul valore di questa particolare scelta. Da una parte, mi sembra che la versione funebre del GRWM sia parente di tutte quelle iniziative che hanno finora segnato la presenza della morte sui social media, come – per esempio – i selfie ai funerali condivisi su Instagram qualche anno fa o i video narrativi sulla perdita di un genitore condivisi su YouTube. Queste iniziative, per lo più portate avanti da persone molto giovani, tendono a creare narrazioni in parte drammatiche in parte ironiche, cercando quindi di condividere pubblicamente il proprio dolore mediante scelte stilistiche agrodolci. La condivisione pubblica del dolore, unito a una qualche forma di ironia, nasconde l’esigenza di parlare insieme ai propri coetanei del lutto, di mostrarne i segni, di invitare a ritrovare nel tempo la risata e dunque di eliminare quel carattere di riservatezza che, almeno per alcuni, genera più sofferenza che sollievo. Inoltre, va detto che la scelta del look per la partecipazione al funerale richiama alla mente svariate ritualità funebri, ciascuna con le sue regole e le sue abitudini. Ci sono, come sappiamo, culture che danno un’importanza fondamentale al modo di presentarsi al funerale. Dunque, non c’è niente di particolarmente offensivo né di inusuale nel dare spazio visivo, sui social, a questo tipo di preparazione, magari determinando una riflessione collettiva sul tema. Inoltre, è sempre molto difficile dover giudicare in maniera radicalmente netta registri comportamentali e stilistici spesso molto differenti, come quelli che separano le generazioni pre-social da quelle abituate a usarli quotidianamente. Se questo tipo di iniziativa è una scusa per affrontare il lutto in pubblico e per ragionare sul dolore che accompagna il rito funebre, allora non mi pare che ci sia nulla di male.
Dall’altra parte, ovviamente, il dubbio che la messinscena a funerale avvenuto nasconda, dietro un proposito positivo, la mera capitalizzazione del like e della visibilità è altrettanto plausibile. Quando qualcosa diventa tendenza, rischia molto spesso di creare atteggiamenti superficiali o tesi semplicemente a trarre vantaggi dalla fragilità ostentata. E se l’essere umano di per sé è abile a mostrare il peggio di sé anche nelle circostanze in cui si richiede empatia, raccoglimento e calore reciproco, allora non c’è da stupirsi se qualcuno si approfitta della versione funebre del GRWM per trarre vantaggi economici o di mera visibilità.

Da studioso dei meccanismi che caratterizzano le relazioni sui social in presenza di un lutto riesco a vedere gli elementi positivi di questa nuova iniziativa, che spinge le persone più giovani a mettere in discussione una certa riservatezza, a volte ipocrita, a volte figlia dell’imbarazzo relazionale, che caratterizza i primi momenti di una perdita. Per me il bicchiere è mezzo pieno, non mezzo vuoto. Ovviamente, occorre fare attenzione affinché non si banalizzi un momento così delicato come quello relativo al rito funebre. Ma questa attenzione vale sia dentro che fuori i social media.

Voi cosa ne pensate? Vi sembra una scelta inopportuna? Oppure, trovate un aspetto positivo in questo tipo di iniziativa? Ancora: cogliete in cose del genere un distacco generazionale piuttosto marcato? Attendiamo le vostre risposte.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/03/influencer-marketing-copia.jpg 265 356 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-03-26 14:45:412024-03-26 14:45:41“Get ready with my boyfriend’s funeral”. Il lutto su Tik Tok, di Davide Sisto

La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

3 Giugno 2022/3 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Come antropologa mi sono a lungo interrogata sul tema della morte e sui diversi modi in cui le varie società umane conferiscono significato e ritualizzano il fine vita. Uno dei primi popoli presso cui ho avuto l’opportunità di svolgere ricerche etnografiche sono i wayuu, una delle più grandi comunità indigene della Guajira Colombiana e del Venezuela.

Quando giunsi per la prima volta nella Guajira, più di quindici anni fa, il mio obiettivo prioritario era quello di documentare la storia del massacro di Bahía Portete, avvenuto nell’ambito del conflitto armato colombiano. Questo massacro fu uno dei più drammatici eventi di violenza estrema ai danni dei wayuu durante l’espansione dei gruppi paramilitari nell’Alta Guajira, il loro territorio ancestrale. Il bilancio delle vittime non è mai stato chiarito ufficialmente, ma si parla di oltre cinquanta persone uccise, sottoposte a brutali mutilazioni e torture. Il cimitero, inoltre, fu brutalmente profanato e le ossa furono dissotterrate. Nel clima di negazione che caratterizzava quegli anni, la commissione che curò l’indagine escluse ogni responsabilità dello Stato e identificò come causa del massacro le dispute interne fra le famiglie indigene, coinvolte nella lotta per il controllo del traffico di benzina, droga e armi. Le vittime, insomma, vennero colpevolizzate in virtù della loro storia di regolazione autonoma dei conflitti interni e il governo – più volte sotto accusa non solo per la sua incapacità di proteggere i popoli nativi dalla violenza paramilitare, ma addirittura per la loro collaborazione con questi gruppi – se ne lavò le mani. Per contrastare questa lettura, nel mio lavoro (come in quello di altri studiosi e attivisti che si sono concentrati su questo caso), divenne prioritario conoscere l’organizzazione sociale wayuu e, nel farlo, ho realizzato che i riti funebri erano una vera e propria chiave di volta per comprendere la cultura e la storia di questo popolo.

Il ciclo della ritualità funebre wayuu è molto lungo ed è articolato in due grandi riti.

Subito dopo il decesso si svolge il primo funerale, che dura sette giorni e sette notti. Seduta sulla sua amaca Maria Apushana, una delle anziane del piccolo villaggio dove alloggiavo, descriveva questo rito come una grande celebrazione, con duecento, trecento invitati. Con orgoglio, l’anziana raccontava il grande funerale che era stato organizzato in onore di suo nonno; del suo viaggio per raggiungere il villaggio in cui si sarebbe svolta la veglia; delle amache che ognuno appendeva per dormire; delle moltissime capre che erano state sacrificate e mangiate dagli ospiti (e che avrebbero accompagnato lo spirito del defunto nell’aldilà); dei liquori – la chicha e il chirrinchi – che bevevano gli uomini mentre raccontavano aneddoti e ricordavano il defunto e, soprattutto, dei pianti cadenzati e ritmici che lei e le altre donne avevano intonato ininterrottamente, per non lasciare mai da solo il nonno nel suo viaggio. Al termine, come è consuetudine, il cadavere era stato temporaneamente seppellito in un cimitero vicino al luogo del decesso.

Il primo funerale è un evento importante della vita sociale di tutto il gruppo familiare. Nei funerali, più che in qualsiasi altra occasione, è essenziale dimostrare la generosità della propria famiglia e invitare qualcuno al proprio funerale futuro è ritenuto un gesto di cortesia, ospitalità e amicizia.

Dopo un lasso di tempo che può variare da due a sei – sette anni, quando si sono conclusi i processi di decomposizione e sono stati radunati i soldi necessari, viene realizzato il secondo funerale. Le ossa  vengono riesumate, lavate con cura e, dopo una veglia di nove notti a cui partecipa solo il gruppo familiare ristretto, vengono trasferite al cimitero del clan matrilineare o apushi. Questo luogo ha un’importanza fondamentale perché non solo sancisce sul piano simbolico il legame fra il clan e il suo territorio, ma ne attesta l’effettiva proprietà al pari di un documento catastale. Quando un defunto viene seppellito in un luogo lontano da quello del proprio clan, cosa molto frequente data l’elevata mobilità del popolo wayuu, è un dovere sociale portare via i resti dal cimitero in cui erano state temporaneamente deposte per ricollocarle nel cimitero del suo apushi: se non lo si fa, “qualcuno” potrebbe pensare che si stia cercando di avanzare delle pretese su quella terra. La distruzione del cimitero e la profanazione delle tombe che ebbe luogo nel drammatico momento del massacro aveva quindi un significato ben preciso: si è trattato di un’aggressione contro la sfera simbolico-culturale e contro il legame fra questo popolo e il territorio.

Il doppio funerale è un tema classico dell’antropologia della morte. Robert Hertz, allievo di Émile Durkeheim e uno dei primi antropologi a occuparsi in modo sistematico delle rappresentazioni collettive della morte, analizzò il rito della doppia sepoltura in area indonesiana, soffermandosi in particolare sulle tradizioni dei Dayak del Borneo. Hertz osservò che mentre nel mondo Occidentale la morte era per lo più intesa come un evento puntuale, collocabile nel preciso istante dell’ultimo respiro, per questo popolo la morte era invece pensata come un processo piuttosto lungo, che si sovrapponeva solo in parte al momento della morte biologica.

Anche nel ciclo funebre wayuu la simbologia e la ritualità rimandano a un’idea di transito, di viaggio, di trasformazione. Le due fasi del ciclo rituale infatti rispecchiano l’idea di una morte che avviene in due fasi. La morte fisica è considerata la “prima morte” del soggetto, durante la quale si verifica una separazione dello spirito dal corpo del defunto. Poche ore dopo il decesso, lo spirito diventa yoluja e inizia a percorrere il “sentiero degli indiani morti” che porta a Jepirra, il luogo dei morti. Sebbene “sopravviva” alla separazione dal corpo, l’anima, per i wayuu, non è immortale. La “seconda morte” o la “morte definitiva” della persona, come in molte culture di area Mesoamericana, corrisponde al sopravvento dell’oblio. Il yoluja (ovvero l’anima, lo spirito) muore quando nessuno fra i vivi ricorda più quella particolare persona e si sono dunque perse le tracce della sua individualità. Il secondo funerale e il sopravvento dell’oblio sono due eventi che non coincidono a livello temporale, ma che hanno un significato sociale per certi versi simile, nel senso che in entrambi i casi hanno a che fare con l’individualità che scompare per dissolversi in una dimensione collettiva.

Poiché il yoluja può comunicare con i vivi attraverso i sogni, ed è considerato per molti versi ancora parte attiva e presente della comunità, potremmo dire che per i wayuu la morte fisica e la morte sociale sono due cose ben diverse. La permanenza, per questo popolo, è saldamente ancorata alla memoria: ricordare, e tramandare il ricordo di chi muore è l’unico modo per prolungare l’esistenza e per preservare la presenza simbolica dei defunti.

Cosa ne pensate di questo modo di coltivare la memoria e di permettere l’oblio?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/06/00000125-e1654099128532.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-06-03 08:51:002022-06-03 08:51:00La doppia morte degli indigeni wayuu, di Ana Cristina Vargas

I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

22 Dicembre 2021/0 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato l’antropologa Cristina Vargas chiedendole come siano cambiati, a suo parere, i riti funebri in epoca Covid.

1. Il Covid, soprattutto durante la prima ondata, ha stravolto il nostro rapporto con la ritualità. Prima di questa esperienza di privazione dei riti, molti affermavano di essere piuttosto antiritualisti. Ma di fronte all’impossibilità di celebrare riti funebri, è parso che la consapevolezza dell’importanza dei riti sia aumentata. Condividi questa lettura?

Sì, sono d’accordo. Se intendiamo il rito funebri come il momento del funerale in senso stretto, allora il periodo di sospensione è circoscritto. Durante la prima ondata le cerimonie funebri, religiose e laiche, sono state sospese per poco più di tre mesi. Tuttavia, se adottiamo una prospettiva antropologica e intendiamo i riti funebri in un senso più ampio, come tutti quei gesti significativi che accompagnano la morte (l’ultimo addio, la preparazione e la cura della salma, la sepoltura o la cremazione e, infine, se presenti, tutti i momenti rituali che scandiscono il periodo di lutto) ci rendiamo conto che il problema è stato molto più ampio e ha toccato, in modi e misure diverse, moltissime persone.

I riti, in particolare i riti funebri, sono un bisogno profondamente radicato nell’essere umano, eppure la loro importanza qualche volta si perde di vista o tende ad essere data per scontata. Nelle scienze sociali – penso in particolare alla sociologia e all’antropologia – ci fu un interessante dibattito rispetto alla ritualità fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che può essere utile ripercorrere brevemente per capire come è mutato il nostro rapporto con i riti. Nodo centrale di questo dibattito è il concetto di “ritualismo”, proposto da Robert Merton per indicare tutte quelle circostanze in cui le persone si impegnavano in azioni e gesti rituali come una mera forma di aderenza alle prescrizioni sociali, senza che ci fosse né un’adesione profonda ai valori espressi da quei gesti, né un coinvolgimento interiore.

Il termine ebbe molto successo perché, di fatto, dava nome a un diffuso scollamento tra le forme rituali dominati e ciò che le persone percepivano come significativo nelle proprie vite. In un contesto sempre più urbano e secolarizzato, il senso dei riti si era svuotato e, per molti, quasi tutte le ritualità divennero “ritualismi”. I funerali cattolici tradizionali, per esempio, erano in molti contesti diventati dei “doveri sociali”, momenti standardizzati e freddi, incapaci di esprimere la dimensione profondamente personale di ogni perdita.

Eppure, come affermava l’antropologa Mary Douglas in quegli stessi anni, “in quanto animale sociale, l’essere umano è un animale rituale”. Il suo invito era quello di ripensare il rito senza pregiudizi, intendendolo innanzitutto come una forma di comunicazione essenziale tanto sul piano individuale quanto sul piano collettivo, poiché ha il potenziale di connettere la sfera simbolica, l’esperienza soggettiva e il gruppo sociale. Nella pandemia, il venir meno delle forme consuete per  accompagnare ritualmente la fine, ci ha reso consapevoli delle conseguenze della mancanza della funzione integrativa del rito funebre, senza il quale è difficile trovare dei linguaggi (e dei momenti) condivisi per dire addio e per socializzare il lutto.

Per tornare alla domanda iniziale, credo che quando il rifiuto della ritualità sia una scelta personale, allora esso abbia di per sé quella funzione comunicativa di cui parla Douglas: “dire di no ai riti esprime qualcosa di profondo su di me al mio gruppo sociale”. Se invece non è una scelta, ma una costrizione, l’impossibilità di ritualizzare priva chi resta di una delle più importanti risorse culturali di cui disponiamo per far fronte alla morte.

2. Il Covid ha determinato anche molte nuove esperienze rituali, con cerimonie “inventate”, come quelle celebrate in alcuni ospedali. Come vedi questo fenomeno?

Al pari di quanto è avvenuto in precedenti situazioni di crisi sociale (le guerre, le catastrofi naturali, altre epidemie che hanno colpito in passato l’umanità), le forme socialmente codificate per accompagnare la morte e per dare risposta al bisogno collettivo di ritualità si sono dimostrate impercorribili o inadeguate a tutti i livelli: individuale, familiare, comunitario e sociale. In questo scenario, nei contesti più consapevoli e attenti molte persone hanno cercato di dare risposta a questi bisogni e si sono adoperate a “costruire” nuovi linguaggi per dire addio. Questi momenti di commemorazione sono stati importanti anche per gli operatori, penso ad esempio al caso degli ospedali e delle Rsa, dove anche chi ha lavorato ha condiviso la fatica, la sofferenza e il trauma della morte non adeguatamente accompagnata.

Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo collaborato con la SOCREM Torino per proporre delle commemorazioni rituali presso il Tempio Crematorio di Torino. Nel rito sono stati centrali i nomi delle persone decedute, i simboli naturali – l’albero, il sentiero, la pietra – e le “parole non dette” che le famiglie hanno potuto deporre in una teca posizionata lungo il percorso. Nelle varie settimane in cui si sono svolte le commemorazioni molti pensieri, poesie, disegni, testimonianze d’affetto e di dolore sono state affidate ai bigliettini bianchi che settimana dopo settimana riempivano la teca.

Credo che questi tentativi siano importanti e abbiano un valore umano e sociale soprattutto quando riescono a mettere al centro il vissuto dei protagonisti e offrono loro spazi di espressione (quando non sono “ritualisti”, ma rituali… per riprendere la prima riposta).

Tuttavia “costruire” nuovi riti non è facile, perché richiede la capacità di identificare i linguaggi giusti, di riconoscere dei bisogni che non sempre sono espliciti e di offrire cornici – luoghi, tempi, oggetti e simboli – perché questi bisogni possano esprimersi in modi significativi, lontani dalle retoriche e vicini piuttosto al vissuto profondo di chi partecipa al rito.

3. In molti casi si è usata la tecnologia per partecipare virtualmente a riti funebri ai quali era impossibile essere presenti. I funerali in streaming esistevano già, per le molte persone che hanno, per svariati motivi, esistenze transfrontaliere e affetti in paesi diversi. Pensi che sia l’inizio di una prassi destinata a diffondersi?

Su questo tema ho una visione ottimista. In passato mi era capitato di assistere a funerali transnazionali e, seppur con notevoli ostacoli tecnici, era stato l’unico modo per “stare insieme” a parenti e amici nonostante la distanza geografica. Non penso che i riti in streaming siano destinati a sostituire i funerali in presenza, ma le tecnologie “virtuali” possono senz’altro essere una risorsa in più. Esse, come hai detto bene, già esistevano, ma sono diventate parte della nostra normalità durante la pandemia: ora siamo più attrezzati e possiamo usarle con maggiore dimestichezza e con maggiore consapevolezza rispetto al passato.

4. Dopo la Prima guerra mondiale, quando in ogni famiglia c’era stato un lutto, si era celebrato un rituale di lutto collettivo a Roma, con l’inumazione del Milite ignoto; e altre cerimonie locali avevano avuto luogo nell’intero paese. Credi che avremmo dovuto (anche se non siamo in guerra) fare qualcosa di analogo per il Covid?

Nonostante le molteplici differenze fra il Covid e la guerra, credo che una risposta rituale istituzionale (che ancora manca)  sia doverosa e necessaria. I riti funebri non hanno solo una dimensione individuale, ma hanno anche una funzione collettiva estremamente potente. A seconda dei linguaggi che vengono utilizzati, un funerale pubblico può aggregare o dividere, ricomporre o spaccare una società. Credo che in questo momento sarebbe utile puntare su ciò che unisce, pensare a ritualità collettive che ricordino la nostra comune vulnerabilità, il dolore subito da tutti, le forme di resilienza e solidarietà messa in campo a livello comunitario. Questo forse faciliterebbe il rafforzamento di legami sociali che oggi sono piuttosto tesi e rischiano di polarizzarsi ulteriormente.

L’esempio della prima guerra mondiale mi sembra utile anche per riflettere sulla dimensione monumentale, parte essenziale della memoria storica: come si racconterà la pandemia attraverso i monumenti? Quali aspetti si sceglierà di inscrivere nella pietra o nel marmo? Sono scelte importanti su cui, con i tempi e le modalità giuste, credo sia necessario aprire un dibattito pubblico.

4. C’è qualcosa che avresti voluto dire e che non ti ho chiesto?

Mi sento di dire che il Covid è stata un’esperienza epocale che, in un modo o nell’altro, ha modificato le vite di ciascuno di noi. La pandemia, e tutto ciò che ad essa si può ricondurre, ci ha costretto a misurarci con il peso della solitudine e della vulnerabilità, a rivedere le nostre priorità e a ripensare molte cose che in passato tendevamo a dare per scontate, non solo la ritualità. Molti lavori in ambito storico e sociologico hanno rilevato che, quando le paure si attenuano, le grandi epidemie sono sovente seguite da fenomeni di amnesia sociale. Credo, dunque, sia necessario attivarsi fin da subito per non rimuovere la sofferenza individuale e collettiva che ha caratterizzato questo tempo complesso che siamo stati chiamati a vivere. Mi sembra che dare spazio a una pluralità di prospettive sulla pandemia, come stai facendo tu in questo blog, sia un primo passo fondamentale in questa direzione.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/12/153701-md-e1640162751163.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-12-22 09:48:482021-12-22 09:48:48I riti funebri e il Covid, intervista a Cristina Vargas, di Marina Sozzi

A che punto siamo con la negazione della morte? Prima puntata: i riti, di Marina Sozzi

1 Novembre 2018/10 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

A che punto siamo con la negazione della morte? E’ una domanda che un tanatologo, di tanto in tanto, deve porsi. Questa volta l’interrogativo è stato stimolato anche dalla lettura dell’ultimo libro del sociologo Marzio Barbagli, Alla fine della vita, che afferma che la società moderna non nega e nasconde la morte più di quelle che l’hanno preceduta. Non sono per niente d’accordo con lui, e ho l’impressione che il libro voglia essere una provocazione, ma non sia del tutto equo nei confronti del profluvio di studi e riflessioni che, in tutto il mondo occidentale, hanno esaminato i molteplici significati dell’impasse dei nostri contemporanei non solo di fronte al morire, ma anche dinanzi al soffrire. Sembra che Barbagli voglia un po’ “liquidare” la tesi della negazione della morte, più di quanto non intenda riesaminarla.

Io vorrei, invece, affrontare la domanda sulla negazione della morte come se fosse una domanda nuova, senza dare per scontate le risposte che ho dato in passato. Sono ormai venticinque anni che mi occupo di questi temi, e vi propongo di guardare a ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio. La situazione è migliorata? E’ peggiorata? Il discorso è lungo, e comincio oggi proponendovi un tema specifico, quello dei riti funebri.

I riti funebri sono semplicemente cambiati, come dice Barbagli, o c’è una povertà rituale oggi in Italia? Che le modalità di sepoltura siano cambiate è un dato: nel 2016 (ultimi dati disponibili) è stata scelta la cremazione dal 23% delle persone, l’inumazione dal 33% e la tumulazione dal 44%. La scelta cremazionista cresce, per ragioni in parte culturali e in parte economiche. Non credo né ho mai creduto che l’aumento della cremazione, in Italia come in altri paesi, sia sintomo di una deritualizzazione.
Al contrario, nei luoghi in cui è stato proposto un rito del Commiato per accompagnare l’affidamento della salma al crematorio, si è fatta un’importante operazione culturale: far riflettere i familiari sull’esigenza di un addio che abbia una struttura rituale, ma che corrisponda anche al desiderio di personalizzazione molto diffuso in Occidente: una poesia, una musica, qualche parola in memoria del defunto pronunciata da chi lo ha amato. Nei crematori dove c’è stata l’offerta di un rito, la popolazione ha maturato anche la capacità di celebrarlo a immagine e somiglianza del morto. Stiamo parlando, però, di una minoranza. C’è un’altra minoranza che pensa per tempo al rito funebre: quella di coloro che, avendo avuto accesso per tempo a buone cure palliative, hanno potuto conciliarsi con la propria morte e hanno dato istruzioni ai loro cari sulla cerimonia che desiderano.

La maggioranza delle persone, invece, si trovano in una situazione di impoverimento rituale. Pensano al rito funebre quando la morte di un congiunto è già avvenuta o sta per sopraggiungere. Allora chiamano le onoranze funebri e delegano loro quasi ogni decisione.
Così accade che molti non credenti si trovino impelagati in un rito cattolico. E forse anche la Chiesa cattolica si sta rendendo conto di quanti problemi ci siano nella celebrazione dei funerali religiosi con persone non religiose o blandamente credenti. I sacerdoti si accorgono che gli astanti non conoscono le formule di rito, non sanno quando alzarsi e sedersi, non conoscono le preghiere. Gli stessi operatori funebri si scandalizzano, inoltre, nel constatare che i partecipanti a molti funerali non riescono a sentire la solennità della morte, e si comportano in modo inappropriato.
Un problema a parte è costituito dalla scarsa offerta di spazi interculturali, dove sia possibile celebrare riti di altre culture o religioni. Ne ho parlato in alcuni miei libri e non vorrei dilungarmi su questo. Certo le cose non vanno meglio di qualche anno fa, né il clima di intolleranza che si va diffondendo nel paese fa presagire nulla di buono su questo fronte. Un’unica notazione positiva: la possibilità (che si sta cominciando a proporre) di assistere in streaming a funerali che si svolgono a migliaia di chilometri dal luogo dove si vive può essere uno strumento importante in un mondo globalizzato, anche se non sostituisce la presenza di persona.

Non è vero, come afferma Barbagli, che tutti i riti hanno perso terreno, e non solo quelli funebri. Forse in alcune nicchie intellettuali della mia generazione di baby boomers c’era un atteggiamento antiritualista, ad esempio ci si sposava in tono minore: era considerato più di buon gusto.
Oggi però i giovani sono tornati con entusiasmo al matrimonio tradizionale, anche quando si sposano civilmente, abito bianco, banchetto e torta nuziale, album di fotografie, bomboniere, (a testimonianza del loro/nostro bisogno di riti), e organizzano feste per il battesimo dei figli. Ma lo stesso non si può affermare per i funerali. Nessuno pensa di onorare la memoria di un defunto con un funerale importante.

Per quanto riguarda i cimiteri, continuano a essere luoghi poco frequentati, con l’esclusione delle persone in lutto e delle celebrazioni dei primi di novembre. Certo, nell’ultimo ventennio sono stati molto valorizzati i cimiteri monumentali, ma soprattutto dal punto di vista artistico-museale.
Invece le proposte innovative, che dovevano modificare il volto ai nostri luoghi dei morti (ad esempio i cimiteri arborei e altri progetti di parchi cimiteriali) non sono riusciti a sfondare, nonostante l’idea piaccia molto a tanti cittadini. Fiacchi i cimiteri virtuali, che pareva dovessero rappresentare il futuro, ma che non esistono quasi più. L’idea codice del Qr da mettere sulle tombe, per accedere a una realtà aumentata, e poter conoscere la storia della persona sepolta, benché interessante, ancora ha fatto poca strada. Intanto, continuiamo a avere cimiteri di loculi.

La commemorazione viaggia soprattutto sui social, Facebook in primo luogo. E’ accaduto che la rievocazione si sia spostata nel mondo virtuale, abbandonando parzialmente quello reale. Ma non mi spingerei a parlare di una nuova cultura funebre. Perlomeno, non ancora. La memoria veicolata dai social network è una memoria troppo carica di informazioni, troppo privata, e che privilegia l’aspetto della consolazione dei vivi rispetto a quello della memoria storica e sociale. E anche da questo punto di vista, manca l’aspetto concreto della presenza fisica degli altri nella vita di chi ha perso un congiunto. Certo, la presenza su Facebook è meglio di nulla. Ma è un succedaneo.

Non abbiamo, a mio modo di vedere, ancora trovato un rito che possa essere condiviso in una società complessa e plurale come la nostra. Cosa ne pensate? Vi sembra invece che nuovi riti si stiano sedimentando? Come vorreste che fosse il vostro rito funebre? I cimiteri sono ancora importanti?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/11/Depositphotos_47611967_s-2015-e1541069976729.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-11-01 12:05:042018-11-01 12:05:04A che punto siamo con la negazione della morte? Prima puntata: i riti, di Marina Sozzi

Sopravvivere nei propri cari: il rito funebre Yanomami, di Elisabetta Gatto

6 Dicembre 2017/2 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

YanomamiTra il mondo dei vivi e quello dei morti c’è una continuità e una corrispondenza: la relazione tra i defunti e chi è in vita è salda e deve essere coltivata.

È ciò che credono gli Yanomami, una società di cacciatori-raccoglitori e orticultori che vivono nella foresta tropicale dell’Amazzonia del nord, al confine tra Brasile e Venezuela: per loro il legame con i propri cari non cessa al momento della morte. Come presso molte altre società amazzoniche, i rituali funebri yanomami sono cerimonie lunghe e complesse.

Il momento centrale del funerale è il reahu, un rituale che prevede una serie di fasi ben scandite. A cominciare dalla cremazione del defunto e di tutto ciò che a lui apparteneva. Le ossa calcinate sono raccolte e deposte in un paniere coperto poi di foglie e collocato in un luogo alto della casa. Allo spuntare del giorno gli uomini si recano nella foresta per tagliare il tronco dell’albero kamai che, scavato e decorato con motivi geometrici in urucù, un pigmento di colore rosso, servirà come mortaio per triturare le ossa. Quando ha inizio il pianto corale delle donne, un gruppo scelto di uomini – anch’essi con le guance dipinte – inizia la cerimonia della triturazione, riducendo in polvere le ossa.

Il resto delle ceneri – ovvero gli oggetti e la legna usata per fare la pira – è buttato nel fiume, perché nulla di appartenente al defunto rimanga a interferire con i ritmi della vita della comunità.

Il giorno successivo si procede con la preparazione della festa. Ognuno nel villaggio ha un ruolo specifico: alcuni vanno ad avvisare eventuali parenti lontani del defunto, altri escono per la caccia (heniyomu), accompagnata da performance durante le quali ragazzi e ragazze improvvisano una serie di danze e di canti poetici (heri), altri ancora si recano a raccogliere i caschi di banane per la festa. Infine le donne raccolgono manioca per preparare una buona quantità di focacce.

Inizia il conto alla rovescia in base al tempo di maturazione dei caschi di banane. Arrivano gli ospiti, accolti con cibi, bevande e danze. Al ritorno dei cacciatori dalla foresta e alla completa maturazione delle banane, la cerimonia può avere inizio.

Viene preso il paniere con le ossa e portato in processione sul luogo dove già sono stati preparati pestello e mortaio. Dopo la macinazione, le ceneri del defunto vengono mescolate a un frullato caldo di banane. Mentre le donne piangono, i parenti e gli amici del defunto si riuniscono in cerchio e bevono la mistura: è un prezioso momento di condivisione, che testimonia la solidarietà con la famiglia in lutto, sancisce il rispetto per la persona amata defunta ed è un modo per assicurare alla sua anima il viaggio verso l’aldilà. È estremamente importante che vengano consumate le ceneri del defunto, per permettergli di trovare pace e fare in modo che non rechi disturbo ai vivi, nel villaggio. Se il compianto è morto per mano di un nemico, gli uomini evocano maledizioni e promettono di vendicare il morto.

Il rituale osteofagico non è praticato solo in occasione del funerale, ma anche in altri momenti cerimoniali comunitari. Attraverso questa forma di endocannibalismo – vale a dire la pratica di consumare i resti dei propri parenti – i vivi assorbono la forza spirituale dell’anima del defunto. Per evitare che il suo spirito possa ritornare causando problemi alla comunità, vengono distrutti tutti gli oggetti che gli appartenevano e si evita di menzionare il suo nome.

Morire non viene considerato dagli Yanomami un fatto naturale: viene spiegato attraverso i racconti mitici, secondo cui la morte venne inviata nel mondo quando i primi esseri disubbidirono a un comandamento della natura. Essi credono infatti che nell’epoca primordiale gli esseri umani fossero immortali e potessero rinnovarsi e ringiovanire in continuazione.

Nel corso dei rituali gli Yanomami fanno spesso uso di tabacco e yopo, una sostanza stimolante che viene inalata attraverso il naso ed è ritenuta essenziale per entrare in contatto con il soprannaturale e trasmettere la memoria culturale.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/12/Yanomami_Woman__Child.jpg 2397 2618 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-12-06 11:09:042017-12-11 14:53:18Sopravvivere nei propri cari: il rito funebre Yanomami, di Elisabetta Gatto

La vita nel rito funebre Bororo, di Elisabetta Gatto

28 Settembre 2017/5 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

bororoI riti di morte, oltre alla celebrazione del defunto, sono una risposta all’irrefrenabile pulsione vitale dei vivi. Il rito funebre può, infatti, essere identificato come un rito di passaggio, che celebra la morte come avvenimento di transizione non solo per il defunto, ma anche per i vivi: la morte produce di fatto una crepa all’interno dell’armonia del gruppo sociale, e il rito funebre permette alla comunità di integrarla, di rigenerarsi e di prepararsi all’inizio di un ordine nuovo. Il funerale diviene l’occasione per la comunità di riaffermare, attraverso una socialità più intensa, la propria identità e di mettere in scena nella cornice delle pratiche tradizionali la forza vitale del gruppo.

Tra i Bororo del Mato Grosso, in Brasile, il rito funebre è il più carico di significati simbolici e quello che meglio esprime la loro identità culturale. Quando un Bororo muore, il suo cadavere viene deposto al centro del villaggio in una fossa di circa mezzo metro di profondità e coperto con una foglia di palma. È questa la prima sepoltura, che inaugura un periodo di lutto, osservato per circa tre mesi, durante i quali il tumulo viene bagnato varie volte con acqua e erbe per accelerare il processo di decomposizione della carne. Dopo tre mesi, infatti, vengono riesumate solo le ossa, considerate la parte più duratura del corpo umano, alle quali è riservata una particolare cura: vengono ripulite, dipinte con un pigmento rosso (urucù, anatto), decorate con piume di uccello e poi disposte in una grande cesta funebre dipinta con i colori distintivi del clan del defunto e ornata con la visiera e il pariko, il diadema di penne di pappagallo ara che è simbolo dell’identità bororo, infine deposta fuori dal villaggio. È curioso che gli stessi ornamenti usati dai Bororo per rivestire il teschio del defunto siano usati nel rito di nominazione – un potente rito di vita – al momento della foratura del labbro dei bambini. Il funerale, inoltre, è l’occasione per celebrare un altro rito di passaggio: l’iniziazione dei ragazzi del villaggio. Si intende in questo modo celebrare, insieme alla morte, la rinascita.

Dopo la sepoltura, gli abitanti del villaggio intonano canti accompagnati dal suono del bapo, un sonaglio ricavato da una zucca riempita di semi duri o piccole pietre, e danzano attorno al tumulo, impersonando gli antenati con pitture facciali e ornamenti. Le donne in lutto si strappano i capelli, raccolti poi in una treccia da portare avvolta al braccio sinistro o attorno alla testa come ornamento rituale che attesta la condizione di lutto.

Gli uomini partono per la caccia in onore del defunto. La famiglia in lutto dona al cacciatore più abile la treccia di capelli e un powari, una zucca forata, rivestita di penne di uccello con i colori distintivi del clan del defunto: si crede che il suono che produce sia il canto dello spirito del morto. Con questa consegna il cacciatore riceve l’incarico di vendicare il defunto, uccidendo un giaguaro, ritenuto l’incarnazione dello spirito maligno e la causa di quella morte. Uccisa la belva, il cacciatore ne consegna la pelle alla madre del defunto come risarcimento per la perdita perché la usi come tappeto. Vengono utilizzati come ricompensa rituale anche i denti e le unghie del giaguaro, con cui si realizzano rispettivamente una collana e una corona. L’offerta dell’animale riparatore al clan del defunto assume la funzione di ristabilire i giusti rapporti tra gli uomini.

Negli ultimi tre giorni del rito funebre nella capanna centrale gli uomini del villaggio, indossati gli ornamenti tradizionali, intonano un lungo canto lugubre, cadenzato al suono del bapo.

Un anziano è incaricato di richiamare lo spirito del defunto perché si manifesti un’ultima volta: rivestito con un lungo perizoma di foglie di palma, una cavigliera di unghie di cinghiale, il pariko in testa e un tessuto a larga trama davanti al viso, si dirige danzando verso il cortile del villaggio insieme a un corteo, si avvicina a un fuoco e vi getta tutto ciò che apparteneva al defunto quando era in vita. Si crede infatti che il suo ricordo sarà mantenuto vivo non attraverso ciò che possedeva, ma attraverso i suoi insegnamenti. Vengono poi richiamati gli spiriti della natura: questo è un rituale al quale è concesso solo agli uomini partecipare. Il rito funebre è dunque un tempo collettivo, a cui il gruppo partecipa a difesa di se stesso e della propria continuità.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/09/bo-54-w-e1506586654106.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-09-28 10:22:512017-09-28 10:22:51La vita nel rito funebre Bororo, di Elisabetta Gatto

L’importanza del Commiato

20 Gennaio 2014/19 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Ieri sono stata al cinema, a vedere il bellissimo e delicato Still Life, storia di un dipendente comunale inglese che ha il compito di trovare i parenti di coloro che sono morti soli. Il film parla di solitudine e di morte, ma soprattutto dell’importanza del commiato.
Anche se non resta nessun vivo a piangere un essere umano scomparso, ricordare chi ha attraversato la vita, anche se la traccia che ha lasciato è lieve, fa parte dell’umanità dell’uomo. E il protagonista del film, il signor May, prende sul serio il suo compito, fa ricerche accurate sui suoi defunti, scrive per loro orazioni funebri e sceglie musiche appropriate.
«Il funerale si fa per i vivi, i morti se ne fregano», gli dice il suo capo quando decide di licenziarlo.
Ma è proprio così? Siamo legittimati a smaltire velocemente un cadavere se non ci sono parenti addolorati? Credo di no, e forse è per questo che il film ha commosso moltissimi spettatori. Nel gesto di ricordare e salutare un uomo morto c’è il rispetto per l’umano, per la vita vissuta, c’è la comprensione per le vite sfortunate o cattive e l’ammirazione per quelle buone, c’è la pietà per la mortalità dell’uomo, c’è il sentimento della nostra fragilità, c’è la consapevolezza del mistero.
E d’altra parte noi, in questo inizio di terzo millennio, siamo in bilico, per quanto riguarda i riti funebri. Da un lato quelli del passato sono spesso stanchi e vuoti (recentemente mi è purtroppo accaduto di assistere al funerale di un familiare, e dal parroco visibilmente annoiato ho sentito solo triti luoghi comuni); dall’altro c’è l’esigenza di inventare nuovi modi, condivisi, di celebrare i nostri morti.
Chi di noi non ha qualche volta immaginato di vedere il proprio funerale? Chi non si è rappresentato le persone che potrebbero venire a darci l’ultimo saluto, a raccontare qualcosa di noi? La nostra immaginazione può nutrire, credo, le proposte che un po’ in tutta Italia si stanno facendo per il rito del Commiato laico.
E voi, se doveste compilare un modulo in cui vi è richiesto di descrivere come vorreste il vostro funerale, cosa scrivereste?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2014/01/imgres.jpg 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2014-01-20 10:47:052014-01-20 10:47:05L’importanza del Commiato

Applausi ai funerali?

31 Ottobre 2012/9 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Avendo in animo di riflettere sull’usanza, che si va diffondendo, di applaudire ai funerali, ho dato un’occhiata al web, e sono rimasta sbalordita. In un paese dove eminenti accademici fanno gesti scaramantici se si nomina la morte, vi è un dibattito acceso sugli applausi ai funerali, pro e contro. Ogni post su questo argomento trascina con sè molti commenti (cfr. www.distantisaluti.com, www.ilpost.it, mysterium.blogosfere.it, www.unavoce-ve.it, eccetera). Perfino una pagina Facebook, “Sostegno per eliminare gli applausi ai funerali o spiegarne l’utilità” (41 mi piace, poi abbandonata). Le posizioni sono contrapposte e viscerali. Chi è contro considera l’applauso una barbarie tutta italiana, un segno del degrado del paese, e ne attribuisce la responsabilità alla televisione, alla spettacolarizzazione della vita e della morte in stile reality, o all’incapacità di reggere il silenzio, o alla fuga di fronte all’angoscia per la morte.
Ho provato a intervistare gli amici. Qualcuno dice: “Nella nostra cultura l’applauso ha tre funzioni: approvazione, incitamento e/o giubilo, o accompagnamento di un ritmo musicale. Cosa hanno a che fare con un funerale? L’approvazione per l’operato del morto si esprime nel pensiero, col silenzio. Se non dovessimo condividere le sue azioni, fischieremmo?”
Ma non tutti sono d’accordo: per alcuni l’applauso è un modo per esprimere ossequio, per rendere onore al defunto, o addirittura riconoscenza e ammirazione, come quando a essere applaudito è un uomo che si è sacrificato per la patria, come il giudice Giovanni Falcone.
C’è anche chi abbozza una sorta di storia dell’applauso. La prima volta che si è applaudito è stato ai funerali di Anna Magnani, 1973:l’ultimo tributo a una grande attrice.
Allora, come vogliamo riflettere su questo applauso?
A me viene in mente innanzitutto Freud. Nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), scriveva che di fronte a un morto “assumiamo un atteggiamento del tutto particolare, manifestandogli quasi una sorta di ammirazione, come se avesse compiuto qualche cosa di assai difficile. Ci asteniamo dal criticarlo, gli perdoniamo i suoi eventuali torti, sentenziamo: de mortuis nil nisi bene,e troviamo giusto che nell’orazione funebre e nell’epitaffio non si celebrino che le sue lodi”.
Mi pare che nell’applauso ci sia molto di quest’atteggiamento, che peraltro Freud attribuiva alle convenzioni sociali: atteggiamento del tutto diverso dal crollo da cui siamo colti quando la morte colpisce una persona davvero prossima (ecco perché i parenti non applaudono).
Questo costume funebre può piacere o meno. E certo, per quanto riguarda i riti funebri, ci troviamo in una situazione complessa, come fossimo in mezzo a un guado. Quelli della tradizione sono poco seguiti e non ci coinvolgono più molto. Ma non vediamo l’altra sponda del fiume. In questi decenni, esiste una sorta di fase di sperimentazione rituale: la personalizzazione del rito, le musiche, i discorsi, le letture poetiche o letterarie, i nuovi gesti della cerimonia del Commiato (ad esempio toccare la bara alla fine del rituale, o distribuire agli astanti rose tolte dal cuscino di fiori posato sul coperchio), o anche l’applauso. Ignoriamo quali, tra questi tentativi rituali, si depositeranno a loro volta in tradizione. Siamo, saremo noi a stabilire cosa sparirà, cosa resterà, cosa altro inventeremo. Ma occorre che ci impegniamo in una riflessione più profonda, non basta dichiarare i nostri gusti in fatto di applausi, in un paese dove è ancora difficilissimo organizzare un rito laico. L’applauso, in fondo, è un dettaglio, a fronte della mancanza complessiva di riti socialmente condivisi.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/10/applauso.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-10-31 09:50:452012-11-15 21:50:28Applausi ai funerali?

Quale rito funebre laico?

29 Ottobre 2012/57 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Nella loro forma tradizionale, i funerali cattolici lasciano spesso freddi i partecipanti e inappagati e delusi i familiari di chi non c’è più. Gli operatori funebri e i parroci spesso affermano di essere scandalizzati da quanto i presenti chiacchierino tra loro sottovoce, senza seguire la cerimonia.
Cosa è successo?
Soprattutto in aree urbane e secolarizzate, la fede nell’immortalità dell’anima è scemata, e spesso ai riti funebri ci sono persone che non frequentano la messa e non conoscono il rito (leggete il bel libro di Marco Marzano, Quel che resta dei cattolici, Feltrinelli 2012): il rito cattolico è consolante per chi ha fede nell’aldilà, mentre è vuoto e insensato per chi non crede.
Occorrono alternative. Deve essere accessibile a tutti la celebrazione di un rito laico, che metta al centro la vita del defunto e il suo lascito affettivo, culturale, etico. Musica, discorsi, silenzi, gesti sono gli ingredienti di questo rito personalizzato. Un po’ dappertutto in Italia stanno sorgendo sale del Commiato multiculturali, atte a ospitare funerali laici o di altre religioni.
Purtroppo lo spazio da solo non è sufficiente. Il rito funebre ha diverse funzioni: onorare il defunto, consolare i vivi, riaffermare che la vita della comunità continua nonostante la ferita inferta dalla morte. Per essere efficace, deve avere una struttura e un celebrante. Colpite dal dolore della perdita, spesso le famiglie faticano a organizzare un rito. E spesso il dolore, durante i funerali laici privi di rituale, viene aggravato da un’insopportabile afasia.
Come far capire alle amministrazioni pubbliche che è doveroso non lasciare la ritualità funebre in mano ai privati? Che deve esistere uno spazio comunale per il commiato laico e dei celebranti che lavorino per la municipalità? Se vogliamo far crescere il rispetto per ciò che è pubblico e recuperare il sentimento della cittadinanza attiva e della responsabilità civile, occorre anche esprimere un rimpianto collettivo per un cittadino che muore.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/10/mano-bara.png 263 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-10-29 09:43:222012-10-29 09:43:22Quale rito funebre laico?

Riti africani

12 Ottobre 2012/7 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

In questo breve racconto, so che non riuscirò a comunicarvi ciò che ho vissuto nella sua totalità, perché le cose paradossalmente muoiono nel momento in cui si scrivono, eppure dalla scrittura nasce sempre del nuovo ed eccomi quindi a voi con la mia storia.
Mi trovavo con mia moglie presso alcuni amici in un paese dell’Africa occidentale, i nostri abitavano in città e ci portarono al villaggio dove continuavano a vivere le rispettive famiglie di origine, lì abbiamo trascorso un periodo di squisita ospitalità.
Un giorno in particolare capitò un evento che coinvolgeva tutta la comunità: una giovane donna era appena deceduta, la sera si sarebbe celebrato il funerale. Parlando io poco il francese e per niente la lingua della zona non so descrivervi i dettagli e le ragioni di quel fatto, ma questa fu un’opportunità più che un limite, ne capirete il perché.
Quella sera quindi m’incamminai con mia moglie e i miei amici su una strada di campi, man mano che procedevamo apparivano dall’oscurità altri compagni che si univano al nostro viaggio, parlavano e ridevano, molto e veloce, per cui faticavo a capire i discorsi, percepivo invece il clima di quel momento, qualcosa stava per succedere.
In poco tempo, eravamo già un centinaio di persone radunate davanti al porticato di una casa isolata; non mi soffermerò sul rituale funebre, che per quanto ricordo è stato molto semplice, vi racconterò piuttosto la parte dominata per tutta la notte dal canto.
Sotto il portico si cominciò a suonare strumenti a percussione, un cantante guidava guardandoci, fui subito rapito dalla bellezza di quei suoni, le struggenti melodie del cantante costruivano armonie sapienti e sorprendenti con i controcanti, danzando gioiosamente sulle percussioni.
Il pathos del cantante ci attraversava tutti e mi ritrovai all’istante travolto da un inarrestabile fiume di lacrime.
Non conoscevo quella donna eppure mi sentivo intimamente unito a queste persone, il dolore della loro perdita abbracciava i dolori delle mie perdite, per qualche ignota magia avevo perso me stesso.
Nei giorni successivi quei canti continuarono a risuonarmi dentro e sentivo che questo era un medicamento che dava senso alla morte, proveniva da una sapienza non intellettuale molto evoluta che parlava un linguaggio comprensibile, questo sì, anche a uno straniero come me.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/10/danza-rituale.jpg 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-10-12 11:31:302014-12-22 10:48:52Riti africani

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