Si può dire morte
  • HOME
  • Aiuto al lutto
  • La fine della vita
  • Ritualità
  • Vecchiaia
  • Riflessioni
  • Chi Siamo
  • Contatti
  • Fare clic per aprire il campo di ricerca Fare clic per aprire il campo di ricerca Cerca
  • Menu Menu

Tag Archivio per: formazione

Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

27 Gennaio 2023/2 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Nel corso degli ultimi anni, su questo blog, ho spesso raccontato e descritto le più svariate conseguenze generate dall’uso delle tecnologie digitali sulla comprensione umana del ruolo della morte nella vita, nonché nell’ambito dell’elaborazione del lutto e sul modo di conservare la memoria e di desiderare, eventualmente, l’immortalità.

Il progresso tecnologico avanza con una velocità tale da rendere sempre più pervasivo l’utilizzo intergenerazionale delle piattaforme digitali. Fino a qualche anno fa era normale servirsi dell’espressione “nativo digitale” per stabilire un implicito confine tra generazioni. Oggi, invece, siamo uniformemente concordi nel credere che il futuro prossimo sarà contraddistinto da cittadini di ogni età abituati a considerare le tecnologie digitali come strumenti irrinunciabili per lo svolgimento della vita quotidiana, quasi come vere e proprie protesi di sé. A prescindere dal fatto che questo ci piaccia oppure no. La consapevolezza della continua espansione della dimensione online e del carattere imprescindibile degli smartphone e dei computer mi fa pensare quanto segue: è giunto il momento di introdurre – in maniera ufficiale e non procrastinabile – la cosiddetta “tanatologia digitale” nei percorsi formativi ed educativi dei medici, degli operatori sanitari, degli psicologi, dei palliativisti e degli educatori in senso lato. In altre parole, occorre prendere coscienza che la relazione tra le tecnologie digitali e il fine vita non è più di natura rapsodica, magari limitata a specifici target di età o a particolari gruppi di cittadini particolarmente avvezzi alle tecnologie. È, semmai, una relazione che riguarda l’intera cittadinanza e che produce continuamente sia nuove opportunità sia, soprattutto, inedite criticità. La conoscenza attenta di entrambe diventa, pertanto, fondamentale per non aumentare le difficoltà e le sofferenze che già viviamo di per sé durante l’ultima fase della vita personale o di quella dei propri cari.

Quali sono, nel dettaglio, gli aspetti che rendono necessaria una sorta di “tanatologia digitale” nei percorsi di formazione? In primo luogo, l’aspetto comunicativo. È già ricorrente di per sé il problema della comunicazione faccia a faccia tra il medico, il paziente e i familiari del paziente in presenza di una malattia mortale o, in alternativa, radicalmente invalidante. Un problema che è particolarmente sentito a partire dal processo di rimozione sociale e culturale della morte e dalla riduzione della malattia a un tabù. Lo sviluppo della telemedicina, accelerato dalla pandemia da Covid-19, sta generando nuove forme di comunicazione che avvengono perlopiù in maniera scritta, tramite applicazioni di messagistica privata come WhatsApp o via mail, a cui si aggiungono le ricerche individuali attuate su Google. È, di conseguenza, fondamentale comprendere le differenze comunicative in presenza e a distanza, tramite parole espresse a voce o per iscritto, di modo da non incrementare le incomprensioni, le ansie, i dolori e le sofferenze delle persone. I registri linguistici e simbolici sono differenti, di conseguenza lo sono altrettanto i problemi che derivano dal loro uso. L’aspetto comunicativo include, poi, la gestione dei social media durante una malattia mortale: ogni singolo individuo ha un rapporto differente con i social, dunque risulta doveroso intercettare le sue modalità comunicative affinché i social diventino uno strumento di sostegno e non un problema in più. Tra l’altro, i singoli social si differenziano gli uni dagli altri, pertanto bisogna districarsi tra le peculiarità di Facebook, Instagram, YouTube, Tik Tok e via dicendo. E, ancora, come fare con l’eredità digitale? Cancellare preventivamente i propri profili? Mantenerli in vita? Darli in gestione a persone fidate? La risposta a queste domande chiama in causa, in secondo luogo, il lutto e la sua elaborazione. Oramai, ognuno di noi conserva una quantità incalcolabile di tracce delle persone amate, come mai successo in passato: parole scritte, messaggi vocali, fotografie, registrazioni audiovisive. Queste tracce tendono sempre più a rappresentare un prolungamento digitale dell’identità individuale (ormai, è diffusa tra gli studiosi l’espressione di “carne digitale” per descrivere questo prolungamento sul piano emotivo). Pertanto, è in costante aumento il numero dei dolenti che faticano a intraprendere un sano percorso di elaborazione del lutto, circondati da così tanti documenti i quali sembrano mantenere vivi i propri cari defunti. Sono sempre più numerosi coloro che proiettano sul proprio smartphone o su quello del caro defunto la possibilità di un contatto attivo, trascendendo in maniera patologica il mero ricordo o creando ibridazioni inedite tra le ritualità religiose assodate e quelle prodotte dalle tecnologie.

Questi sono solo alcuni dei tanti temi che occorre tenere a mente, man mano che mutano le caratteristiche delle società all’interno di cui nasciamo, cresciamo e moriamo. Mi pare miope e inconcludente escludere l’importanza della relazione tra tecnologie digitali e fine vita, a causa di pregiudizi individuali o di sospetti nei confronti di un’epoca storica particolarmente incentrata sulla tecnica e sulla tecnologia. Ancor di più, considerando che ci stiamo muovendo nella direzione del Metaverso e della realtà virtuale.

Cosa ne pensate? Ritenete sensate queste preoccupazioni? Attendiamo con interesse i vostri commenti, dubbi e riflessioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/01/Metaverso-LinkPA-copia.jpg 265 300 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-01-27 10:07:272023-01-27 10:07:28Tanatologia digitale e formazione, di Davide Sisto

Vulnerabilità, violenza e cura, di Marina Sozzi

16 Settembre 2021/7 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Negli ultimi mesi molte persone e anche alcuni giornalisti mi hanno chiesto se durante la pandemia si sia sviluppata negli individui una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità, e quindi una maggiore inclinazione alla cura e all’attenzione per gli altri.

E’ stata una speranza che si era affacciata nel primo lockdown, quando era prevalsa per qualche tempo un’atmosfera di solidarietà tra le persone e di gratitudine per gli operatori sanitari.

E’ durata poco, come era prevedibile per chi conosce i limiti dell’umano. Raggiungere una più alta consapevolezza della propria fragilità è un compito arduo, che richiede uno sforzo continuo, un lavorio incessante su se stessi: lo choc dovuto a un evento inatteso e avverso non è sufficiente.

La vulnerabilità è infatti la possibilità di essere esposti al “vulnus”, alla ferita altrui, corporea nell’etimologia latina, ma poi anche psicologica. Nel profondo, tutti sappiamo che l’uomo è vulnerabile, ma questa vulnerabilità non è uguale per tutti. Ci sono individui più vulnerabili di altri, per storia individuale, per status socioeconomico, per caratteristiche psicologiche, e così via. La percezione che qualcuno sia più vulnerabile di noi può portare alla cura ma anche alla violenza. Non si tratta però di inclinazioni nette e definite, bianco o nero, bene o male. Ciascuno di noi ha dentro di sè una tendenza violenta, che non necessariamente si esplica con la ferita fisica. La prevaricazione, l’indifferenza, la passione per l’esercizio del potere, l’egocentrismo, il paternalismo, sono forme di violenza, perché contribuiscono a tenere l’altro in una posizione di minorità e di fragilità. Si può essere anche violenti contro se stessi, quando non si riconosce il proprio valore, quando ci si impedisce di provare ed esprimere le emozioni, quando si è troppo esigenti.

Questa tendenza alla violenza può essere contrastata con un paziente lavoro di coltivazione della cura. Cura di sè, innanzitutto. Perché la mente umana è relazionale, e ciò che è irrisolto o bloccato in chi cura interferisce con la qualità della cura. Senza una presa in carico della propria fragilità non può esserci buon ascolto e buona cura.

Credo che questo ragionamento ci spieghi come mai sia così difficile avere una buona qualità della cura, sia nelle istituzioni sanitarie, sia in quelle sociali. E anche come mai ciascuno di noi faccia così fatica a offrire una buona qualità di cura ai propri familiari e amici che attraversano una fase di fragilità.

Non ci sono scorciatoie, il percorso verso una buona cura è un percorso innanzitutto di crescita umana. Altrimenti si può essere dei buoni o talvolta ottimi tecnici, operare correttamente dal punto di vista professionale (è il caso di molti medici), senza entrare però nella vera e propria dimensione della cura. La cura è un accompagnamento, che mira a attivare le risorse altrui per affrontare quanto la vita gli ha posto davanti. E’ una tensione verso un’uguaglianza non solo formale (siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi diritti e doveri), ma sostanziale (cerco di colmare il fossato della disuguaglianza reale). E’ inoltre una tensione verso la realizzazione dell’autonomia decisionale della persona di cui ci si prende cura. Anche l’autodeterminazione, come l’eguaglianza, non è solo un diritto riconosciuto dalle leggi (tra cui l’ottima legge 219/2017), ma un obiettivo della cura. Se c’è rispetto della dignità altrui, riconoscimento, attenzione, le persone riescono più facilmente a decidere per sè.

Per questo buona parte della formazione che si fa in sanità dovrebbe riguardare la crescita umana necessaria per la buona cura, l’ascolto attivo, e le strategie per far prevalere l’istanza della cura sull’istinto della violenza.

Che ne pensate? Siete d’accordo? Potete raccontarci qualche episodio di buona o cattiva cura?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/09/99E86791-E327-4A3C-8916-C55490774018-e1631701718854.jpeg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-09-16 10:13:232021-09-16 10:13:24Vulnerabilità, violenza e cura, di Marina Sozzi

Formazione tanatologica e Covid-19. Intervista a Maria Angela Gelati, di Davide Sisto

27 Giugno 2021/2 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Abbiamo intervistato Maria Angela Gelati, che si occupa da diversi anni di formazione nell’ambito della Death Education, con sempre maggiori approfondimenti sul tema della morte e del morire. Nel 2007, insieme a Marco Pipitone ha ideato Il Rumore del Lutto, un’importante rassegna culturale che si svolge ogni anno a Parma e che è finalizzata ad attivare un dialogo profondo e multiforme, culturale e scientifico, per accettare la morte. Nel 2016 ha co-fondato l’Associazione Segnali di Vita e il Gruppo Nazionale di Lavoro Stanza del Silenzio e dei Culti. Ha scritto diversi libri, tra cui due favole per bambini: Mi chiamo Happy(Mursia, 2020) e L’albero della vita (Mursia 2015).

Cara Maria Angela, tenuto conto della tua esperienza decennale, come pensi sia cambiata la formazione degli operatori funebri durante il Covid-19?

La formazione dovrebbe essere un aspetto imprescindibile e preliminare rispetto a qualsiasi tipo di attività, in particolar modo per quanto riguarda la delicata gestione dei servizi funerari. Durante il Covid-19, i limiti dettati dalle disposizioni normative per limitare il contagio, hanno però fortemente condizionato i riti del commiato. Gli operatori funerari hanno avuto spazi temporali molto ridotti per adeguarsi alle repentine chiusure e sospensioni dei passaggi rituali destinati ad accogliere i familiari, con sensibilità e rispetto. La mancanza di queste basilari azioni ha inciso sulle modalità di preparazione del defunto, privato anche del rito della vestizione o di altra cerimonia alternativa. L’impossibilità per i familiari di vedere e toccare il corpo del defunto, perché la bara, per ineludibili motivi sanitari, andava chiusa in fretta, ha determinato una sorta di commiato sospeso, quasi pietrificato.

Il non poter fruire delle consuete forme del rito ha determinato nell’operatore funerario e nel cerimoniere la ricerca di soluzioni alternative, nel pensare a modalità che permettessero di restituire quei tasselli di vita sospesi, attivando una dimensione creativa e sempre più personalizza del rito, in accordo con le esigenze dei familiari.

In questa fase, anche la formazione ha dovuto, per forza di cose, essere adattata a tali esigenze. Prima di tutto, con la preparazione di corsi online, il cui positivo riscontro da parte degli operatori funerari ha consentito di attivare moduli formativi destinati a dare immediata risposta alle esigenze professionali. Poi, con la creazione di schemi rituali, adattabili in base alle necessità dei familiari, e di indicazioni per preparare riti di congedo in streaming.

Un aspetto importante della formazione riguarda i partecipanti ai corsi online, poiché nei contesti di cura, all’interno dei gruppi di lavoro, si è avvertito il bisogno, anche per chi non rivestiva il ruolo di cerimoniere, di riservare uno spazio e un tempo di ripensamento virtuale; una sorta di contenitore rituale in cui far rivivere le esperienze personali per restituire il nome e la storia di vita alle numerose persone morte in condizioni di isolamento e anonimato, per rendere possibile la condivisione in gruppo di riti di congedo.

Collegandomi alla precedente domanda, come pensi sia cambiato in generale, dal tuo punto di vista di tanatologa, il nostro approccio alla morte con il Covid-19 e quali pensi siano stati gli atteggiamenti sociali non adatti, sulla base di una generale impreparazione a pensare alla morte?

Se il rito funebre ha costituito il momento cardine di agevolazione nella fase di accompagnamento del morente, nell’attuale era del Covid-19 la fase di elaborazione del lutto inizia senza un abbraccio, con la solitudine dei familiari, inasprita dall’impossibilità di stare accanto ai familiari ospedalizzati e dove l’assenza dei passaggi fondamentali di un rituale priva del racconto delle storie di vita l’identità delle persone.

I tentativi di far scomparire la morte, di condannarla al vuoto culturale, con conseguenti profondi stravolgimenti, hanno minato l’equilibrio e la stabilità delle cerimonie funebri, già incrinata dalla progressiva crisi dei riti comunitari tradizionali.

Gli aspetti più significativi e, al contempo, impietosi hanno riguardato le circostanze del morire e la perdita di significato e di utilità del rito, una sorta di lutto nel lutto, in cui la separazione dal momento del ricovero ospedaliero, l’imposizione delle distanze, la privazione del funerale dopo il decesso hanno paralizzato il riconoscimento del diritto al lutto.

La mancanza delle fasi rituali di accompagnamento del defunto non inibisce il percorso di elaborazione del lutto, che avviene comunque, anche se il processo inconscio di guarigione della ferita psicologica viene diluito e dilatato nel tempo.

L’abitudine culturale a voler escludere e rimuovere il pensiero della morte dalla quotidianità può comportare vere e proprie manifestazioni di paura, come hanno dimostrato le reazioni alla quarantena da parte dei social network – a volte eccessive e irrazionali. Dare uno spazio più consistente alle attività che fanno parte della Death Education significa anche essere consapevoli della propria mortalità, e quindi preparati a disporre del testamento biologico e digitale.

Se, da un lato, la potenzialità degli strumenti digitali, con l’incremento dei funerali telematici, ha costituito e costituisce un’efficace soluzione a superare la carenza degli aspetti rituali tradizionali, dall’altro, l’utilizzo inadeguato e sconsiderato di questi sistemi potrebbe vanificare il significato della cerimonia, rendendo – qualora si utilizzi lo smartphone o si entri in un social network – una patologica sovrapposizione del passato al presente, riproducendo, in continuazione, il saluto d’addio del rito funebre, e quindi rendendo l’elaborazione del lutto più difficile e faticosa di quanto già non lo sia senza la cerimonia funebre.

Infine, sulla base delle tue pubblicazioni per i bambini, ti chiederei due brevi considerazioni sull’educazione infantile alla morte, specie dopo questa lunga pandemia.

Le ultime generazioni degli adulti sono vissute in ambienti in cui ogni aspetto legato alla morte ed al morire è passato interamente ai protocolli degli ospedali e delle case funerarie, privando l’ambiente familiare di questa particolare esperienza. E come gli adulti, anche i bambini, che non hanno visto morire i nonni, i parenti o i conoscenti, non sono in grado di gestire tali eventi.

Il non sapere cosa fare, anche dal solo punto di vista rituale, quando qualcuno muore, ha attivato stravaganti elaborazioni psicologiche, non realistiche, che non tengono conto dei cambiamenti avvenuti e che continuano a verificarsi: ad esempio quella, assolutamente non veritiera, per la quale i bambini non sono in grado di comprendere che cosa significhi morire e, se avessero anche la capacità di comprenderne gli effetti, ne rimarrebbero traumatizzati.

I bambini, che di fronte all’evento luttuoso sono più in sintonia di quanto non si creda con i sentimenti degli adulti, devono invece essere coinvolti nell’esprimere i pensieri e raccontare i loro ricordi legati alla persona che non è più.

È fondamentale, per l’educatore o l’adulto, per l’operatore rituale e il volontario, introdurre e gestire l’argomento morte sulla base di specifiche competenze. Con il ricorso alla Death Education è possibile introdurre una modalità educativa, organizzata su diversi livelli di apprendimento, con la finalità di reinserire il concetto di morte nella autenticità della vita, insinuando nei bambini, adolescenti e adulti la capacità di comprendere che cosa significa vivere e dover morire.

È stato possibile attivare l’educazione del bambino alla morte, anche on line, laddove docenti di scuola e famiglie siano stati in grado di considerarne il valore e l’efficacia.

In questo periodo di cambiamenti e trasformazioni, il momento personalizzante ha necessità ora di creare, seppur a distanza, le condizioni per convertire in parole ed in azioni il dolore e la sofferenza, anche per i più giovani.

Poiché non esistono modalità particolari di commemorazione, i rituali possono essere resi attivi in qualsiasi momento, anche da casa, individuando lo spazio o l’ambiente più consono per rendere solenne quel momento.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/06/candela-mani-e1624780542382.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-06-27 10:06:452021-06-27 10:08:32Formazione tanatologica e Covid-19. Intervista a Maria Angela Gelati, di Davide Sisto

Specialisti in cure palliative, di Marina Sozzi

11 Agosto 2020/20 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Seppure in ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, l’Italia ha approvato nel 2010 una buona legge sulle cure palliative, la n. 38, la cui importanza è stata ribadita anche con la successiva legge n. 219 del 2017. Oggi, a distanza di dieci anni, ci sono ancora lacune nella sua applicazione. Mancano strutture hospice, soprattutto per patologie non oncologiche, mancano équipe di cure palliative domiciliari in grado di occuparsi di pazienti fragili e non oncologici, ma manca, soprattutto, la cultura palliativa, sia nella medicina territoriale che in ospedale. Ora le cure palliative, a distanza di dieci anni dall’approvazione della legge 38, entrano all’università, diventando una specialità tra le altre da poter scegliere dopo la laurea in medicina.

È una buona notizia? Senz’altro sì. Questo approdo, da molto tempo auspicato, dà alle cure palliative maggiore dignità e importanza, e le sottrae a un perenne destino di cenerentola della medicina. E ci sarà finalmente una ricerca in cure palliative, come in altri paesi europei.

Vorrei però guardare a questo cambiamento dal punto di vista dell’analisi della mentalità. Come possiamo immaginare che cambierà la visione dei medici da un lato, e dei pazienti, dei familiari e dei cittadini in generale dall’altro, quando ci saranno palliativisti formati attraverso una specialità universitaria?

Senz’altro, poco per volta, finirà quell’atteggiamento di ostracismo e resistenza passiva così frequente nei nostri ospedali e tra i medici di famiglia. Forse non accadrà più che un medico ospedaliero, di fronte a una donna sofferente e morente e alla figlia che vorrebbe riportarla a casa e attivare le cure palliative, dica scandalizzato: “lei vuole far morire sua madre”. Forse non accadrà più neppure che una donna piena di dolore, che chieda cure palliative al suo medico di famiglia, si senta rispondere: “Perché? Lei non sta ancora morendo” (episodi che risalgono entrambi a pochi mesi fa).

I medici di medicina generale si abitueranno a inviare i propri pazienti ai palliativisti così come li inviano ad altri specialisti. Smetteranno cioè di pensare che tutto sommato le cure palliative non aggiungano nulla rispetto a quanto essi stessi conoscono e sanno praticare. La modificazione di questo atteggiamento, indotta dall’ufficializzazione accademica, sarà senz’altro fondamentale, sia per far crescere le cure palliative, sia per ampliarne la possibilità di accesso per le persone sofferenti. In modo analogo, in ospedale ci saranno palliativisti che prenderanno in mano le situazioni difficili, dal punto di vista del dolore e della sofferenza. L’esperienza del Covid ha sicuramente impresso un’accelerazione al varo della specialità universitaria.

Una competenza specialistica in cure palliative, benché di grande rilevanza, sembra tuttavia non essere sufficiente. A fronte di specialisti molto più riconosciuti, infatti, vi sarà la stessa ignoranza sulle cure palliative tra tutti gli altri medici. I quali si sentiranno totalmente legittimati a non sapere quello che alcuni loro colleghi studiano in specialità. Il rischio è che tendano a sparire le cure palliative di base e la loro conoscenza diffusa (già carente nel nostro paese), con l’aggravarsi della incompetenza generalizzata della classe medica e infermieristica. Per ovviare a questo problema sarà indispensabile offrire corsi di alfabetizzazione in cure palliative in tutti i setting di cura e per tutti gli operatori sanitari, in ospedale e nelle RSA, senza trascurare i medici di medicina generale.

Non si deve dimenticare che le cure palliative non sono solo uno strumento di controllo del dolore, e più in generale della sofferenza nei pazienti con patologie inguaribili; ma rappresentano anche una filosofia, un’istanza culturale, un modo di guardare alla vita e alla morte. E, da questo punto di vista, sono state una spina nel fianco della biomedicina, portatrici di un atteggiamento critico e talvolta rivoluzionario, che ha contribuito a restituire all’ultimo tratto dell’esistenza i suoi diritti, la sua capacità di rappresentare ancora un momento ricco di vita e addirittura di compimento di un’esperienza biografica. Non c’è solo una medicina palliativa, c’è una cultura, una filosofia palliativa.

Proprio in quest’ottica, i cittadini hanno un’importanza fondamentale. Pensarli come passivi destinatari di cura è profondamente errato. Con l’introduzione degli specialisti in cure palliative, ci sarebbero probabilmente alcuni cambiamenti anche sul versante della popolazione.
Da un lato, la maggior considerazione che deriverebbe ai palliativisti dai colleghi medici potrebbe avere un effetto positivo anche sui cittadini, che smetterebbero di pensare che le cure palliative siano quelle che “non servono a niente”.
Non basta, però. Il rischio per i pazienti e i familiari è di affidarsi ciecamente al palliativista come sovente fanno con altri specialisti, delegando totalmente. Invece, buone cure palliative si fanno “insieme” a pazienti e familiari. Come si diceva sopra, le cure palliative sono qualcosa di più e di diverso da una specialità medica. Anche se istituzionalizzate, penso che non debbano perdere la loro vocazione contestataria. E che occorra continuare a lavorare anche sulla mentalità dei cittadini, per ottenere quel cambiamento nella visione della mortalità e del morire, senza il quale le cure palliative non riusciranno ad acquisire veramente un diritto di cittadinanza.

Siete d’accordo? Che cosa ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/08/medico1-900x444-1-e1597068127206.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-08-11 09:47:572020-10-06 11:38:49Specialisti in cure palliative, di Marina Sozzi

Fianco a fianco ai colleghi, di Silvia Tanzi

23 Marzo 2020/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Riceviamo, e pubblichiamo, grati, la preziosa testimonianza di Silvia Tanzi, medico palliativista dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

Sono un medico esperto in cure palliative, intese in senso moderno: cure palliative, quindi, non solo come accompagnamento alla fine della vita, ma appropriate e puntuali là dove esista una complessità fisica, sociale, psicologica o spirituale in una persona malata di una patologia che mette a rischio la sua vita (e nella sua famiglia). Cure palliative in senso moderno, che fanno della ricerca alimento per la clinica e viceversa. E che fanno della formazione agli altri operatori un loro mandato, per diffondere le competenze in cure palliative e l’integrazione tra gli approcci di cura.

Lavoro insieme alla mia équipe dentro un ospedale, e in questi giorni aiuto i colleghi delle malattie infettive a fronteggiare la sofferenza della situazione legata al coronavirus. Cerco di aiutarli dando loro nel più breve tempo possibile un “distillato” di quelle che sono le mie competenze, affiancandoli nella presa in carico di questi fragili pazienti.

Ci hanno chiamato circa due settimane fa per aiutarli a comunicare ai pazienti e alle loro famiglie quello che stava succedendo, per sostenerli nella complessità delle relazioni e nelle scelte rispetto alle decisioni da prendere, affinché fossero il più appropriate possibili.

Da quella richiesta abbiamo deciso di far parte dei loro tavoli di discussione e rimanere accanto a loro nella clinica di ogni giorno. Siamo quindi di aiuto nella gestione dei sintomi fisici più presenti, come fatica a respirare, agitazione, ansia e depressione, dolore. Siamo accanto a loro nelle comunicazioni difficili dovute alla diagnosi del coronavirus o alla comunicazione di un peggioramento. Siamo accanto a loro per accogliere e supportare le emozioni che i pazienti hanno e che possono lasciar andare solo durante la nostra breve visita giornaliera.

Siamo accanto ai colleghi per creare le connessioni che i pazienti hanno perso con le famiglie, spesso famiglie a casa in quarantena. Siamo accanto ai colleghi per ridare alle persone che curiamo un po’ di dignità: cerchiamo di trasmetterla attraverso i nostri occhi, gli unici che restano visibili malgrado i dispositivi di protezione.

Col Covid-19 la morte è ritornata prepotentemente in ospedale, e obbliga gli operatori ad affrontarla. I pazienti non possono essere dimessi e mandati a casa, anche se destinati a morire. E’ palpabile il senso di impotenza degli operatori, e la disperazione dei familiari a casa. Ci si trova così a riflettere sull’esigenza di fare solo ciò che è realmente importante o, ancor meglio, a capire l’importanza di cose che fino a ieri non sembravano a tutti essenziali: toccare il malato, parlargli con gentilezza, farlo sentire unico, entrare nella stanza, rimandargli uno sguardo profondamente umano e di presenza, telefonare alle famiglie pesando le parole, lasciando spazio alle emozioni, condividendo le nostre con loro, offrendo un supporto che continuerà nel tempo.

Siamo dentro alle stanze, siamo lì. Accanto a loro, con una malattia che ha rotto le asimmetrie tra sano e malato, tra curante e curato, perché entrando in quelle stanze ci mettiamo anche noi a rischio di contrarre la stessa malattia.
Mai ho provato una cosa del genere, perché alla fine io ero sempre il medico: empatico, accogliente, gentile, ma sano. Questa condivisione che annulla le distanze, questa vulnerabilità che ci accomuna, ha fatto sì che ritrovassi la mia serenità, che avevo perduto stando in una situazione più protetta, dentro a un centro oncologico.

Sto imparando il senso del mio lavoro più in questi quindici giorni che negli ultimi quindici anni, perché è come se questa pandemia ci avesse obbligati a selezionare ciò che è realmente importante sapere e fare in cure palliative.
Non ho mai sentito così intensamente come ora, nei quindici minuti di visita completamente “bardata”, l’importanza della relazione di cura, della relazione che cura.
Non ho mai compreso bene come ora l’importanza di offrire trattamenti appropriati, in base alla persona che hai davanti, ai suoi punti di forza e alle sue fragilità.
Non ho mai compreso bene come ora l’importanza di avere competenze non solo cliniche, comunicative e relazionali, ma anche etiche. La padronanza dell’etica, come professionista sanitario, mi permette di compiere scelte e aiutare i miei colleghi a fare altrettanto. Scelte orientate a un’etica non meramente utilitaristica, ma pluralista e bilanciata.  Non accettare acriticamente criteri “oggettivi” e inevitabili valutazioni socio-economiche, aiuta non soltanto nel processo decisionale, ma anche a dare un senso alle scelte che si devono compiere e a ristabilire la relazione di cura, anche quando curare sembra impossibile.

Mai come ora “ho rotto la bolla” come palliativista: questa malattia toglie le certezze date per scontate (salute, lavoro, incontri, sport, passeggiate, scuola), la connessione con la tua famiglia, la sicurezza delle cure gratuite garantite a tutti. Perché la cura non c’è ancora, la si sta studiando; e le persone bisognose sono più numerose di quello che il sistema sanitario può reggere. Entrare nella bolla della stanza isolata, con tutte le competenze che posso portare, con la presenza “compassionate” del mio stare, è forse il regalo migliore che potevo farmi.

La gratitudine che ogni giorno ricevo dai colleghi mi conferma che tutto quanto ho fatto prima non è stata preparazione vana. Alla fine, anche se nessuno avrebbe voluto una situazione del genere, ci siamo resi conto di avere gli strumenti giusti almeno per arginare l’ondata di distruzione.
E’ proprio così che mi ero da sempre immaginata le cure palliative dentro un ospedale: fianco a fianco ai colleghi, ai pazienti e alle famiglie per agire insieme nel portare avanti la vita.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/03/080903_1-e1584910724421.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-03-23 09:16:192020-03-23 09:16:19Fianco a fianco ai colleghi, di Silvia Tanzi

La legge 219 sul Consenso Informato: quali novità? di Marina Sozzi

17 Maggio 2018/9 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

American doctor talking to senior man in surgeryLa legge 219, sul Consenso informato e sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvata alla fine del 2017 ed entrata in vigore a fine gennaio 2018, contiene in sé due innovazioni culturali molto importanti: in questo articolo parliamo della prima (il Consenso informato), e un secondo post sarà dedicato alle DAT.

L’articolo 1 della legge afferma il diritto dei cittadini a conoscere le proprie condizioni di salute e a essere informati in modo completo, aggiornato e comprensibile su diagnosi, prognosi e conseguenze dei trattamenti sanitari consigliati dal medico. Ciò significa che il soggetto delle scelte sulla salute è l’individuo malato, con i suoi familiari e i suoi cari. Non si tratta di un’affermazione scontata o di poco conto. Storicamente, dai tempi della scuola medica di Ippocrate (V secolo a.C.) agli anni Sessanta del Novecento, il rapporto medico-paziente ha seguito un modello paternalistico: la relazione è stata sempre considerata fortemente asimmetrica, così che stabilire cosa fosse bene per il paziente spettava solo al medico. Nel corso dei secoli quasi nulla è mutato. Ancora nei codici deontologici degli anni 70 e 80 del Novecento, si raccomanda di nascondere al paziente la malattia grave, e semmai di comunicare alla famiglia la prognosi infausta. In tale atteggiamento era anche presente l’idea (verrebbe da dire, il pensiero magico) che togliere la speranza della guarigione al malato avrebbe peggiorato le sue condizioni fisiche. Quindi, viva la menzogna (anche diverse correnti all’interno della Chiesa – con l’eccezione di Agostino – ritenevano che tale menzogna a fin di bene non fosse peccato).

Solo molto recentemente il modello paternalistico è stato messo in discussione, e oggi si tende a pensare, erroneamente, che sia tramontato. Ma chiunque di noi abbia dovuto firmare un modulo di consenso informato, per un esame invasivo o un’operazione chirurgica, sa che la propria firma si riduce a mero adempimento burocratico, e raramente comporta un’autentica comunicazione tra medico e paziente.

Sono inoltre disponibili alcuni dati sconcertanti, raccolti negli Usa negli anni 2000, riguardo alla percentuale di verità detta ai pazienti sulla diagnosi (i dati si trovano nel volume di Marzio Barbagli, Fine della vita. Morire in Italia). I medici hanno parlato apertamente della diagnosi al 93% dei pazienti con cancro al seno o alla prostata, ma solo all’84% di quelli con cancro ai polmoni, al 78% dei malati di Parkinson, al 48% di quelli malati di ictus, al 45% degli affetti da Alzheimer, al 27% di quelli che soffrono di altre forme di demenza.

Come leggere questi dati? Se la prognosi si fa infausta, o se si tratta di malattie rispetto alle quali la medicina si sente impotente, come le demenze, la verità viene detta più raramente: non solo sulla prognosi, ma anche sulla diagnosi. E i medici americani hanno ammesso la loro difficoltà nel dire la verità al malato. In Italia, dati come questi non sono neppure raccolti, e non oso immaginare cosa emergerebbe da una tale indagine.

Inutile ricordare anche che nella maggioranza dei casi il consenso informato è oggi un foglio che ha come principale ruolo quello di proteggere il medico da eventuali rivendicazioni legali da parte dei pazienti. Venuto meno il paternalismo, non è stato sostituito da una relazione aperta e sincera tra medico e paziente, dall’auspicata alleanza terapeutica. Anzi. Entrambi sono sulla difensiva, due diffidenze si incrociano. Il paziente teme l’incompetenza del medico, non accetta che la medicina possa fallire, e non è più paziente, ma esigente, come scrive Ivan Cavicchi. E il medico, che da un lato pensa di dover essere onnipotente, e dall’altro sa di poter fallire, cerca di proteggersi da eventuali denunce.

In questa pessima situazione, che fortunatamente ha un certo numero di felici eccezioni, era senz’altro indispensabile una legge che spiegasse bene in cosa consiste il consenso informato, quali sono i diritti dei cittadini e i doveri dei medici. E tuttavia, non possiamo dare un giudizio positivo su questa legge, neppure su questo prezioso articolo 1.

Quando si vuole cambiare una prassi, infatti, non è sufficiente enunciare come dovrebbero andare le cose. Occorre stabilire come fare perché le cose cambino. In questo caso, è indispensabile (la legge lo dice) fare formazione ai medici, affinché imparino a parlare con i loro pazienti, e a comunicare anche le cattive notizie. Affinché i dottori comprendano che la speranza non è necessariamente aspettativa di guarigione, e che i pazienti hanno tanti altri tipi di speranza che possono coltivare, anche alla fine della vita. Affinché i dottori riescano a mettere in gioco anche la loro umanità, la loro umana fragilità, nel parlare con i pazienti (e allora si vedrebbero le denunce contro i medici diminuire vertiginosamente). Il tempo della comunicazione è tempo di cura, recita la legge. Bellissima affermazione di principio, ma come ottenere che entri nella prassi clinica?

Senza un’adeguata e sistematica formazione, non c’è speranza che le cose cambino, se non con enorme lentezza: i tempi lunghi dei cambiamenti spontanei di mentalità.

Ma questa legge non fa nulla per essere motore di cambiamento: non indica quali enti dovrebbero fare formazione, e neppure stanzia denaro, neppure un euro, a tal fine. Neppure auspica che una vasta campagna di informazione sia dedicata ai cittadini e ai pazienti, che continuano a delegare ai medici scelte che non sanno di poter fare in prima persona e che non ritengono di avere la capacità di fare. Peccato. L’ennesimo contentino a chi voleva la legge, l’ennesima occasione perduta.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/05/Depositphotos_86762262_s-2015-e1526502452896.jpg 265 400 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-05-17 09:54:402018-05-17 09:54:40La legge 219 sul Consenso Informato: quali novità? di Marina Sozzi

Vuoi sapere quando scrivo un nuovo articolo?

Iscriviti alla nostra newsletter!

Ultimi articoli

  • Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi
  • Il Network italiano sulla Morte e l’Oblio: un’intervista a Giorgio Scalici, di Cristina Vargas
  • Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi
  • Le app per il lutto: opportunità o rischio? di Davide Sisto
  • La morte nel Buddhismo e la spiritualità nei contesti ospedalieri, di Cristina Vargas

Associazioni, fondazioni ed enti di assistenza

  • Associazione Maria Bianchi
  • Centre for Death and Society
  • Centro ricerche e documentazione in Tanatologia Culturale
  • Cerimonia laica
  • File – Fondazione Italiana di leniterapia
  • Gruppo eventi
  • Soproxi
  • Tutto è vita

Blog

  • Bioetiche
  • Coraggio e Paura, Cristian Riva
  • Il blog di Vidas
  • Pier Luigi Gallucci

Siti

  • Per i bambini e i ragazzi in lutto

Di cosa parlo:

Alzheimer bambini bioetica cadavere cancro cimiteri coronavirus Covid-19 culto dei morti cura cure palliative DAT Death education demenza dolore elaborazione del lutto Eutanasia Facebook felicità fine della vita fine vita formazione funerale hospice living will Lutto memoria morire mortalità Morte morti negazione della morte pandemia paura paura della morte perdita riti funebri rito funebre social network sostegno al lutto suicidio Suicidio assistito testamento biologico tumore vita

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy
  • Copyright © Si può dire morte
  • info@sipuodiremorte.it
  • Un Progetto di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/06/eufemismi.jpg 265 353 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-06-12 10:01:532025-06-12 10:01:53Cosa ci dicono gli eufemismi che usiamo per parlare della morte? di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/congresso.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-30 09:39:452025-06-04 09:32:41Il Network italiano sulla Morte e l’Oblio: un’intervista a Giorgio Scalici, di Cristina Vargas
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/clessidra.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-16 10:59:552025-05-16 10:59:55Abbiamo bisogno di una pedagogia della morte? di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/05/evidenza.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-05-05 10:39:252025-05-05 10:39:25Le app per il lutto: opportunità o rischio? di Davide Sisto
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/04/kisa.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-04-18 10:11:012025-04-18 10:15:55La morte nel Buddhismo e la spiritualità nei contesti ospedalieri, di Cristina Vargas
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/Carl_Wilhelm_Huebner_-_The_Mourning_Widow_1852_-_MeisterDrucke-569456-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-04-02 11:17:302025-04-02 11:17:30Il lutto della vedova, ieri e oggi, di Marina Sozzi
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/foto-evidenza.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-03-24 09:10:252025-03-24 09:11:32Quando la musica e il canto sono al centro del rito funebre, di Cristina Vargas
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/03/reddit.png 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-03-08 09:43:542025-03-07 15:35:21Reddit e le comunità online sul lutto, di Davide Sisto
https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/toscana.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-17 10:55:232025-02-17 10:57:34La legge toscana sul suicidio assistito. Intervista a Francesca Re, di Marina Sozzi
Prec Prec Prec Succ Succ Succ

Scorrere verso l’alto Scorrere verso l’alto Scorrere verso l’alto
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkLeggi di più