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Tag Archivio per: coronavirus

Negazione della morte e Covid-19, di Marina Sozzi e Davide Sisto

30 Giugno 2020/20 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Durante i mesi più oscuri dell’epidemia di Covid-19, ci siamo interrogati più volte su cosa stesse accadendo della negazione della morte che caratterizza la nostra cultura. Da un lato, l’intera popolazione del nostro paese, soprattutto nelle regioni più colpite, è stata investita da un’acuta angoscia di morte, difficilmente ignorabile. Dall’altro lato, abbiamo assistito a diverse manifestazioni di negazione della paura e dell’angoscia, con i concerti sui balconi, così poco in accordo con le sirene delle ambulanze, e con l’hashtag #andràtuttobene.

Ora che l’epidemia ci ha dato un po’ di respiro, gli individui cercano di dimenticare quello che hanno vissuto, ignorando le precauzioni, col rischio di farci nuovamente precipitare in una seconda ondata epidemica in autunno. Pare quindi che non si possa parlare di una maggiore coscienza della mortalità indotta dalla pandemia: come spesso accade, e come sanno coloro che hanno sperimentato il rischio della vita, tale coscienza dura finché il pericolo è attuale. Una più profonda consapevolezza della finitezza richiede un processo di crescita e di riflessione personale che non deriva solo dall’angoscia di morte.

Non stiamo parlando soltanto di gente comune, di giovani che si affollano nei bar per lo spritz serale. Vi sono intellettuali di primissimo piano che hanno dimostrato di mettere in atto raffinati processi di negazione della paura. Caso emblematico, il filosofo Giorgio Agamben, teorico della biopolitica, ossia di quell’insieme di pratiche con le quali la rete dei poteri capitalistici gestisce i corpi e le vite degli individui.

Durante il lockdown, Agamben ha pubblicato numerosi brevi articoli sul sito dell’editore Quodlibet dai titoli emblematici: “Biosicurezza”, “La medicina come religione”, “L’invenzione di un’epidemia”, ecc. Il fulcro teorico di questi articoli consiste nell’evidenziare come la maggior parte dei cittadini italiani abbia accettato supinamente ogni tipo di limitazione della propria libertà – “limitazione decisa con decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato di poter imporre”, scrive Agamben – per evitare un pericolo di natura sanitaria. Addirittura, il filosofo italiano definisce “frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate” le misure di emergenza adottate per questa “supposta epidemia”. Egli è convinto che il comportamento comunemente adottato nel corso del lockdown rispecchi la trasformazione della scienza e della medicina nelle religioni del nostro tempo, le quali riconoscono nella malattia “un dio o un principio maligno […] i cui agenti specifici sono i batteri e i virus” a cui va contrapposto “un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia”. Il 17 marzo ha scritto: «È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.»

Siccome nulla è semplice e lineare, parte del ragionamento di Agamben è vicino a quello che facciamo, anche all’interno di questo blog, sulla necessità di ripensare il ruolo della morte e della malattia nella vita. È vero che la malattia è sovente trasformata in un dio maligno contro cui occorre combattere sempre e in ogni situazione fino allo stremo delle forze, usando le armi della scienza e della medicina; è vero che va sfatato il mito della medicina come onnipotente artefice di guarigione, e che occorre sottoporre a critica alcuni aspetti della biomedicina. Tuttavia, il ragionamento di Agamben ha esiti radicalmente differenti dai nostri, proprio perché, da uomo del Novecento, non riesce a fare i conti con la propria angoscia di morte, non la riconosce come componente ineludibile della stessa vita umana, componente antropologica e non prodotto di una società malata. Non entreremo nel merito della filosofia di Agamben e delle sue riflessioni sulla biopolitica. Ci sembra tuttavia che sia un buon esempio di quanto sia radicata, nella nostra cultura e nel nostro pensiero, la negazione della morte. Viene in mente anche Sartre, peraltro allievo di Heidegger come Agamben, quando scriveva che è impossibile prepararsi alla morte. La morte non fa parte delle possibilità dell’uomo, anzi è ciò che interrompe bruscamente l’arco delle possibilità di ciascuno, ne rappresenta l’annullamento. Sartre scrive che la morte appare come l’assurdo che costeggia e minaccia la vita umana: “Così la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato”.

Queste, che possono sembrare astratte dissertazioni filosofiche, ci servono per comprendere che la negazione della morte, la difficoltà della nostra cultura ad includerla nella vita, ha profonde e complesse radici nella nostra storia, e non credo che possa essere scalfita dall’esperienza del Coronavirus. Piuttosto, la pandemia potrebbe portarci a riflettere sull’esigenza di fare educazione alla morte, fin da bambini, a tutti i cittadini. Insieme all’educazione civica. Perché solo un individuo consapevole della propria finitezza può diventare un cittadino responsabile.

Che ne pensate?

 

 

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Il velo di Maya e il dono della cura, di Davide De Angelis

27 Aprile 2020/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Riceviamo e pubblichiamo con piacere la riflessione del bioeticista Davide De Angelis sulla cura al tempo del Covid-19.

Non rifletteremo mai abbastanza sulla portata etica e sociale delle conseguenze derivanti dall’attuale pandemia di Covid-19. Lo spaesamento in cui siamo precipitati. Lo svuotamento esistenziale in cui siamo stati gettati. Abbandonate le nostre rassicuranti certezze sul ruolo che ricoprivamo, accantonate le nostre quotidiane attività, che un tempo davano senso alle nostre giornate, abbiamo perso la nostra spensierata frenesia: la corsetta mattutina, il caffé con i colleghi, la passeggiata in centro, l’aperitivo con gli amici.

Come tante vittime di un furto spudorato e geniale, ci siamo svegliati attoniti in un mondo surreale e distopico. Colpiti da uno schiaffo improvviso, che ci ha lasciato ammutoliti, dopo l’immediato accesso di rabbia, stiamo mendicando ovunque spiegazioni che nessuno è in grado di fornirci in modo univoco e rassicurante. La scienza balbetta di fronte ad un virus sconosciuto, su cui avanza solo ipotesi, non sempre verosimili; la politica farnetica sulle disposizioni restrittive, così come l’economia ignora le strade più sicure da percorrere, mentre la comunicazione fatica a districarsi tra notizie false, allarmanti o semplicemente frammentarie e inesatte. Ci è stata rubata la certezza. Quella un tempo ostentata in ogni dichiarazione politica o televisiva. E molto altro ancora. Siamo stati defraudati, derubati, vituperati, vilipesi e privati del tempo. Di quello trascorso con i nostri cari, con i compagni di scuola, con i pazienti degli ospedali, con i propri defunti. Un tempo che nessuno ci restituirà, perché molte persone sono scomparse nel silenzio e nell’isolamento, senza nessuno che stringesse loro la mano, senza una cura che fosse innanzitutto tenerezza umana, prima che eminentemente medica.

Altri, confinati in casa, disperano di ritrovare la loro noiosa normalità, scandita dalla spesa al mercato, dalla passeggiata verso la chiesa o dalla visita dei nipotini. Bambini in attesa di compagni di giochi, che saccheggiano i depositi della propria fantasia, i loro giacimenti di creatività, sognando di rincorrersi liberi per i prati. Tempo rubato, ineluttabilmente sottrattoci senza la prospettiva di un termine.

O forse, ciò che è stato trafugato è una cortina invisibile che appannava la nostra vista. Il velo di Maya che offuscava la corretta visione della realtà, rendendo indistinguibile la verità dalla menzogna. Strappato il quale tutto torna nitido. E possiamo finalmente discernere l’essenzialità di alcune professioni, in contrasto con la vacuità dei celebrati influencers e l’inconsistenza delle pseudoteorie circa la fine del lavoro umano; che non solo ora l’organico degli operatori sanitari è inferiore agli standard internazionali richiesti; che oltre alla penuria dei medici ben più grave è quella degli infermieri, il cui rapporto con i pazienti è gravemente più basso dei criteri dettati dall’OMS. Che gli operatori socio sanitari e gli educatori svolgono un silenzioso, ma quanto mai prezioso lavoro ogni giorno, spesso in condizioni di precariato, dimenticati dall’opinione pubblica ed estranei a qualunque riconoscimento sociale.

Professionisti e badanti che in punta di piedi reggono le maglie di un tessuto socio-assistenziale sempre più esposto alla tensione dei traguardi che la medicina si prefigge di realizzare. A volte confliggendo con la delicata e sommessa poetica del gesto di cura, svalutato perché (forse) non quantificabile o riproducibile nell’omologazione in cui si traducono le direttive dell’efficientamento sanitario. La cura rimane quella timida alleata della relazione terapeutica, che ora, di fronte all’incertezza dei risultati e degli scenari futuri, sembra assurgere al piano gerarchico che le spetta. Quei gesti che sembravano trovare un senso solo nell’ambito palliativo, senza i quali una residenza per anziani si trasforma in un lager a pagamento, divengono ora posture solide cui appoggiare il peso dell’intero approccio medico, anche quello intensivista.

Perché accanto alle interpretazioni belliche, che vedono nel virus un nemico da sconfiggere con ogni mezzo e arma, emergono con sommesso orgoglio altre ermeneutiche che ricercano nella volontà missionaria la loro forza. Curare è una missione, ossia un mandato, accettato e condiviso, da chi se ne assume l’onere, con la propria professionalità. Ma è anche una missione, in quanto luogo comune in cui assisterci e accudirci vicendevolmente. Per un fine alto e nobile. Non esiste cura autentica che non sia di sé e di chi ci contorna, indistintamente. La cura non sceglie, la cura accoglie. Ecco perché questa non è la nostra guerra, ma la nostra missione. Ecco perché il Covid-19 non potrà rubarci il dono della cura: perché chi dona, non potrà mai essere borseggiato; chi dona si svincola dalle prese dello scippatore, proprio perché si è liberato anzitempo di un bene, che non è più suo, della cui privazione si è arricchito. L’unica ricchezza a prova di furto. L’unico virus da cui merita farsi contagiare.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/04/293fd2e31c-e1587978377571.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-04-27 11:12:152020-04-27 11:12:15Il velo di Maya e il dono della cura, di Davide De Angelis

“NOI denunceremo”: Facebook come supporto emotivo e archivio storico, di Davide Sisto

20 Aprile 2020/8 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Negli ultimi giorni, su Facebook, l’attenzione generale degli utenti si è concentrata sul gruppo pubblico denominato “NOI denunceremo”. Leggendo le informazioni relative al gruppo, si comprende che la sua nascita è finalizzata a dare visibilità a tutte quelle persone che sono morte in Lombardia, a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. L’obiettivo ultimo è offrire uno spazio pubblico alle storie dei singoli malati, di modo che i loro parenti possano palesare le proprie emozioni e i propri pensieri, anche tenendo conto del fatto di non aver potuto celebrare il rito funebre a causa dell’emergenza. Gli iscritti superano attualmente le trentaduemila unità e ogni giorno sono decine le narrazioni delle vicende personali che si sommano l’una all’altra. In queste narrazioni vengono raccontate nei minimi dettagli tanto l’evoluzione della malattia, dai primi innocui sintomi fino alla morte del malato, quanto le modalità – spesso ritenute inopportune – adottate dagli operatori sanitari durante le varie tappe del contagio. Chi ha il coraggio di addentrarsi all’interno di questo gruppo si ritrova completamente immerso nelle tragedie biografiche di persone appartenenti, perlopiù, alla terza età. Ogni storia è arricchita non solo da una o più immagini dei morti, ma anche dai loro tag, di modo che il lettore possa entrare nel loro profilo Facebook, oltre che interagire nei commenti sotto i post pubblicati. Addirittura, ci sono alcuni utenti che hanno condiviso nel gruppo le registrazioni delle video-chiamate d’addio, l’unica forma di comunicazione consentita tra i malati – isolati e intubati nei reparti di terapia intensiva – e i propri parenti.

L’intenzione degli amministratori è, infine, quella di creare un’associazione vera e propria, gettando un ponte tra la dimensione online e quella offline. Il gruppo “NOI denunceremo”, a prescindere dalla sua principale finalità, sembra a primo acchito la versione italiana del noto sito MyDeathSpace. Via di mezzo tra un cimitero virtuale e un’enciclopedia dei morti, MyDeathSpace raccoglie e archivia da diversi anni le vicende che hanno determinato la morte delle persone comuni, associando a ciascuna di loro una fotografia e il collegamento ipertestuale ai profili social utilizzati. In tal modo, chi entra nel sito viene poi stimolato a osservare con attenzione la vita trascorsa online dai defunti.

Tuttavia, a differenza di MyDeathSpace, il gruppo lombardo si concentra esclusivamente sulle vicende relative al Coronavirus. Rappresenta, pertanto, un prezioso punto di ritrovo virtuale per chi ha vissuto o sta vivendo lo stesso tipo di dolore e di lutto. Lo dimostrano il numero sostanzioso di like che ogni racconto riceve e i tantissimi commenti che seguono. Questi, in particolare, palesano – con enorme trasporto emotivo – la partecipazione collettiva al dolore individuale e a volte approfondiscono le vicende narrate, inserendo particolari tecnici relativi ai ricoveri e al contesto in cui si è sviluppata la malattia. Ci sono, poi, utenti di Facebook che, non vivendo in Lombardia, decidono comunque di comunicare la propria solidarietà per sottolineare, simbolicamente, il fatto che tutta l’Italia si sente coinvolta dal dramma vissuto in quella specifica regione del Nord. Chi si limita invece a leggere, senza intervenire, ha modo di constatare in prima persona le motivazioni dell’emergenza sanitaria, mettendo così in discussione i propri eventuali pregiudizi o ridimensionando l’errato distacco da una epidemia che sente lontana da sé (solo perché vive, per esempio, a centinaia di km di distanza dalle zone più colpite).

Ora, se nel presente “Noi denunceremo” risulta essere un escamotage digitale per aggirare le regole del distanziamento sociale, generando uno strettissimo e partecipato abbraccio collettivo, nel futuro – quindi, una volta che l’attuale incubo sarà superato una volta per tutte – diventerà un utile archivio digitale delle memorie di una comunità letteralmente devastata dal Covid-19. Gli strazianti racconti dei sopravvissuti, plasmati dai post scritti e dalle immagini audiovisive, e i documenti degli ultimi istanti di vita dei contagiati, rappresentati dalle registrazioni delle video-chiamate d’addio, costituiranno – volenti o nolenti – la testimonianza più autentica degli eventi di un periodo storico temporalmente circoscritto. Al punto che molti utenti di Facebook ritengono necessario archiviare in più modalità possibili questo materiale, di modo che non vada perduto nell’eventualità di una rimozione forzata del gruppo o, più in là nel tempo, della chiusura della creatura di Zuckerberg.

Al di là di qualsivoglia considerazione, un gruppo come “Noi denunceremo” porta alla luce le tante opportunità offerte dai social network in epoche complesse come quella che stiamo vivendo. Innanzitutto, l’opportunità data ai diretti interessati di raccontare, di sfogarsi e dunque di denunciare, trovando un benefico supporto collettivo, latente nella dimensione offline. In secondo luogo, l’opportunità data a chi non è coinvolto direttamente di prendere coscienza dell’entità della tragedia in corso, sviluppando così – almeno, si spera – una maggiore responsabilità individuale e una più marcata solidarietà collettiva. Infine, l’opportunità offerta agli storici di disporre di un sostanzioso insieme di documenti, a partire dal quale ricostruire con lucidità e oggettività i fatti di questo terribile 2020.

Quali sono le vostre opinioni in merito? Pensate anche voi che i social network oggi possano svolgere un ruolo importante per affrontare il Covid-19? Attendiamo le vostre testimonianze.

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Il lutto soffocato dal Coronavirus: cosa fare? di Nicola Ferrari

9 Aprile 2020/7 Commenti/in Aiuto al lutto/da sipuodiremorte

Solitamente questo blog pubblica solo testi originali, scritti per  “Si può dire morte”. Tuttavia, per l’importanza e l’utilità di questa riflessione sul lutto di Nicola Ferrari, abbiamo deciso di pubblicarlo anche qui, nonostante  si trovi sul sito dell’associazione Maria Bianchi.

“È stato ricoverato d’urgenza e da allora non ci ha più visto, non ha sentito le nostre voci, non ha più sentito la nostra forza. E quando è morto me lo hanno detto con una chiamata, al cellulare, neanche ti possono guardare negli occhi. Ho richiamato il dottore una, due, dieci volte perché volevo sapere cosa ha detto, cosa ha fatto prima di morire. Come sono stati gli ultimi momenti? Quali sono state le sue ultime parole? Mi hanno detto che voleva andare a casa, che voleva noi, voleva solo noi, cercava sempre noi.”

Questa testimonianza è solo una delle tante che in queste settimane si possono trovare in rete e sui giornali e molte altre ne compariranno prossimamente. A tutt’oggi ci sono circa 17.600 decessi in Italia e 72.700 nel mondo: calcolando che in molti Stati l’epidemia è solo a livello iniziale, quante famiglie nel giro di pochi mesi saranno in lutto?
Quante società sportive, gruppi di vario tipo, colleghi di lavoro, amici d’infanzia, comunità religiose e laiche si troveranno senza uno di loro? È del tutto realistico pensare a cifre con sei zeri.

E tutta questa immane quantità di persone in lutto si ritroverà accomunata da un’esperienza molto simile: non aver potuto stare accanto a chi stava morendo, non avergli fatto sentire l’amore, il sostegno, l’amicizia; non essere riuscito ad ascoltarlo, a farsi vedere, ad abbracciarlo, aver vissuto la consapevolezza ora dopo ora che il decesso di chi amo sta arrivando ed essere costretto a restare lontano, a casa, impotente e incapace.

Ma non finisce qui: perché poi c’è la vestizione del corpo, che non si può fare, non lo si può preparare con dignità e cura e poi c’è la salma che non si può vedere perché la bara va chiusa in fretta per motivi sanitari e poi c’è il funerale che non c’è: non c’è il rito, non c’è il saluto, non c’è il piangere con chi è disperato come me, non c’è il sentirsi parte di una piccola comunità o di una grande famiglia. Non c’è la possibilità di sapere che sei seppellito dove ti spetta di stare ma, molto spesso, ammucchiato dove c’è posto, insieme ad altri anonimi defunti. E pure se si è tra quelli che hanno un posto dove andare a ricordare o pregare chi hai perso, non lo puoi nemmeno vedere da lontano.
– Ha finito di soffrire – è la consolazione di chi rimane. E ovunque collochiamo il nostro caro, probabile che sia così.
Per lui.
Non per chi rimane, non per chi l’ha amato o gli ha voluto bene, non per chi lo stimava, lo desiderava o anche solo lo sopportava e lo accettava così, come era, come lui faceva con noi. Cosa accade allora a chi resta?

Dinamiche del lutto da Coronavirus

Nei tempi immediatamente successivi al decesso, come stiamo constatando dal nostro osservatorio tramite i contatti che ci arrivano, nei parenti-famigliari-amici di chi è morto per Coronavirus si manifestano:

–  un intenso senso di colpa (avrei potuto cercare di vederlo, potevo pensare di fargli avere un cellulare per comunicare, dovevo mandargli un messaggio tramite un infermiere o un dottore…);

–  sensazione di sconforto dovuta al pensiero di avere mancato, di avere fallito umanamente nei confronti di chi è morto (non sono stato in grado di dirti che sono qui con te, di proteggerti, di consolarti);

–  pensieri frequentissimi, a volte snervanti e molto acuti, fortemente deprimenti e carichi di angoscia perché riferiti in maniera continua a ricostruire o immaginare come la persona deceduta avrà vissuto gli ultimi giorni (cosa avrà pensato? Come si sarà sentito restando da solo?);

– ira e rabbia per il senso di ingiustizia che si prova dovuto proprio alla causa della morte (non è giusto che mio padre sia morto così, non si può morire di qualcosa che non si vede, di un virus che arriva da lontano, non è possibile morire perché la scienza non trova un vaccino…).

E poi ci saranno, di certo più complesse da decifrare ed affrontare, tutte le conseguenze nei tempi più lunghi, quando l’emergenza finirà e si potrà tornare ad una graduale normalità: con le bare già interrate, sarà possibile svolgere un ‘secondo’ funerale? E se non lo sarà, come si può salutare chi amiamo senza la ritualità confortante e aggregante che da sempre genera un funerale religioso o civile?

Quanto inciderà la gioia di poterci riabbracciare, essere liberi e uscire, il desiderio di riprendere quegli impegni che almeno un po’ ci avvicinano alla vita di prima, con il dolore e lo strazio represso di dover andare, settimane dopo il decesso, nella casa del papà, del nonno, nell’incontrare i parenti del nostro amico o collega defunto, nello svolgere le pratiche burocratiche ineliminabili?

Si vivrà un secondo lutto condiviso ed espresso, dopo il primo chiuso e quasi totalmente taciuto?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che emergono; molti altri ne appariranno presumibilmente con il protrarsi dell’isolamento e con la modificazione di alcune variabili (la questione economica, ad esempio, sarà uno di quegli aspetti della vita dei prossimi mesi che inevitabilmente creerà ripercussioni a vari livelli, così come la durata del periodo di chiusura lavorativa e distanziamento sociale e la maggior o minore capacità della gente di riattivare forme di coesione sociale sul territorio).

Ma se di fronte a queste e altre difficoltà, quello che possiamo fare è al massimo ipotizzarle e prepararci ad intercettarle se si manifesteranno, tanto invece si può ora mettere in campo.

Cosa fare adesso?

Ossigenare il lutto.
Infondergli l’aria, quella stessa che passa attraverso i bocchettoni, i tubi, il casco che vedevamo solo nei film strappalacrime e che ora sono il simbolo della guerra in corso.

Bisogna creare le condizioni perché lo strazio di questo lutto soffocato possa respirare a pieni polmoni: il dolore che si narra, che ha pieno diritto di cittadinanza quando trova luoghi, persone, momenti per essere raccontato e accolto da altri, diminuisce, nell’immediato, la sua carica angosciante, permettendo un iniziale senso di maggior sollievo e minore solitudine; se questo processo narrativo si riesce a proseguirlo e a condividerlo con altri nella mia stessa situazione, diventa allora possibile continuare a ricordare il proprio caro, o almeno iniziare a farlo, e a recuperare il suo lascito esistenziale (vero obbiettivo di un percorso rielaborativo) nonostante l’isolamento in casa, l’impossibilità di svolgere il funerale, di incontrarsi con altri parenti o amici affranti.

Le possibilità sono varie, oltre a quelle più evidenti e utilizzate spontaneamente che si riferiscono cioè all’uso della rete, dei social, dei cellulari e di tutto quello che può essere utilizzato per creare contatti:

–  individuare un tempo preciso durante la giornata da dedicare a chi abbiamo perso. Può essere un momento anche breve, magari ripetuto più di una volta durante le settimane ma è importante, soprattutto se non si è in casa da soli, che sia concordato, preparato, atteso. Un momento specifico, apposta solo per te che non ci sei più, che definisce una pausa nella quotidianità imposta e che sottolinea che ora niente è più importante di te;

–  preparare lo spazio nel quale staremo per ricordarti: non c’è bisogno di nulla di complesso, servono segni che rendano questo luogo intimo, dedicato, rispettoso. Può bastare una candela, una diversa disposizione delle sedie, la ricerca di una luce calda, una semplice attenzione e novità per terra, appesa al muro, sul divano, nel tavolino;

–  narrare quello che si prova: a voce alta, ognuno agli altri ma anche senza suono alcuno, sapendo comunque che tutti sappiamo che stiamo raccontando. Riempire di parole il dolore, farlo emergere, dettagliarlo, permettere che la sofferenza interna acquisisca forma e caratteristiche perché tutto ciò che si nomina, se le parole usate sono cor-rispondenti a ciò che viviamo interiormente, si può affrontare, diventa contemporaneamente dentro e fuori di noi. Oppure si può scrivere (ma il processo è identico): messaggi brevi e lettere lunghe, anche queste da condividere tra i presenti, da leggere a voce alta o da passarsi l’un l’altro in silenzio o da tenere gelosamente tutte per sé;

–  mantenere viva la memoria del nostro caro e ricordare l’intera sua vita, non solo l’ultimo periodo di malattia, per evitare proprio che questa fase finale si fissi in noi diventando totalizzante, dominante e invasiva; chi abbiamo perso era una persona che ha il diritto di non essere ricordata solo per lo strazio degli ultimi suoi giorni perché la sua esistenza è stata assolutamente più ricca e significativa. Aiutarci quindi a ripensarlo come era pienamente: la sua personalità, le sue passioni, i doni e i limiti, i momenti indimenticabili, i viaggi, il cibo che amava… Quando è possibile recuperare fotografie o oggetti a lui appartenuti o comunque significativi, utilizzando anche cellulari, eventuali profili in rete, materiale digitale presenti in computer o tablet: l’impatto è spesso molto intenso e coinvolgente e crea una immediata vicinanza e senso di appartenenza fra tutti i presenti;

–  creare rituali, anche semplici, per salutare e ringraziare il defunto: l’accensione di una candela, l’ascolto di una musica, la lettura di una poesia, la libera espressione di ognuno con una frase, la ripetizione di un gesto particolare appartenuto al suo modo di fare, piantare un nuovo fiore, seme o albero se si ha un giardino o dei vasi…;

–  progettare il futuro: una volta finito l’isolamento, ci saranno tante incombenze da svolgere legate al funerale, eredità, casa, altre persone coinvolte…. Decidere insieme come gestire tutto quanto come modo da un lato per ‘continuare’ la vita e dall’altro per testimoniare concretamente l’amore per chi abbiamo perso prendendoci cura di tutte le conseguenze.

“Voleva noi, voleva solo noi, cercava sempre noi” è la testimonianza inserita all’inizio, ma che corrisponde all’esperienza che hanno avuto migliaia di persone in riferimento ad un loro caro deceduto da solo in ospedale.

E anche se non ho potuto esserci, se non ci sono state le condizioni oggettive per restare con te, tenerti la mano, farti sentire il mio amore e la mia vicinanza concreta, posso dirlo ugualmente anche adesso: “sono qui, sono qui per te, sono sempre qui.”

Lo posso fare adesso, anche se non ci sei più, e lo posso dire a testa alta se decido che no, no padre mio, no nonna, no figlio mio: non te andrai da questa terra, non te ne andrai definitivamente da questa terra.
Perché fino a quando sarò vivo, io ti ricorderò.
Dirò a chi ho intorno che persona eri, lo dirò onestamente, senza enfatizzare; e per quel poco che sarò capace di fare, trasmetterò ciò che hai lasciato alla mia vita e a quella di chi ancora amo.

Non è indispensabile uscire di casa per iniziare tutto questo.

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Fianco a fianco ai colleghi, di Silvia Tanzi

23 Marzo 2020/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Riceviamo, e pubblichiamo, grati, la preziosa testimonianza di Silvia Tanzi, medico palliativista dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

Sono un medico esperto in cure palliative, intese in senso moderno: cure palliative, quindi, non solo come accompagnamento alla fine della vita, ma appropriate e puntuali là dove esista una complessità fisica, sociale, psicologica o spirituale in una persona malata di una patologia che mette a rischio la sua vita (e nella sua famiglia). Cure palliative in senso moderno, che fanno della ricerca alimento per la clinica e viceversa. E che fanno della formazione agli altri operatori un loro mandato, per diffondere le competenze in cure palliative e l’integrazione tra gli approcci di cura.

Lavoro insieme alla mia équipe dentro un ospedale, e in questi giorni aiuto i colleghi delle malattie infettive a fronteggiare la sofferenza della situazione legata al coronavirus. Cerco di aiutarli dando loro nel più breve tempo possibile un “distillato” di quelle che sono le mie competenze, affiancandoli nella presa in carico di questi fragili pazienti.

Ci hanno chiamato circa due settimane fa per aiutarli a comunicare ai pazienti e alle loro famiglie quello che stava succedendo, per sostenerli nella complessità delle relazioni e nelle scelte rispetto alle decisioni da prendere, affinché fossero il più appropriate possibili.

Da quella richiesta abbiamo deciso di far parte dei loro tavoli di discussione e rimanere accanto a loro nella clinica di ogni giorno. Siamo quindi di aiuto nella gestione dei sintomi fisici più presenti, come fatica a respirare, agitazione, ansia e depressione, dolore. Siamo accanto a loro nelle comunicazioni difficili dovute alla diagnosi del coronavirus o alla comunicazione di un peggioramento. Siamo accanto a loro per accogliere e supportare le emozioni che i pazienti hanno e che possono lasciar andare solo durante la nostra breve visita giornaliera.

Siamo accanto ai colleghi per creare le connessioni che i pazienti hanno perso con le famiglie, spesso famiglie a casa in quarantena. Siamo accanto ai colleghi per ridare alle persone che curiamo un po’ di dignità: cerchiamo di trasmetterla attraverso i nostri occhi, gli unici che restano visibili malgrado i dispositivi di protezione.

Col Covid-19 la morte è ritornata prepotentemente in ospedale, e obbliga gli operatori ad affrontarla. I pazienti non possono essere dimessi e mandati a casa, anche se destinati a morire. E’ palpabile il senso di impotenza degli operatori, e la disperazione dei familiari a casa. Ci si trova così a riflettere sull’esigenza di fare solo ciò che è realmente importante o, ancor meglio, a capire l’importanza di cose che fino a ieri non sembravano a tutti essenziali: toccare il malato, parlargli con gentilezza, farlo sentire unico, entrare nella stanza, rimandargli uno sguardo profondamente umano e di presenza, telefonare alle famiglie pesando le parole, lasciando spazio alle emozioni, condividendo le nostre con loro, offrendo un supporto che continuerà nel tempo.

Siamo dentro alle stanze, siamo lì. Accanto a loro, con una malattia che ha rotto le asimmetrie tra sano e malato, tra curante e curato, perché entrando in quelle stanze ci mettiamo anche noi a rischio di contrarre la stessa malattia.
Mai ho provato una cosa del genere, perché alla fine io ero sempre il medico: empatico, accogliente, gentile, ma sano. Questa condivisione che annulla le distanze, questa vulnerabilità che ci accomuna, ha fatto sì che ritrovassi la mia serenità, che avevo perduto stando in una situazione più protetta, dentro a un centro oncologico.

Sto imparando il senso del mio lavoro più in questi quindici giorni che negli ultimi quindici anni, perché è come se questa pandemia ci avesse obbligati a selezionare ciò che è realmente importante sapere e fare in cure palliative.
Non ho mai sentito così intensamente come ora, nei quindici minuti di visita completamente “bardata”, l’importanza della relazione di cura, della relazione che cura.
Non ho mai compreso bene come ora l’importanza di offrire trattamenti appropriati, in base alla persona che hai davanti, ai suoi punti di forza e alle sue fragilità.
Non ho mai compreso bene come ora l’importanza di avere competenze non solo cliniche, comunicative e relazionali, ma anche etiche. La padronanza dell’etica, come professionista sanitario, mi permette di compiere scelte e aiutare i miei colleghi a fare altrettanto. Scelte orientate a un’etica non meramente utilitaristica, ma pluralista e bilanciata.  Non accettare acriticamente criteri “oggettivi” e inevitabili valutazioni socio-economiche, aiuta non soltanto nel processo decisionale, ma anche a dare un senso alle scelte che si devono compiere e a ristabilire la relazione di cura, anche quando curare sembra impossibile.

Mai come ora “ho rotto la bolla” come palliativista: questa malattia toglie le certezze date per scontate (salute, lavoro, incontri, sport, passeggiate, scuola), la connessione con la tua famiglia, la sicurezza delle cure gratuite garantite a tutti. Perché la cura non c’è ancora, la si sta studiando; e le persone bisognose sono più numerose di quello che il sistema sanitario può reggere. Entrare nella bolla della stanza isolata, con tutte le competenze che posso portare, con la presenza “compassionate” del mio stare, è forse il regalo migliore che potevo farmi.

La gratitudine che ogni giorno ricevo dai colleghi mi conferma che tutto quanto ho fatto prima non è stata preparazione vana. Alla fine, anche se nessuno avrebbe voluto una situazione del genere, ci siamo resi conto di avere gli strumenti giusti almeno per arginare l’ondata di distruzione.
E’ proprio così che mi ero da sempre immaginata le cure palliative dentro un ospedale: fianco a fianco ai colleghi, ai pazienti e alle famiglie per agire insieme nel portare avanti la vita.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/03/080903_1-e1584910724421.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-03-23 09:16:192020-03-23 09:16:19Fianco a fianco ai colleghi, di Silvia Tanzi

Cure palliative e la giusta distanza al tempo del Covid-19, di Massimiliano Cruciani

20 Marzo 2020/5 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Riceviamo e pubblichiamo con piacere questa riflessione di Massimiliano Cruciani, infermiere di cure palliative e presidente dell’Associazione ZeroK, sulle cure palliative al tempo del coronavirus. Ci auguriamo che altri ci scrivano, e speriamo di dare voce ad altri operatori, che vedono oggi il proprio lavoro e i propri principi messi in crisi dalla dura realtà della pandemia. 

“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. (Arthur Schopenhauer, 1851).

Trovare il giusto equilibrio, in questo momento di difficoltà, è molto complesso e frustrante, per chi lavora in cure palliative, e fa quindi della vicinanza e della presenza una filosofia assistenziale e di vita. Accompagnare, ascoltare e stare, limitando i contatti, può far percepire all’altro un senso di abbandono, di lontananza. In un percorso di cure palliative, il contatto e la vicinanza sono aspetti che fanno la differenza, per la costruzione di una relazione autentica.

Tuttavia, in questo terribile momento, dobbiamo imparare ad esserci anche nell’assenza, o alla giusta distanza, quella che ci permette di non fare e farci del male, rispettando l’altro e rispettando noi stessi. Sarà difficile “saper stare”, ma non c’è soluzione.

Niente saluto, niente ritualità, un freddo arrivederci: tutto questo ci obbligherà a riflettere domani, quando tutto sarà finito. Dovremo riflettere sull’importanza della vicinanza, sul rispetto delle scelte e sulle volontà espresse dalle persone (oggi morire a casa, perché gli ospedali sono i luoghi meno sicuri, non è una scelta, ma una necessità).

I professionisti delle Cure Palliative dovranno coltivare la riflessione su quanto è accaduto, perché abituati a stare in contesti complessi, tra i contrasti e le diverse prospettive di cura, tra la vita e la morte, insomma tra scelte difficili: contesti dove in pochi vogliono stare. Possiamo imparare molto oggi, per migliorarci domani e far sì che una legge, la 38 del 2010, venga rispettata e applicata, e che la legge 219/2017 diventi una certezza e un punto di partenza per una comunità migliore.

Intanto, impariamo ad usare gli occhi, i silenzi e poche parole per stare accanto all’altro: l’ascolto ha bisogno di presenza più di quanto necessiti di vicinanza.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/03/foto-1-e1584701110200.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-03-20 11:57:212020-03-20 11:57:21Cure palliative e la giusta distanza al tempo del Covid-19, di Massimiliano Cruciani

Le cure palliative hanno qualcosa da dire sul coronavirus? Tentativo di riflessione, di Marina Sozzi

17 Marzo 2020/31 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

In questi giorni si teme possa verificarsi un’emergenza tale per cui, per via della carenza di letti di terapia intensiva, si debba operare una scelta su chi salvare. Si pone cioè, in una situazione eccezionale, il tema squisitamente bioetico dell’equità distributiva in sanità, di cui molte volte si disserta astrattamente, ma che stavolta si impone come realtà molto concreta da affrontare. Se non si può provare a salvare tutti, si opta per chi ha più probabilità di farcela, occorre “privilegiare la maggior speranza di vita”. Così recita anche il documento che la società SIARTI (Società di Anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) ha scritto per dare una guida ai medici che devono gestire un’emergenza inedita nel nostro mondo occidentale. E per non lasciarli soli in una decisione etica ardua e delicata, condividendo la responsabilità delle scelte operate. Anche se molti anestesisti hanno rassicurato sulla disponibilità di posti in rianimazione per tutti coloro che potrebbero trarne beneficio, il tema resta sullo sfondo.

Annuncia un cambiamento di mentalità che poco per volta prenderà piede. Daniel Callahan, in un libro che ha fatto il giro del mondo qualche anno fa, La medicina impossibile, aveva già prefigurato (anche senza coronavirus) l’avvento di un momento in cui la domanda di salute sarebbe stata talmente gonfiata da mettere a dura prova i sistemi sanitari dell’Occidente, costringendoli a nuove logiche di giustizia distributiva, e all’accoglimento del senso del limite.

La minore disponibilità di risorse per prolungare la vita deve congiungersi, naturalmente, ad un accompagnamento di qualità alla fine della vita per chi non ha probabilità di trarre un ragionevole beneficio da ulteriori terapie curative. Quindi sono necessarie ottime cure palliative per tutti i cittadini, per tutte le patologie, in tutti i contesti assistenziali. Le cure palliative, come è noto, se applicate in modo generalizzato e corretto, permetterebbero (oltre a tutti gli altri benefici) un consistente risparmio per il nostro sistema sanitario nazionale.

Il diffuso silenzio di questi giorni delle più importanti realtà di cure palliative sul tema dell’attuale pandemia è più che comprensibile. Mai si sono verificate morti meno in linea con i valori della cultura palliativa: chi muore di coronavirus non può avere la vicinanza dei familiari, tenuti giustamente fuori dagli ospedali, non può avere il sostegno dei volontari (che hanno dovuto sospendere il loro impegno), sovente lascia la vita intubato e senza poter salutare i propri cari, né avere il rito funebre che avrebbe desiderato.

Tuttavia, le cure palliative, che sono rimaste senza parole di fronte al coronavirus, lavorano alacremente sulle patologie sulle quali sono abituate a operare, quelle oncologiche e neurodegenerative, sia a domicilio che negli hospice: nonostante le difficoltà, non si sono affatto fermate, e medici, infermieri, psicologi e altri professionisti stanno lavorando in condizioni difficili e pericolose senza risparmiarsi.

Ma c’è qualcosa che potrebbero dire anche sul coronavirus? Secondo me sì, essendo le cure palliative un modello di intervento, e più in generale una cultura e una filosofia, oltre che una specifica competenza della biomedicina. Forse potrebbero dire chiaro e forte che la giustizia distributiva non è uno scandalo, e che l’adozione di criteri sensati di misura, che permettano di valutare il rapporto di costi/ benefici non solo per la sanità, ma anche per la persona, sono sacrosanti. Come diceva Rita Montalcini, occorre aggiungere vita ai giorni, non giorni alla vita.

Inoltre, pur comprendendo lo choc degli operatori di cure palliative per come si sta morendo di coronavirus, si potrebbero dare indicazioni su ciò che si dovrebbe fare, anche in emergenza. Per quanto umanamente possibile, naturalmente, considerando il “frullatore” in cui si trovano gli operatori, con turni massacranti e con la percezione del pericolo che stanno correndo.

In primo luogo, occorrerebbe, a mio modo di vedere, tener presente che non è scontato che tutti vogliano accedere alla ventilazione artificiale. Molti di noi hanno maturato un orrore per le morti intubate.

Qualcuno in questi giorni ha anche impropriamente citato le Disposizioni Anticipate di Trattamento: va precisato che le DAT (che si riferiscono a frangenti in cui la persona che le ha depositate si trovi in stato di incoscienza) non hanno nulla a che fare con la situazione in cui ci si viene a trovare con il virus: condizione in cui le persone, seppure sofferenti, sono lucide e in grado di prendere decisioni qui e ora.

La prima cosa che sarebbe bene poter fare è ragionare con i pazienti sulle loro possibilità di farcela, prima che si aggravino al punto da aver bisogno urgentemente di terapia intensiva. Ossia, permettere loro di dare un vero consenso informato alle cure in generale e alla procedura della ventilazione meccanica in particolare, come richiesto dalla legge 219. Qualcuno potrebbe optare per una rinuncia a cure troppo invasive, specialmente se in mancanza di buone garanzie di successo.

La seconda, fondamentale, è accertarsi che nessuno soffra e nessuno muoia male, garantendo a tutti la sedazione palliativa qualora non sia possibile salvare la vita.

Per gestire l’emergenza senza venir meno al dialogo con il paziente sulla sua salute, certo, occorrerebbe più personale sanitario, e personale preparato anche sul piano della relazione.
Siamo alle solite.
Sono convinta che, una volta finita la pandemia e il conteggio dei contagi e dei morti, quando cominceranno ad emergere le narrazioni di ciò che si è vissuto ed è accaduto, la carenza di formazione comunicativa del personale sanitario diventerà particolarmente evidente.

Allora sarà il momento per svoltare e dare un’importanza cruciale al mutamento che da tempo è necessario in sanità: più cure palliative per tutti, meno accanimento terapeutico (brutta parola, ma che rende ancora l’idea), investimenti più saggi e lungimiranti, e soprattutto molta formazione sul tema della relazione.

Cosa ne pensate? Cosa pensate in particolare del principio di equa distribuzione delle risorse in sanità? Avete informazioni su come si sta affrontando la pandemia dal punto di vista dell’alleviamento della sofferenza? Attendo le vostre opinioni e considerazioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/03/5103156_1705_coronavirus_italia_bollettino_oggi-3-e1584450874461.jpg 264 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-03-17 14:19:582020-03-17 14:19:58Le cure palliative hanno qualcosa da dire sul coronavirus? Tentativo di riflessione, di Marina Sozzi

La morte al tempo del Coronavirus, di Marina Sozzi

6 Marzo 2020/33 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

In questi giorni convulsi, in cui il pericolo di contagio del coronavirus ci lascia sbigottiti, scardina le nostre certezze e mina la sicurezza delle nostre vite, mette a rischio la nostra salute (giovani o vecchi che siamo); in questi giorni in cui, se non siamo accorti, il nostro sistema sanitario nazionale rischia di collassare; in cui la nostra vita sociale e culturale è sospesa, e la nostra economia corre il pericolo di entrare in un lungo periodo recessivo; in cui la paura domina le menti, mi sono chiesta quale contributo potesse dare questo blog, che ha sempre trattato di morte.

La morte è infatti il fantasma che aleggia oggi sopra le nostre città contagiate, ferite e deserte, in modo del tutto inedito per i nostri contemporanei. Cosa aggiungere agli innumerevoli interessanti commenti scritti da giornalisti e scrittori da un mese a questa parte? Non è facile.
Tuttavia, mi pare che non solo abbiamo tutti paura di ammalarci e morire. Ma risulta anche particolarmente inquietante il “come” delle morti che il coronavirus ci mette di fronte.

Un tempo, quando la medicina non aveva strumenti efficaci per combattere gran parte delle patologie, la morte giungeva sovente a causa di malattie acute. Il morire era brutale e sopraggiungeva rapidamente.

La medicina novecentesca, con la sua ricerca sempre più efficace in farmacologia, con la sua sempre più raffinata tecnologia chirurgica e diagnostica, aveva allontanato da noi “la morte improvvisa” da malattie brevi e travolgenti, per la quale si pregava una volta “libera nos Domine”, quella morte che non ci lasciava il tempo di accomiatarci dal mondo e mettere l’anima in pace con Dio.
Oggi le nostre morti sono, nella maggior parte dei casi, morti al rallentatore, che sopraggiungono per malattie croniche e degenerative che ci privano, piano piano, di fette di vita e di autonomia. Morti prevedibili con prognosi lunghe, morti alle quali ci si può, se si vuole (se si desidera andarsene consapevolmente), abituare poco per volta, fino, in alcuni casi, ad essere davvero “sazi di giorni”.

Il coronavirus arriva imprevisto e sbaraglia (oltre a molte altre cose) anche tutto il nostro apparato di pensiero sulla morte, la nostra (mi verrebbe da dire) Death Education. Le cure palliative, l’accompagnamento, l’hospice, il domicilio, la dolcezza, perfino l’essere circondati dai propri cari: tutto quello che ci rassicurava, pur nel triste pensiero di dover un giorno morire, viene meno.

Le morti per coronavirus sono e saranno morti che si consumano in ospedale, forse in terapia intensiva, in isolamento, velocemente, proprio con quei tubi che avevamo attribuito all’accanimento terapeutico e che non volevamo più, nei nostri fine vita. L’idiosincrasia per i tubi, per respirare o per nutrirci, ci aveva portati a volere una legge che ci permettesse di stilare le nostre Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Molti di noi hanno voluto scrivere che non desideravano rianimazione, respirazione artificiale e nutrizione artificiale. E ora sembra che proprio quel rischio incomba nuovamente sulle nostre vite. E ancor peggio: i nostri cari saranno tenuti lontani, per timore del contagio. E, nelle nostre più plumbee rappresentazioni, saremo circondati solo da operatori intabarrati in scafandri protettivi e in probabile burn out da superlavoro.

Non è solo il rischio di stare male e quello di morire, che preoccupa. E’ la quarantena, il cordone sanitario che isola le persone, che separa le famiglie. E’ l’orribile percezione che chiunque può essere un pericolo per noi. E’ l’apprensione per i nostri cari. E’ questo antico apparato di un ossessivo pensiero della morte che avevamo completamente archiviato. Qualcuno, non del tutto a sproposito, ha ricordato la peste del Trecento, o quella del Seicento, anche se la mortalità del Covid-19 è certo molto diversa…. Tuttavia, il memento mori che avevamo messo in soffitta torna prepotente nella nostra quotidianità. Inutile dire che non siamo preparati a confrontarci con una tale invasiva precarietà generalizzata.

Nessuna cultura è mai stata pronta ad accogliere un’epidemia, penso. Manzoni ce lo ha raccontato in modo magistrale. Ma certo nella nostra cultura, anche coloro che non hanno negato il pensiero della morte, anche coloro che erano in grado di prendere in considerazione la propria mortalità in un contesto protetto di accompagnamento palliativo, sono ammutoliti di fronte al Covid-19. Mi includo. Siamo ammutoliti.
E ci riconosciamo fragili e paralizzati dal terrore, nonostante le nostre conoscenze, la nostra medicina, la nostra razionalità occidentale. Mi viene in mente Sartre, che sosteneva che non sia possibile prepararsi alla morte. Diceva che gli uomini sono come prigionieri reclusi nel braccio della morte: sanno di dover essere fucilati, e si preparano per quella morte, salvo poi essere falciati via da un’epidemia di influenza spagnola.
E mi viene in mente anche un altro pensiero. Anche le nostre morti, addolcite e ovattate, sono un incredibile privilegio, uno straordinario esito della nostra cultura. Speriamo di poter presto tornare a pensare alla morte per malattie croniche…

Credo sia utile raccontarci la nostra paura, o ciò che ci passa per la mente di fronte a questo pericolo nuovo. Aspetto i vostri commenti.

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