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Tag Archivio per: cancro

L’oblio oncologico, di Marina Sozzi

7 Gennaio 2024/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Il 7 dicembre 2023 è stata approvata anche in Italia, con l’accordo di tutte le forze politiche, la legge n. 193 sul diritto all’oblio oncologico, «Disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche», ed è entrata in vigore il 2 gennaio 2024.

La legge intende dare una risposta al fenomeno ricorrente per cui, nonostante l’avvenuta guarigione clinica, molte persone che hanno superato un tumore sperimentano discriminazioni nell’esercizio dei propri diritti. Cosa si intende quindi per oblio oncologico? Si tratta del diritto, per chi è stato malato di cancro, di non dover fornire informazioni sull’esperienza pregressa di malattia dopo dieci anni dalla fine delle terapie (qualora non si siano verificate recidive), nella stipulazione di qualunque contratto (assicurativo, bancario, finanziario o di investimento) e in ogni procedimento di selezione o concorso. I dieci anni diventano cinque per quei tumori che insorgono prima dei 21 anni di età.  Parallelamente, è fatto divieto alle altre parti che stipulano il contratto di informarsi con altri mezzi, e quindi di fatto di discriminare le persone che sono state malate di cancro.

L’Aiom (Associazione Italiana Oncologia Medica) e la Fondazione Veronesi stimano che gli ex malati di cancro che potranno beneficiare della nuova tutela siano un milione in Italia.

Ciò significa che queste persone potranno stipulare un’assicurazione sanitaria, chiedere un mutuo, ottenere un prestito, adottare un bambino, o partecipare a un concorso pubblico senza essere tenuti a segnalare l’esperienza di malattia. Sul piano bioetico, l’intento di questa legge è promuovere il rispetto dell’eguaglianza tra tutti i cittadini, riducendo ed eliminando possibili disparità di trattamento, che impediscono ad alcuni di esercitare e godere appieno dei propri diritti fondamentali.

Con l’entrata in vigore della legge si è anche data risposta a una sollecitazione della Commissione europea, che nel febbraio 2022, nell’ambito del Piano Oncologico Europeo, aveva auspicato che tutti gli stati membri si dotassero di una legge sul diritto all’oblio oncologico entro il 2025. La Francia è stata il primo paese ad approvare una norma, nel 2022, e in seguito lo hanno fatto anche Belgio, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e di recente anche la Romania.

Nel nostro paese, a questa legge si è arrivati anche grazie a una campagna lanciata da Fondazione Aiom, con il contributo di buona parte del Terzo Settore che si occupa di malattia oncologica, tra cui LILT, AIL, ANDOS, che hanno utilizzato l’hashtag #iononsonoilmiotumore (che riecheggia il titolo del mio libro sul cancro!), con il quale sono state raccolte più di centomila firme.

La società scientifica degli oncologi (Aiom) ora prevede, inoltre, che, con procedure da definire attraverso un tavolo tecnico del Ministero della Salute, sia possibile istituire tabelle che consentano di ridurre ulteriormente i tempi stabiliti dalla legge in base alla differente patologia oncologica.

Si è trattato di un’importante battaglia di civiltà, tutti affermano, ed è senz’altro vero. Occorre aggiungere che questa legge, come la 219 del 2017 «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», oltre a tutelare dei diritti, ha un profondo significato culturale. È evidente che la legge è divenuta possibile perché la diagnosi di cancro, un tempo considerata una sentenza di morte, grazie agli importanti progressi che sono stati fatti in questo ambito dalla medicina, oggi si riferisce a una malattia che, seppure grave e pericolosa, può guarire. E anche nei casi in cui non sia possibile parlare di guarigione, è una patologia con la quale molti cittadini riescono a convivere per molti anni, con una buona qualità della vita.

Ma questa consapevolezza non è ancora sufficientemente diffusa nella popolazione. Proprio per questo, non possiamo considerare concluso il cammino che ha portato alla legge: occorre la promozione di una nuova “cultura della guarigione”, che divulghi i nuovi risultati terapeutici e offra una nuova interpretazione della patologia.

E’ noto infatti che la mentalità cammini più lentamente delle scoperte scientifiche. Oggi gli oncologi riferiscono di avere problemi non solo a comunicare le cattive notizie, ma anche le buone notizie, perché i pazienti stentano a credere di potersi considerare guariti.

Segno di una mentalità ancorata a vecchie immagini e vecchie metafore: il cancro alieno che invade e colonizza il corpo per succhiargli la linfa e ucciderlo, la gramigna infestante, la cellula pazza. Nel suo bestseller sul cancro del 2007, Anticancro, David Servan-Schreiber aveva scritto che dopo la sua diagnosi di tumore al cervello anche i colleghi medici lo evitavano, come se fosse già morto, un fantasma inquietante, un morto che cammina.

Anche la retorica della lotta, così efficacemente criticata da Michela Murgia nei suoi ultimi mesi di vita, deve essere superata. La dimensione bellica radica proprio l’idea del tumore come nemico esterno, alieno, da combattere in una battaglia all’ultimo sangue. Sappiamo quanta fatica comporti per i malati questa logica, che li spinge nell’arena, proprio quando avrebbero bisogno di trovare la pace necessaria per conciliarsi con l’esperienza di malattia. E quanto comporti il rischio di colpevolizzare chi muore, che può essere visto come colui che non ha combattuto abbastanza.

Le leggi a volte anticipano, a volte rilevano i cambiamenti sociali e culturali in corso. Questa legge in parte prende atto dei progressi scientifici avvenuti, in parte induce a ripensare le interpretazioni del tumore e i modi in cui ne parliamo socialmente.

Quindi richiede, affinché possa essere davvero applicata, un grande lavoro culturale, che probabilmente sarà portato avanti nel paese, come sempre, dal Terzo Settore.

Cosa ne pensate? Come avete preso l’approvazione della legge sull’oblio oncologico? Quali pensieri ha sollecitato in voi?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/01/diritto-all-oblio-e1704639422761.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-01-07 16:01:382024-01-07 16:01:39L’oblio oncologico, di Marina Sozzi

Una malattia o una guerra? di Marina Sozzi

12 Febbraio 2023/12 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Ancora troppo frequentemente, quando si parla di malattie che mettono a rischio la vita, e soprattutto del cancro, si sentono da più parti incoraggiamenti alla lotta, alla guerra, al coraggio, al braccio di ferro con la malattia-intruso.

Se c’è un richiamo così ampio, così socialmente diffuso al combattimento, è perché il cancro viene sentito, ancora ai nostri giorni, come una minaccia terribile, che richiede una mobilitazione generale. Genera inquietudine in tutti. Nei pazienti, naturalmente, che scoprono la precarietà della vita in generale, e la fragilità della loro in particolare; nei familiari, che li amano, e sono a loro legati o attaccati, o da loro dipendenti; negli oncologi, per l’imprevedibilità frequente del decorso della malattia e per il tasso ancora alto di fallimenti della medicina; in tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri e operatori socio-sanitari, che lavorano in un reparto oncologico o in un Day Hospital, e che non possono ignorare di essere anch’essi vulnerabili al cancro, che colpisce trasversalmente le persone più differenti, con storie e abitudini di vita diverse.

Di fronte all’inquietudine, la risposta più rassicurante è quella della battaglia all’ultimo sangue. Per questo la rappresentazione del tumore-bestia da battere, unita all’appello alla lotta contro il nemico alieno, è ancora, forse, la più diffusa socialmente, e quella che tiene uniti in un’unica visione pazienti, familiari e medici. Ora, è vero che l’uomo porta con sé un istinto guerriero per la difesa della vita, quello di conservazione, che è il più radicato, e rimonta alla preistoria. Tuttavia, nella richiesta che si fa al malato di tumore di lottare ci sono anche altri significati, meno evidenti.

In primo luogo, il richiamo alla battaglia è strettamente connesso al modello del “buon malato” che, indipendentemente da come il paziente si sente con se stesso, lo rende funzionale al sistema di cure dell’oncologia medica: è il malato che si adegua al contesto di cura, non viceversa.

Se il paziente “è su di morale”, combattivo e ottimista (a volte contro ogni evidenza) è più facile mantenere il controllo dei luoghi di terapia, si possono circoscrivere i dialoghi medico/paziente alla razionalità della cura e alla speranza di guarigione, non si perde tempo a consolare persone che si lasciano andare all’emotività. Resta così fuori dalla porta dell’ospedale, degli ambulatori medici, dei Day Hospital, eccetera, tutta la parte dolente dell’umano minacciato dalla malattia, la solitudine di vite in cui ogni aspetto della quotidianità viene stravolto, dal lavoro alle relazioni affettive.

I medici e gli infermieri non intendono permettere che i pazienti crollino davanti a loro. Di fronte alle lacrime o alla disperazione, non sanno cosa fare o cosa dire, e si sentono a disagio, perché nessuno li ha preparati a tale eventualità. Se possibile, meglio prevenirle. La desertificazione emotiva richiesta ai pazienti oncologici durante le cure, perlomeno in pubblico, garantisce così lo svolgimento ordinato e senza sbavature delle azioni terapeutiche, che, nella loro estrema violenza sui corpi, proprio ai corpi, oggettivati dalla medicina, devono restare confinate. Qualora si potesse menzionare la violenza insita nelle cure, necessaria ma pur sempre terribile, la loro somiglianza con la tortura, potremmo dire che l’oncologia medica ha saputo umanizzarsi, e raggiungere la consapevolezza di sé.

Inoltre, dobbiamo chiederci: questo modo di affrontare la malattia grave è efficace? E soprattutto, cosa ne pensano i pazienti?

Nel 2020 l’associazione inglese di sostegno ai pazienti oncologici Macmillan Cancer Support ha condotto un’indagine su duemila persone ammalate, chiedendo loro di narrare la propria percezione di come il cancro è raccontato, sia nei mass media, sia dalle persone che li circondano, medici, amici e familiari. La maggioranza di loro ha affermato di essere stanca delle metafore belliche usate per parlare della loro malattia. Tuttavia, dall’indagine inglese pare che la comunità dei malati sia divisa su questo punto: alcuni si riconoscono nel linguaggio militare, e affermano che considerare il cancro come una sfida da vincere sia stato per loro un modo per prendere consapevolezza dell’accaduto e per sostenere la fatica delle cure. E’ normale che, quando una visione del mondo (in questo caso della malattia) sia molto condivisa socialmente, le persone vi aderiscano, la facciano propria.

Sono interessanti, però, i molti che hanno parlato del loro disappunto a sentir parlare di battaglie da vincere, segno che nella mentalità dominante si stanno producendo alcune crepe.

Le metafore guerresche hanno seri effetti collaterali: se colui che guarisce è visto come qualcuno che ha combattuto, che ha vinto, e in ultima istanza come un eroe, colui che muore può essere interpretato come qualcuno che non ha lottato abbastanza, che non ha avuto abbastanza voglia di vivere, in una parola un perdente.

Implicitamente, siamo di fronte a una colpevolizzazione della vittima, che viene svalutata in quanto non ha saputo reggere la sfida.

Tuttavia, la visione del malato di cancro come un guerriero sta venendo sostituita, lentamente (come sempre accade nei cambiamenti di mentalità) da altre interpretazioni. Mi viene in mente Gianluca Vialli, che ha definito il suo cancro “un compagno di viaggio indesiderato”, e ha affermato che non intendeva “combattere”, perché sarebbe stata una lotta impari.

VIDAS, uno dei principali enti non profit italiani che si occupa di cure palliative, sul suo sito dà alcuni suggerimenti ai familiari e agli amici dei malati, esaminando alcune frasi da non dire. Tra queste, “Coraggio, non mollare” e “Devi essere forte”.

La prima non deve essere mai pronunciata. Infatti, “in questa frase il desiderio di incoraggiare diventa involontariamente un’attribuzione di responsabilità, come se l’esito della “battaglia” dipendesse dalla forza di volontà di chi si è ammalato.  Arriva un momento, prima o poi, in cui invece quella persona ha bisogno di sentirsi autorizzata proprio da chi ama a “mollare”, a lasciare che la malattia faccia il suo corso, senza sentirsi in colpa per aver gettato la spugna.”.

E la seconda è inopportuna perché il malato deve poter manifestare ed esprimere la propria fragilità, e ad essere forti (e di sostegno) devono piuttosto essere coloro che si prendono cura di lui ogni giorno.

L’inopportunità del discorso bellico sul tumore si accompagna, per fortuna, anche a un miglioramento e cambiamento delle terapie. Poco per volta, su molte forme di tumore le cure diventano meno invasive, più efficaci, e la metafora della guerra sempre più inadeguata.

Che ne pensate? Voi usate le metafore belliche per parlare del cancro? Vi ci ritrovate? Ritenete che si possa costruire una nuova narrazione dell’esperienza della malattia?

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I “cancer blogger”: raccontare il tumore all’interno dei social network, di Davide Sisto

11 Ottobre 2019/7 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La rivoluzione digitale in corso, che ha trasformato la nostra vita quotidiana soprattutto a partire dalla nascita di Facebook il 4 febbraio 2004, non ha risparmiato il tema della malattia. Da qualche anno, infatti, si è diffuso il fenomeno dei cosiddetti “cancer blogger”, coloro che sentono il bisogno di condividere sui social network e nei blog online la propria esperienza quotidiana con la malattia tumorale. Chi preferisce raccontare la propria malattia tramite i video apre un canale personale su YouTube; chi invece vuole privilegiare le immagini fotografiche utilizza il suo profilo su Instagram; chi, infine, punta maggiormente sulle riflessioni scritte si serve del suo account Facebook. In tutti i tre casi, il più delle volte integrati gli uni con gli altri, si crea una narrazione composta da parole, fotografie e video per mezzo della quale il malato diventa una specie di influencer, con un seguito di followers molto numeroso che “fa rete” – letteralmente – attorno a lui e alla sua malattia.

Tra i tanti esempi, uno mi ha colpito in particolare: quello della pagina Facebook chiamata “Anime Belle di Teresa Calvano – #FuckCancer”. La pagina è stata gestita da questa ragazza trentenne di Andria, la quale ha raccontato per tre anni la sua quotidianità con l’osteosarcoma. Seguita da oltre ventimila persone – le “anime belle” – fino all’istante della sua morte, la ragazza ha condiviso pensieri personali, video e immagini di sé in cui è raffigurata mentre indossa foulard colorati che coprono i segni della chemioterapia. Nel corso degli anni, ha creato l’iniziativa “(T)urban wave”, vale a dire una serie di turbanti colorati femminili, adatti nei periodi della chemioterapia, che la ragazza ha deciso di donare ai reparti oncologici italiani. Nel suo ultimo video, a Capodanno, fa gli auguri alle sue “anime belle”, menzionando la sua condizione di salute precaria. Nei primi giorni del 2019 una parente dà la notizia della sua morte, ringraziando tutti coloro che hanno seguito la pagina in questi tre anni, offrendo il loro supporto “virtuale” tramite i commenti sotto i post. Da questo momento, la pagina Facebook di Teresa cambia connotazione: da narrazione autobiografica a punto di riferimento per tutti coloro che vivono o hanno vissuto la stessa esperienza tumorale. I familiari continuano a produrre e a distribuire foulard colorati, supportando le associazioni contro i tumori. E, inoltre, hanno dato vita a serate a tema dedicate alla memoria di Teresa, durante le quali psicologi e medici discutono delle malattie tumorali, le pazienti sottoposte a chemioterapia sfilano con i foulard colorati e ha luogo l’iniziativa “Beautiful Women in Oncology”, con make up artist a disposizione delle donne malate.

Questo è un esempio positivo, a mio avviso, di integrazione tra la dimensione online e quella offline. All’interno dei social network ogni malato si identifica con il messaggio che comunica e veicola verso gli altri. L’assenza della fisicità e l’impossibilità di usare il corpo per dare visibilità alle sue emozioni rende ciò che comunica – messaggi scritti e orali, fotografie, video – il suo corpo digitale. Soggetto e oggetto della narrazione, egli  può mettere da parte l’imbarazzo provato nella dimensione offline, in cui il corpo – mostrando i segni della malattia – genera quella condizione di distanza e di isolamento che aumenta la sofferenza del malato. La disinibizione, dovuta alla protezione e alla distanza offerte dagli schermi digitali, rende più facile raccontare i contorni della propria malattia in maniera esplicita. E, dunque, permette di “normalizzarla”. Inoltre, determina effetti concreti nella dimensione offline, come dimostra Teresa Caivano.
Addirittura, al funerale  del trentatreenne inglese Daniel Edward Thomas (che ha raccontato il suo tumore tramite centinaia di video su YouTube),  sono accorse decine e decine di persone le quali, pur non conoscendolo nel mondo offline, lo hanno seguito per anni in quello online, sentendosi – quindi – coinvolti.

Ovviamente, non mancano le criticità: l’assenza della presenza fisica può favorire comportamenti superficiali e irrispettosi nei confronti del malato che si espone. Inoltre, vi è il concreto rischio di confondere la realtà della malattia con la sua rappresentazione, se non si è in grado di attribuire il corretto significato alle immagini e ai video condivisi. Tuttavia, mi chiedo: se a chi soffre per una grave malattia fa bene condividere sui social network le sue sensazioni, creando una piccola comunità attorno a lui, perché essere critici o eccessivamente dubbiosi nei confronti di questa inedita pratica?

Qual è la vostra opinione in merito? Come sempre, siamo molto curiosi.

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/10/Depositphotos_76358643_s-2019-e1570782677791.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-10-11 10:39:232019-10-11 10:39:23I “cancer blogger”: raccontare il tumore all’interno dei social network, di Davide Sisto

Il cancro. Parte seconda

8 Giugno 2015/16 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici, benché sia lungi da me l’idea di intrattenervi e tediarvi sul tema del mio cancro, vorrei darvi ancora un’informazione, fare con voi una riflessione, e rivolgervi una domanda. Poi Si può dire morte parlerà d’altro.
Come prima cosa, però, voglio ringraziarvi tutti infinitamente per la vostra vicinanza, che mi ha fatto molto bene. Avrei voluto farlo individualmente, ma non ne ho l’energia, siete troppi!
Ciò che mi sta ancora a cuore dirvi, è che ho pensato di trasformare il mio cancro in un’avventura, oltre che personale, intellettuale.

L’informazione. Questa malattia è ancora troppo oscura, inquietante e indicibile: non a caso, dopo l’articolo di Vera Schiavazzi dedicato a me su Repubblica, il giornalista Mimmo Càndito ha sentito l’esigenza di parlare del suo tumore al polmone sulla Stampa (e vorrei ringraziarlo). Prima di ammalarmi, mai avrei pensato che ci fosse ancora una così grande difficoltà a dire “ho un cancro”, e solo ora capisco la riuscita pubblicità dell’AIRC: la parola “incurabile” è tramutata nella parola “curabile”, mentre il prefisso “in” si sgretola a colpi di piccone.
Credo quindi possa essere utile analizzare la malattia (che per molti è ancora sinonimo di sentenza di morte) da un punto di vista sociale e culturale: come ci rappresentiamo socialmente il cancro? Cosa accade a noi, ai nostri familiari, ai nostri amici, quando viene formulata la diagnosi? Come affrontiamo le terapie? Abbiamo fiducia nella medicina ufficiale? Rimettiamo in discussione le nostre vite?
Ho così cominciato a leggere e prendere appunti per costruire una nuova ricerca.

La riflessione. Inoltre se il cancro non è un’invasione di alieni, se è qualcosa che il mio corpo ha prodotto, vorrei capire se è vero che la mia mente è stata solidale con le cellule “impazzite” e non col mio sistema immunitario, e perché.
La medicina psicosomatica parla da decenni di un’insorgenza multifattoriale del tumore (che deve dunque anche tener conto delle variabili psicologiche e sociali): e io ho percepito di non essere stata una vittima della malattia, ma un agente. Il mio corpo mi ha probabilmente dato un avvertimento, un segnale d’allarme, con il sintomo cancro. Certo non c’è evidenza scientifica che sia così, ma l’ipotesi non può essere scartata. Potrebbe essere, il cancro, anche (certo non solo) una richiesta d’aiuto del nostro corpo bistrattato? Del nostro corpo che ci richiede di svoltare? Di crescere, di risolvere i conflitti interiori, di smetterla di scappare?
Io sono diventata adulta imparando a dare un peso preponderante alla mia parte razionale. Ma non ho tralasciato qualcosa? E le emozioni che ho trascurato, negato, occultato, potrebbero aver preso una via di sfogo somatica (per dirla in soldoni)?
In una cultura del “dover essere”, del dover stare sempre bene, sempre in forma, sempre positivi, sempre sorridenti, sempre dinamici, sempre “in carriera”, l’oblio delle emozioni potrebbe non riguardare solo me. Anzi, la presbiopia emozionale sembra essere un problema diffuso. Volgiamo sdegnosamente lo sguardo dall’altra parte quando qualcosa può farci male o metterci in crisi. Ma che effetto ci fanno queste molteplici negazioni?

La domanda che vorrei farvi è: siete d’accordo con la visione psicosomatica del tumore, per cui quest’ultimo ha una pluralità di cause, tra cui un’importante dimensione psicologica? O pensate piuttosto che il cancro sia una malattia “biologica”, che arriva casualmente all’uno o all’altro? O altro ancora? Mi aiutate? Tutto quello che vorrete dirmi sarà un importante materiale per la mia ricerca sul cancro. Grazie!

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/06/mente-e-corpo.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-06-08 10:34:242015-06-08 10:34:24Il cancro. Parte seconda

Ho un cancro, si può dire

19 Maggio 2015/51 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Ho un cancro, per la seconda volta nella mia vita. Ci sono tre ragioni per cui desidero parlarne con voi, miei lettori. La prima è che questo è uno spazio di condivisione, e lo è anche e in primo luogo per me che l’ho voluto e creato.
La seconda ragione è che, malgrado i notevoli progressi della medicina nella cura e nella cronicizzazione dei tumori, la parola “cancro” è ancora per molti indicibile. Allora io, anche un po’ provocatoriamente, lo dico a tutti, e registro mentalmente le reazioni: poi prendo appunti e rifletto. Sono anche piuttosto incongruente. Metto la parrucca, e racconto a chiunque che si tratta di una parrucca. D’altra parte, chi è immune da contraddizioni?
La terza ragione per cui vi parlo del mio cancro, è che sento di essere chiamata a rispondere a un interrogativo che mi sono posta molte volte a partire dal 5 febbraio, giorno in cui mi è stato diagnosticato un carcinoma mammario, inoperabile perché all’interno della cassa toracica, coi contorni non ben definiti, e molto vicino al cuore. L’interrogativo è: nel momento in cui ho a che fare col mio tumore, mi sono serviti questi vent’anni di studi e riflessioni sulla morte? Me lo sono chiesto perché, se la risposta fosse stata negativa, per coerenza avrei dovuto cambiare mestiere, chiudere questo blog e scusarmi con voi per avervi importunati.
Per rassicurare quelli tra voi che mi conoscono e mi vogliono bene, la prognosi è buona. Tuttavia, come mi era accaduto la prima volta, a trentacinque anni, avere un tumore mi ha fatta sentire nuda, imbelle di fronte alla fragilità e alla mortalità, che si manifestano potenti, non parole ma verità inscritte nella carne.
Come lo vivo, dunque, questo cancro?
Intanto, dopo brevi momenti di fuga e negazione e altri di paura (in tutto una decina di giorni), ho scelto di accompagnarlo e osservarlo, questo tumore, senza coincidere con il mio cancro (come giustamente ha detto Emma Bonino di sé), ma senza sottovalutarlo. Mi curo e intanto penso che questa situazione della mia vita abbia di sicuro qualcosa da insegnarmi. Stare in ascolto, affinare l’attenzione, mi permette di sentirmi sempre pienamente viva.
Non percepisco questo tumore come un “nemico” esterno. Chi mi incita alla battaglia e al coraggio, alla lotta e alla resistenza, non trova eco in me. Sono grata a tutti coloro che mi fanno forza, perché comprendo le loro affettuose intenzioni. Io però non ho il proposito di combattere, ma di fare qualche passo verso una maggiore consapevolezza. Questa malattia è parte di me, in qualche misura forse è esito del mio modo di stare al mondo. Sono le mie cellule a essersi moltiplicate male, è il mio sistema immunitario che non è stato reattivo, non c’è stata un’invasione di alieni!
In questo momento (vedremo se riuscirò a mantenere questa disposizione d’animo) ho il desiderio di dilatare la mia sensibilità e la mia ricerca spirituale, che so essere interminabile, mai conclusa. Un giorno si cresce in saggezza, e il giorno dopo quei risultati sono già messi a dura prova, e procediamo da gamberi…
La mia personale ricerca ha per me il profumo dell’espansione vitale, dell’adempimento (anche se sempre parziale): così, finora, nutrita da questa dilatazione del cuore e della mente, mi sveglio sempre di buon umore, addirittura gioiosa, anche quando devo andare a fare la chemioterapia.
Un’ultima considerazione, per oggi. Molte persone malate, tra quelle che incontro in ospedale, si chiedono continuamente: «Perché a me? Cosa ho fatto di male?». So bene che questa domanda non corrisponde al pensiero: «sarebbe stato meglio se il cancro avesse colpito il mio vicino!». Non si tratta di una posizione amorale. E’ però, mi pare, la sensazione di essere sprofondati, di colpo, nel buio, di aver perso l’orientamento consueto delle giornate. Allora sorgono i quesiti sul destino e sulla provvidenza, sulla giustizia e l’ingiustizia metafisicamente intese.
Chi però già sapeva di essere vulnerabile, non entra nell’oscurità e non scomoda il fato. Ho incontrato anche molte persone straordinarie, che elaborando il significato della malattia nella loro vita sono davvero diventate migliori.
Vi parlerò ancora di questa mia esperienza, ma c’è qualcuno che ha voglia di dire come l’ha attraversata o la sta attraversando, o come l’hanno attraversata persone a lui care?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/05/elefanti-copia-e1432030625782.png 261 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-05-19 12:26:262015-05-19 12:26:26Ho un cancro, si può dire

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