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Tag Archivio per: cadavere

Un fenomeno chiamato Caitlin Doughty: la curiosità per la morte, di Marina Sozzi

7 Maggio 2018/11 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Caitlin e il libroC’è un “fenomeno”, negli Stati Uniti, che si chiama Caitlin Doughty. Dico fenomeno nel senso etimologico del termine: un evento, un’apparizione, che nella nostra cultura ha un significato non banale. Caitlin è una giovane donna laureata in storia medievale, nata nel 1984 alle isole Haway, bruna, solare, robusta, con un sorriso aperto, che vive a Los Angeles. Il suo primo libro l’ha scritto a trent’anni, nel 2014. Sto parlando di una studiosa, ma piuttosto atipica.

Tutti i bambini, qualsiasi cosa credano i loro genitori in merito, pensano alla morte e ne sono affascinati e curiosi. Caitlin però ebbe un’esperienza traumatica legata alla morte, a soli otto anni: in un centro commerciale dove si era recata coi genitori, vide una bambina precipitare dal secondo piano, cadere a faccia in avanti su un bancone laminato e morire sul colpo. I genitori di Caitlin non furono in grado di aiutarla a elaborare quel trauma.

Fu così che Caitlin dovette cavarsela da sé, e scelse di affrontare la morte da vicino, andando a lavorare a ventitré anni in un’impresa di pompe funebri con annesso crematorio, a ritirare, preparare e bruciare cadaveri. Quest’esperienza l’ha portata a contatto con il morire nella sua cruda e materiale espressione, e il suo libro è traboccante di immagini e dettagli piuttosto macabri, dove si narra (ma con pietas, senza alcun compiacimento) l’aspetto che ha un cadavere e come avviene la sua decomposizione. Intanto Caitlin non ha smesso di studiare, e accanto all’esperienza concreta troviamo nel suo scritto la profonda conoscenza della storia della morte di Ariès, delle artes moriendi e delle danze macabre, delle considerazioni sulla “pornografia” della morte del sociologo inglese Gorer, della critica di Jessica Mitford sull’usanza americana di imbalsamare i cadaveri, e di molti altri testi, classici o meno, sulla morte nella nostra cultura.

La combinazione dei due fattori, l’esperienza da un lato e il sapere dall’altro, fanno di Caitlin una miscela unica. La sua consapevolezza di come la negazione della morte sia uno dei problemi più seri dell’occidente contemporaneo non si trasforma in moralistico appunto critico, ma diviene scopo militante della sua vita: Caitlin ha fondato a Los Angeles un’impresa funebre non profit, e non perde occasione per opporsi alla pratica dell’imbalsamazione chimica (pratica tradizionale negli Stati Uniti, ma che non rispetta i corpi morti e non permette ai familiari di entrare in contatto con la realtà della morte).

Da brava americana, Caitlin non è diventata seriosa, trattando del tema della morte, anzi. Ha creato una serie di video youtube educativi, ironici e spassosi allo stesso tempo, intitolati Ask a Mortician (e Mortician è appunto, negli Stati Uniti, l’impresario di pompe funebri). Guardatene uno, tanto per farvi un’idea, ad esempio quello in cui spiega come si fa a tenere chiusa la bocca di un morto.

“I video – mi scrive Doughty in un’intervista che le ho fatto via mail – sono stati visti quasi 40 milioni di volte, e quasi mezzo milione di persone si è iscritta al canale” (anche io l’ho fatto, e sono stata la 462.776esima persona). “E’ stupefacente pensare che video che parlano di come cucire una bocca per farla stare chiusa o cosa è accaduto ai corpi delle persone morte nel Titanic siano stati visti così tante volte. Probabilmente è proprio vero che le persone sono affascinate dalla morte, anche se non ritengono educato menzionarla nelle conversazioni. La maggior parte della gente che guarda i miei video – aggiunge Caitlin – sono giovani donne”.

Questa fascinazione è una questione davvero non trascurabile. Noi intellettuali che ci occupiamo della morte assumiamo troppo spesso un atteggiamento austero, considerando di cattivo gusto tutto ciò che richiama troppo da vicino la carnalità della morte. E’ anche questo che Caitlin ci dice, nel suo libro e nei suoi video, e con tutta la sua testimonianza: non disprezziamo l’umana curiosità per i dettagli cadaverici.

“La gente ama i particolari macabri – mi dice Caitlin. “Moriremo tutti, ed è razionale e ragionevole voler sapere che cosa accadrà al tuo corpo. La gente vuole sapere come un corpo si decompone, cosa succede in un forno crematorio, come un corpo si trasforma in cenere. Credo che ci sia un modo di scrivere della morte che non è raccapricciante e disgustoso, ma basato sulla scienza, la storia e la psicologia”.

C’è, infatti, e Caitlin l’ha trovato.

In italiano il libro di Caitlin Doughty, col titolo Fumo negli occhi e altre avventure dal crematorio, è pubblicato dall’editore Carbonio, un giovane editore nato a Milano nel 2016, ma che promette davvero di diventare una pietra miliare di una nuova editoria non conformista e capace di dare un contributo ai problemi del presente.

Che cosa ne pensate del tema della curiosità per la morte e per i dettagli macabri? Avete esperienze da raccontare o riflessioni da proporre? Che effetto vi fa Caitlin Doughty?

Cover FUMO NEGLI OCCHI Caitlin Doughty

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/05/Primo-piano-Caitlin-e1525623924471.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-05-07 14:30:202018-05-07 14:30:20Un fenomeno chiamato Caitlin Doughty: la curiosità per la morte, di Marina Sozzi

Stare in presenza della concretezza della morte, di Marina Sozzi

12 Febbraio 2018/25 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

3d rendering of a cadaver covered

Data la difficoltà culturale della nostra società di fronte alla morte, non stupisce apprendere che gli operatori sanitari (cui abbiamo delegato la gestione della morte) trovino arduo avere a che fare non tanto e non solo con la morte (concetto in fondo astratto), ma con la materialità del morire, con il cadavere.

Freud aveva parlato dell’ambivalenza antropologica dell’uomo di fronte al corpo morto. Da un lato, non credendo inconsciamente alla nostra propria morte, proviamo una sorta di ammirato rispetto di fronte al cadavere, come se il defunto avesse compiuto, morendo, una missione speciale. Dall’altro lato, tale deferenza è frammista di repulsione. Il cadavere è la persona che abbiamo conosciuto e amato, ma è al contempo qualcosa di estraneo, deperibile e pericoloso, un oggetto inquietante, che appartiene al mondo inanimato delle cose. Da questa percezione nasce l’esigenza universale di dare una collocazione al morto, di smaltire il cadavere: nascondendolo alla vista (inscatolato nella bara e sottoterra), trasformandolo col fuoco, o ancora in tutti i vari modi in cui le culture umane ritualizzano la morte.

La paura del morto è una paura ancestrale, che ha interessato tutte le culture, tra cui l’Occidente cristiano. In epoca medievale e moderna era molto diffusa. Il defunto era pensato come qualcuno (i cosiddetti “revenant”) che poteva tornare tra i vivi, e che sovente non era benevolo nei confronti dei sopravvissuti. Per evitare questi indesiderati ritorni si strutturavano rituali e costumi specifici. Tuttavia, la paura del morto, nel passato della cultura europea, coesisteva (ed era quindi mitigata) con un’organizzazione della vita che creava una maggiore familiarità con i morenti e con i morti, fin dall’infanzia. Si moriva in casa, circondati dai parenti, e (fino al Settecento) anche dai vicini di casa, in locali spesso affollati, dove si svolgevano anche le normali azioni della quotidianità. Erano le donne di casa a lavare il cadavere e avvolgerlo nel sudario, che era stato confezionato da loro stesse precedentemente. Si trattava di competenze che venivano trasmesse di generazione in generazione.

Nella lunga storia del rapporto con la materialità della morte nella cultura occidentale, è soprattutto il Novecento a costituire una netta linea di demarcazione. Sovente non vediamo un cadavere fino a che non siamo adulti: per molte e complesse ragioni, la dimestichezza con la morte non appartiene alla nostra civiltà.

Oggi l’orrore che proviamo per il corpo morto è mutato rispetto alle epoche storiche cui accennavamo sopra. Grazie all’atteggiamento maggiormente razionale nei confronti della vita (e per via della secolarizzazione), è minore il timore dell’ostilità del defunto; in compenso, l’assoluta incompetenza su come avvicinarsi, toccare o manipolare un corpo morto tende a sommarsi all’antropologico sentimento di ambivalenza, aumentando le difficoltà e le paure.

Oggi la maggior parte dei decessi avviene in ospedale, ed è la medicina a gestirli. L’ospedale, però, nel frattempo, è divenuto sempre più esplicitamente “azienda”, ancorché sanitaria, con un preciso obiettivo produttivo, il ripristino della salute per il maggior numero. Tra gli obiettivi di un’azienda sanitaria c’è quindi, in modo piuttosto paradossale, il minor numero possibile di morti nel corso dell’anno. Ma la maggior parte delle persone muore ancora in ospedale.

L’istituzione, profondamente contraddittoria, non aiuta quindi il suo personale a conciliarsi con il morire dei pazienti, e la formazione è carente, sia per i medici sia per gli infermieri. L’imbarazzo regna quindi sovrano, non solo di fronte al dolore dei parenti, ma anche di fronte al cadavere. Pensiamo al percorso di un corpo morto all’interno di un ospedale: i luoghi non sono infatti neutri, e neppure le procedure. Quando muore un paziente, è ritenuto un punto d’onore allontanarlo al più presto dal reparto dove è deceduto per dargli una collocazione nelle camere mortuarie. I morti sono trasferiti in algide barelle metalliche con il coperchio, e, qualora possibile, si fa percorrere loro una strada differente rispetto ai corridoi e agli ascensori utilizzati dai pazienti e dai familiari. La morte va nascosta, occultata, deve strisciare rasente i muri di corridoi riservati al personale, per essere portata nei sotterranei, laddove c’è il luogo deputato ad accoglierli, le camere mortuarie, appunto.

La localizzazione delle camere mortuarie ci permette di cogliere il ruolo che esse rivestono nell’ambito delle aziende sanitarie: alla fine di corridoi sotterranei, vicino a magazzini ospedalieri e spesso a cassoni di rifiuti. Come non pensare che forse, inconsapevolmente, anche i corpi dei defunti siano assimilati, nella macchina ospedaliera, a dei rifiuti?

Si tratta di un contesto in cui è difficile pensare che sia possibile accogliere la morte, o costruire momenti rituali, sia per i familiari, sia per gli operatori. Eppure, a mio modo di vedere, è di questo che avremmo bisogno.

Proviamo a riflettere, a non dare per scontate le cose come sono. Quali sono state le vostre esperienze a contatto con la materialità della morte? Avete trovato un modo per mettervi in relazione con il corpo morto di un vostro caro? Come avete vissuto la morte in ospedale o le camere mortuarie? Avete dei suggerimenti da dare, ai familiari, o agli operatori?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/02/Depositphotos_54935251_s-2015.jpg 332 500 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-02-12 11:49:362018-02-12 11:49:36Stare in presenza della concretezza della morte, di Marina Sozzi

La vita nel rito funebre Bororo, di Elisabetta Gatto

28 Settembre 2017/5 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

bororoI riti di morte, oltre alla celebrazione del defunto, sono una risposta all’irrefrenabile pulsione vitale dei vivi. Il rito funebre può, infatti, essere identificato come un rito di passaggio, che celebra la morte come avvenimento di transizione non solo per il defunto, ma anche per i vivi: la morte produce di fatto una crepa all’interno dell’armonia del gruppo sociale, e il rito funebre permette alla comunità di integrarla, di rigenerarsi e di prepararsi all’inizio di un ordine nuovo. Il funerale diviene l’occasione per la comunità di riaffermare, attraverso una socialità più intensa, la propria identità e di mettere in scena nella cornice delle pratiche tradizionali la forza vitale del gruppo.

Tra i Bororo del Mato Grosso, in Brasile, il rito funebre è il più carico di significati simbolici e quello che meglio esprime la loro identità culturale. Quando un Bororo muore, il suo cadavere viene deposto al centro del villaggio in una fossa di circa mezzo metro di profondità e coperto con una foglia di palma. È questa la prima sepoltura, che inaugura un periodo di lutto, osservato per circa tre mesi, durante i quali il tumulo viene bagnato varie volte con acqua e erbe per accelerare il processo di decomposizione della carne. Dopo tre mesi, infatti, vengono riesumate solo le ossa, considerate la parte più duratura del corpo umano, alle quali è riservata una particolare cura: vengono ripulite, dipinte con un pigmento rosso (urucù, anatto), decorate con piume di uccello e poi disposte in una grande cesta funebre dipinta con i colori distintivi del clan del defunto e ornata con la visiera e il pariko, il diadema di penne di pappagallo ara che è simbolo dell’identità bororo, infine deposta fuori dal villaggio. È curioso che gli stessi ornamenti usati dai Bororo per rivestire il teschio del defunto siano usati nel rito di nominazione – un potente rito di vita – al momento della foratura del labbro dei bambini. Il funerale, inoltre, è l’occasione per celebrare un altro rito di passaggio: l’iniziazione dei ragazzi del villaggio. Si intende in questo modo celebrare, insieme alla morte, la rinascita.

Dopo la sepoltura, gli abitanti del villaggio intonano canti accompagnati dal suono del bapo, un sonaglio ricavato da una zucca riempita di semi duri o piccole pietre, e danzano attorno al tumulo, impersonando gli antenati con pitture facciali e ornamenti. Le donne in lutto si strappano i capelli, raccolti poi in una treccia da portare avvolta al braccio sinistro o attorno alla testa come ornamento rituale che attesta la condizione di lutto.

Gli uomini partono per la caccia in onore del defunto. La famiglia in lutto dona al cacciatore più abile la treccia di capelli e un powari, una zucca forata, rivestita di penne di uccello con i colori distintivi del clan del defunto: si crede che il suono che produce sia il canto dello spirito del morto. Con questa consegna il cacciatore riceve l’incarico di vendicare il defunto, uccidendo un giaguaro, ritenuto l’incarnazione dello spirito maligno e la causa di quella morte. Uccisa la belva, il cacciatore ne consegna la pelle alla madre del defunto come risarcimento per la perdita perché la usi come tappeto. Vengono utilizzati come ricompensa rituale anche i denti e le unghie del giaguaro, con cui si realizzano rispettivamente una collana e una corona. L’offerta dell’animale riparatore al clan del defunto assume la funzione di ristabilire i giusti rapporti tra gli uomini.

Negli ultimi tre giorni del rito funebre nella capanna centrale gli uomini del villaggio, indossati gli ornamenti tradizionali, intonano un lungo canto lugubre, cadenzato al suono del bapo.

Un anziano è incaricato di richiamare lo spirito del defunto perché si manifesti un’ultima volta: rivestito con un lungo perizoma di foglie di palma, una cavigliera di unghie di cinghiale, il pariko in testa e un tessuto a larga trama davanti al viso, si dirige danzando verso il cortile del villaggio insieme a un corteo, si avvicina a un fuoco e vi getta tutto ciò che apparteneva al defunto quando era in vita. Si crede infatti che il suo ricordo sarà mantenuto vivo non attraverso ciò che possedeva, ma attraverso i suoi insegnamenti. Vengono poi richiamati gli spiriti della natura: questo è un rituale al quale è concesso solo agli uomini partecipare. Il rito funebre è dunque un tempo collettivo, a cui il gruppo partecipa a difesa di se stesso e della propria continuità.

 

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Quando i corpi dei morti continuano a vivere insieme a noi, di Davide Sisto

9 Dicembre 2016/9 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

images-2Secondo Hans Belting, noto storico dell’arte tedesco, la ragione principale per cui poniamo sulla tomba dei nostri cari una loro fotografia – meglio, la migliore fotografia a nostra disposizione – è la seguente: fornire di un “corpo immortale” la persona deceduta, di modo che i vivi dimentichino in tutta fretta il processo di lenta decomposizione a cui si sottopone il suo “corpo mortale”, oramai privo di vita, dentro la tomba. Quella fotografia, in altre parole, assorbe in sé l’esistenza – perduta – della persona morta, la quale non ne “sente” più il bisogno una volta fermatosi il suo cuore, e ci permette di mentire dolcemente a noi stessi: la nostra mente associa infatti, per sempre, a chi non è più con noi un’immagine serena e solare, piena di vita, tenendo alla larga il pensiero dolorosissimo di quel corpo familiare che, lontano dal nostro sguardo, non può che disfarsi progressivamente. Come, d’altronde, richiede la natura stessa, trasformando il nostro bel fisico in un rifiuto organico. Il ragionamento, lo sapete bene tutti, è di questo tipo: già è lancinante la sofferenza per il distacco, figurarsi cosa vorrebbe dire concentrare la propria attenzione sui processi organici che hanno luogo all’interno della bara.

Molteplici sono le riflessioni che si possono fare, a partire da questa osservazione di Belting, sul nostro rapporto con la morte e, in particolare, con il corpo del morto, soprattutto tenendo conto del ruolo particolarmente complesso che svolge la corporeità in Occidente fin dagli albori dei tempi. Un tema delicato di cui, in futuro, torneremo a parlare su questo blog.

Ciò che, invece, ora mi interessa è porre l’attenzione su un rituale funebre radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati: la cerimonia Ma’nene degli abitanti di Tana Toraja, sull’isola indonesiana di Sulawesi, che può essere tradotta – in modo più o meno corretto – come “la cerimonia della pulizia dei cadaveri”. Ogni tre anni o poco più, a seconda dei villaggi, gli abitanti (sia adulti sia bambini) costruiscono delle scale con il bambù per accedere alle tombe dei loro cari, spesso conservate anche a quindici metri da terra, all’interno di cavità rocciose. Le prelevano, le aprono, sopportano – a fatica – l’odore certo non piacevole che proviene dal loro interno e tirano fuori i cadaveri, ben conservati e mummificati grazie a una particolare soluzione di acqua e formaldeide. Giunti a questo punto, puliscono e lavano con attenzione i corpi, rivestendoli quindi con abiti nuovi, sostituendo i loro occhiali, là dove vi sia la necessità di farlo, e riparando attentamente le loro bare. Quando queste sono eccessivamente marce, le sostituiscono; quando, invece, sono i cadaveri a non essere rimasti intatti, i familiari li avvolgono semplicemente in un telo bianco. Spesso, prima di riseppellirli, li riportano per un po’ di tempo a casa e li mettono in posa, con i loro abiti nuovi e ben pettinati, per farsi fotografare insieme. I vivi con i morti. Una volta consumato il rituale, le tombe vengono nuovamente sigillate e ricollocate all’interno delle cavità rocciose. Vengono sacrificati maiali e bufali indiani per il pranzo e, in seguito, ha luogo una forma tradizionale di combattimento. In attesa di ripetere la cerimonia, trascorsi tre nuovi anni, al punto che gli abitanti di Tana Toraja mettono da parte costantemente le loro ricchezze per potersi permettere il rinnovo del rituale.

Cosa ci insegna la cerimonia Ma’nene? Innanzitutto, che per gli abitanti di Tana Toraja il corpo del defunto non “svanisce” definitivamente, una volta chiusa la bara e sotterrata (va, tra l’altro, specificato che spesso i cadaveri non vengono immediatamente seppelliti ma rimangono per qualche settimana nelle case dei parenti). Ogni tre anni questo corpo ritorna, in qualche modo, a “vivere” in mezzo alle persone che lo hanno amato quando il suo cuore batteva. Non c’è, in altri termini, un muro che separa radicalmente la vita dalla morte, la quale non è intesa come un evento di rottura definitiva. Vi è una continuazione dell’esistenza spirituale tra il prima e il poi, per cui il confine tra vivere e morire è più sfumato e il distacco è meno traumatico rispetto alle tradizioni occidentali. I morti continuano a vivere, perché il decesso è solo un momento di passaggio, da cui nasce una nuova forma di legame con le persone. La morte è sottile sottile, una sfumatura della vita. Come dimostrano simbolicamente le fotografie che immortalano i bambini, a loro totale agio, con i cadaveri dei nonni o dei genitori, vestiti in modo elegante e ricercato.

Provate a ripensare alle osservazioni di Belting: noi proviamo un senso di angoscia così profondo nel vedere con i nostri occhi un corpo senza vita, da non volerlo nemmeno immaginare con la mente. Quasi tutte le pagine giornalistiche che descrivono la cerimonia Ma’nene avvertono prima i lettori: state attenti, il servizio contiene immagini che possono disturbare la vostra sensibilità. Vedere con gli occhi quei cadaveri riesumati e rivestiti, in mezzo a bambini e adulti indonesiani assolutamente a loro agio, per noi è tanto assurdo quanto disturbante.

Credo che abbiamo molto da imparare su come affrontare la morte e su come superare certi traumi legati al pensiero dei corpi che gradualmente si dissolvono. Certo, le nostre tradizioni sono differenti e si rischia di banalizzare l’interpretazione di questi rituali, se ci limitiamo a osservarli dal nostro specifico punto di vista occidentale. Tuttavia, non ritenete anche voi, come me, che questo modo di vivere il corpo del defunto sia tutt’altro che macabro e abbia, invece, un significato educativo e spirituale veramente profondo? Cosa ne pensate?

 

 

 

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Biancaneve e la morte apparente oggi

2 Settembre 2014/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Avete mai riflettuto sul fatto che la bellissima favola dei fratelli Grimm, Biancaneve, è in sostanza la storia di una morte apparente? Biancaneve nella bara trasparente, i nanetti che piangono, e il principe che la risveglia dal sonno della morte con un bacio? Biancaneve è stata scritta, a partire dal folklore popolare della Franconia, nel 1812, in un’epoca in cui il tema della tafofobia (il timore di essere sepolti vivi) era molto presente. Benché il secolo XVIII e XIX abbiano rappresentato l’apice dell’attenzione per il fenomeno della morte apparente, sia nella trattatistica medica che nella letteratura, forse l’inquietudine sul confine tra la vita e la morte non è ancora oggi completamente placata.
Ma cosa alberga dietro la paura? E’ la difficoltà che la medicina ha incontrato nello stabilire un criterio definitivo, univoco e indiscutibile, di definizione della morte, e di identificazione dei segni della morte. Il fatto che la morte sia un processo, e non un interruttore che si spegne, complica le cose.
Paradossalmente, l’avanzare della scienza e degli strumenti di verifica non ha avuto una funzione decisiva nel tranquillizzare gli animi. In epoca premoderna e moderna si metteva una candela sul petto del presunto morto per verificare la presenza del respiro. Era un segno forse manchevole, ma si aveva fiducia nella chiamata divina. Era Dio che stabiliva la vita e la morte, richiamando l’anima a sé, e per l’uomo si trattava soltanto di constatare: Dio non sbaglia.
Da quando, all’incirca alla metà del Settecento, si è cominciato a vedere nella morte un passaggio umano, che riguarda il corpo, e poco per volta il medico è divenuto la figura centrale della “constatazione della morte”, ci si è sentiti più insicuri.
Il medico, uomo come me, può errare. E se dichiara che io sono morto mentre non lo sono ancora? Da questo allarmante interrogativo nasce un profluvio di letteratura: i medici ragionano sulla necessità di attendere l’inizio della putrefazione per seppellire un corpo, e quindi sull’esigenza di stabilire luoghi adeguati di attesa. I letterati narrano storie di presunti cadaveri che si risvegliano grazie a particolari situazioni: il portatore della bara inciampa e il cadavere si sveglia; i ladri aprono la tomba per rubare un anello e salvano il malcapitato sepolto vivo, che torna a bussare alla porta della propria casa… e così via. Inutile ricordare la centralità del tema nella narrativa di Edgar Allan Poe.
Nel Novecento c’è stata una pausa di maggiore serenità tra gli individui, dovuta alla centralità data al criterio cardio-circolatorio, misurabile attraverso un tanatogramma di venti minuti, unito comunque al Regolamento di Polizia Mortuaria che, ieri come oggi, prevedeva che venisse rispettato un dato periodo di osservazione fino alla comparsa di fenomeni tanatologici certi.
Ma con il 1968, e l’introduzione del criterio cerebrale di accertamento della morte, si è rischiato, dal punto di vista della comprensione dell’uomo comune (le discussioni riguardano soprattutto i non specialisti) di ricreare ansie e incertezze. Il “cadavere” tenuto in vita da macchine, il cosiddetto “cadavere a cuor battente”, così fondamentale per la medicina dei trapianti, fatica a essere concepito come tale dai suoi cari. Non è intuitivo pensare come cadavere un corpo che respira, è caldo, e a cui batte il cuore. Ed ecco quindi una nuova paura, quella della “predazione” d’organi, che non è altro che un travestimento della vecchia tafofobia.
Quello che è arduo comprendere, a livello di mentalità, è l’idea processuale della morte. Si entra in un processo di morte, e a un certo punto si può constatare l’irreversibilità di tale processo. Non si tratta di identificare un istante cruciale.
Sul tema della definizione della morte la riflessione socio – culturale non abbonda. Due pietre miliari esistono comunque, anche in Italia: il libro di Carlo Alberto Defanti, Soglie, 2007 (Bollati Boringhieri); e, recentissimo, ampio e avvincente, il volume a cura di Francesco Paolo de Ceglia, Storia della definizione di morte, 2014 (Franco Angeli)
Si tratta di opere di approfondimento, con taglio culturale, per coloro che hanno un interesse per questo tema: l’ampia ricerca coordinata da de Ceglia ha anche il pregio di indagare molte culture, antiche e contemporanee, non solo quella occidentale.
C’è però un aspetto che mi piacerebbe approfondire con una ricerca (chissà, magari in futuro), ed è: noi oggi abbiamo ancora paura di essere sepolti vivi? E in cosa consiste la nostra contemporanea tafofobia? A cosa pensiamo quando proviamo questa inquietudine? Ai nostri organi? Alla possibilità di svegliarci nella tomba, o di percepire dolore nel fuoco durante la cremazione? Alla presunta incompetenza dei sanitari che ci dichiareranno morti? O invece abbiamo una paura completamente nuova e opposta, ossia di essere tenuti artificialmente in vita come cadaveri a cuor battente, a discapito della nostra dignità di essere umani?
Cosa ne pensate?
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https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2014/09/Biancaneve-nella-bara.png 263 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2014-09-02 14:57:022014-09-02 14:57:02Biancaneve e la morte apparente oggi

Cremazioni rituali a Varanasi (India)

5 Dicembre 2012/15 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte


Passeggiando per le contorte anguste e affollatissime viuzze di Godaulia, la parte vecchia della città sacra per gli induisti, Varanasi (Benares), tra botteghe della seta e dei gioielli, venditori di spezie, the e yogurt, templi seminascosti tra le abitazioni, negozi di noce di betel e pasticceri, mucche e motociclette che suonano il clacson per passare facendo lo slalom tra i pedoni, di tanto in tanto si sente risuonare un mantra ripetuto in modo cadenzato, rama nama satya hai, (il nome di Ram è verità). Nessuno si sposta, né interrompe la propria attività o compie alcun gesto, neppure quando, poco dopo, si vede passare un breve corteo di uomini, alcuni dei quali portano sulle spalle una lettiga, su cui giace un cadavere avvolto in coloratissime rilucenti sete, giallo arancio, rosso, oro e argento. I bambini continuano a giocare e gli adulti a occuparsi dei loro affari. I morti vengono portati per la cremazione rituale al Ghat di Manikarnika, il più antico, o a quello più nuovo di Harishchandra, alle spalle del quale esiste anche un moderno crematorio elettrico, poco usato.
Il rito deve svolgersi secondo la tradizione induista, e occorre seguirne scrupolosamente ogni passaggio. Non ho visto nessuno piangere nei luoghi della cremazione, e neppure nei cortei funebri. Ho chiesto come mai al bramino che mi ospitava, e sia lui che la moglie parevano concordare sul fatto che il rito richiede una grande concentrazione, non è il momento per lasciarsi andare al dolore. Avvicinandosi a Manikarnika, l’atmosfera si fa densa e oscura, pare di essere piombati in un aldilà mitologico, tornano in mente le rive dello Stige e i gironi di Dante. S’incontrano venditori di legna, di sacchetti di polvere di legno di sandalo, di burro chiarificato, di serici sudari funerari, di urne di terracotta. L’odore dei corpi bruciati e il fumo nero che si leva dalle pire fa bruciare gli occhi e tossire. Ma qui vita e morte sono strettamente intrecciate, e morire fa parte della quotidianità come vivere, gioire e soffrire. Un paio di volte, nel traffico soffocante e rumoroso della città, ho visto passare, fissato con corde sul tetto di un tuk tuk, tipica vettura pubblica indiana (un’ape a tre ruote gialla e verde, chiusa sopra e aperta ai lati) un cadavere diretto ai crematori, sulla sua lettiga.
In alto, salendo una ripida scala del Ghat Manikarnika, vi è un edificio che conserva un fuoco sempiterno, e sempre alimentato: è da questo fuoco che viene tolta la scintilla con la quale si dà fuoco ai corpi. La legna costa cara, soprattutto quella di sandalo, che generalmente è utilizzata solo per personaggi importanti. Altrimenti, si usano altri tipi di legna, più a buon mercato: l’importante è saper calcolare il peso della legna che occorre per bruciare completamente il corpo, operazione che richiede almeno quattro o cinque ore.

Quando ci si affaccia sul Ghat pare di essere stati trasportati in un tempo antichissimo. Le pire, soprattutto la sera, sono impressionanti, e rivelano parti di corpi scuriti e deformati dal fuoco, mentre colossali mucche nere camminano incuranti nella cenere e nel fango. Accanto, uomini e donne lavano i panni su pietre poste sul Gange. Continuamente arrivano nuovi corpi addobbati e scintillanti, che stanno in attesa del loro turno di cremazione. Quando il corpo arriva al Ghat, per prima cosa viene lavato nel Gange, immergendolo fino alle ginocchia. Poi è adagiato sulla pira, con la testa a nord e i piedi a sud. Parte della legna viene posta sopra al corpo, che viene cosparso di polvere di legno di sandalo, di burro chiarificato, il ghi, e di qualche goccia di acqua del Gange. Il figlio maschio maggiore, che è la persona deputata a condurre il rito, compie cinque giri intorno alla pira e poi l’accende, a partire dai capelli. La testa e il volto del defunto sono scoperti.
Quando la cremazione è terminata, si getta acqua per spegnere il fuoco e il figlio raccoglie le ceneri nell’urna, che poi devono essere restituite al Gange.

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