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Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo

13 Dicembre 2019/14 Commenti/in Riflessioni, Vecchiaia/da sipuodiremorte

Quando si parla di Alzheimer, o più in generale di demenza, una serie di immagini e di emozioni negative si affastellano nella nostra mente: una memoria che sbiadisce e progressivamente si perde nell’oblio, un volto smarrito incapace di riconoscersi nello sguardo dei propri familiari, la perdita lenta e inesorabile dell’autonomia e dell’identità, e tanti altri frammenti disturbanti che la nostra coscienza tende a scacciare e a non voler vedere.

Nel mio lavoro di neuropsicologo mi trovo quotidianamente a interagire non solo con i malati di demenza, ma soprattutto con le persone che se ne prendono cura, e che, oltre a lottare quotidianamente con gli spettri di una vita che va pian piano dissolvendosi, si trovano a dover arginare con la sola forza dei propri strumenti il mare di difficoltà e di impotenza che minaccia di travolgerli; queste persone vengono chiamate ‘caregiver’.
Sin dalla prima seduta, che sia di gruppo o individuale, o persino durante un incontro casuale davanti a un caffè, un caregiver mi pone la fatidica domanda che presto o tardi qualunque neuropsicologo si trova a dover fronteggiare: “cosa devo fare”? e poi ancora: “Quali sono le parole, le mosse ed i comportamenti ‘giusti’?”
La verità è che non esiste una risposta univoca; ogni cervello, e ogni storia che esso racchiude scolpita nei suoi neuroni, porta una costellazione e un marchio unici; di conseguenza elaborare delle soluzioni generali che valgano per tutti gli individui è impossibile.
Tuttavia, anche se non è possibile creare un algoritmo, non è detto che non possiamo farci guidare da buone domande che ci aiutino a non smarrirci nella difficile avventura di diventare un caregiver.
Quando mi trovo davanti un caregiver, le domande che devo pormi per cercare di comprenderne il dolore, e che allo stesso tempo devo cercare di rendere il più possibile familiari ed automatiche nella sua mente sono le seguenti:

Qual è il tuo modo di ‘andare in allarme’?

Nel momento in cui viene percepita la presenza di un altro essere umano in difficoltà attraverso uno dei nostri cinque sensi, nel nostro cervello si attiva un meccanismo di allarme antico e potente che ci spinge a dirigere irresistibilmente la nostra attenzione sulla fonte della sofferenza, lasciando sullo sfondo altri stimoli che sino ad un secondo prima ci sembravano interessanti. Tutti noi abbiamo sperimentato, ad esempio, il senso di urgenza di voltarci verso un bambino che scoppia a piangere mentre siamo sull’autobus.
Il senso di urgenza ci guida come un magnete verso i modi migliori per dare aiuto a chi sta soffrendo, ma risente anche delle nostre esperienze precoci; non tutti abbiamo imparato a gestire allo stesso modo quel suono penetrante dell’allarme che ci scatta dentro di quando in quando.
Alcuni di noi hanno imparato negli anni a silenziarlo, per non venire assordati dalle continue richieste di un ambiente familiare colmo di emergenze pressanti; altri hanno dovuto imparare a riconoscerne anche le frequenze più flebili, appena udibili nelle loro case ovattate da finzioni e cautele genitoriali; altri ancora al minimo suono sobbalzano terrorizzati e immaginano scenari terrificanti che li paralizzano e li rendono incapaci anche solo di pensare.
Quando prendo in carico un caregiver, conoscere il suo modo personale -sedimentato negli anni- di fronteggiare l’allarme mi permette di entrare in risonanza in modo autentico con la sua mente e il suo cuore, e di costruire nel tempo quella che chiamo “manopola di regolazione”, ossia una serie di strategie personalizzate utili a gestire l’intensità del suono emotivo.
L’alleato più prezioso che ci viene in soccorso in questo delicato compito è il corpo; attraverso esercizi mirati e ripetuti, è possibile aumentare il senso di sicurezza e di padronanza, partendo dalle sensazioni fisiche, ottenendo risultati duraturi e che non passano attraverso i canali verbali. Maggiore è la padronanza che un caregiver riesce a ottenere sulle proprie reazioni fisiche in caso di allarme, maggiori saranno le possibilità di agire in modo efficace e senza inutile dispendio di energie.

Qual è il tuo modo di dare aiuto?

La fase dell’allarme è solo la prima di un lungo processo: dopo che il suono si è attutito e il nostro caregiver può nuovamente contare su una maggiore presenza di spirito, un nuovo scenario mentale si apre, e si attiva il sistema atto a percepire i bisogni dell’altro e a preparare il proprio armamentario di accudimento a fornire aiuto.
Anche questo sistema è guidato in parte dalla biologia, e in parte è condizionato dalle esperienze apprese sin dalla tenera età; in altre parole, ciascuno di noi ha lo stesso strumento che possiedono gli altri esseri umani, ma ha imparato a suonare una melodia leggermente diversa e personalizzata.
Continuiamo con gli esempi: alcuni di noi, magari abituati a maneggiare con cura le emozioni per non rischiare di scottarsi troppo, preferiranno dare aiuto “con la testa”, magari cercando per ore la carrozzina tecnologicamente più avanzata, o organizzando i referti di visite e esami in ordine cronologico per facilitare al massimo le visite cui –puntualissimi- accompagneranno il proprio caro.
Altri cercheranno di mantenere un tono di voce più alto e si muoveranno un po’ più in fretta del necessario per cercare di mantenere un ritmo sufficiente a sganciarsi da quel suono fastidioso e continuo. L’ansia li aiuterà ad essere efficienti e non fermarsi, e la loro giornata sarà piena di impegni e preoccupazioni, dalla corsa dallo specialista, telefonando lungo la strada ad una decina di amici per informarli della situazione, fino al pomeriggio, in cui cercheranno di somministrare tutti i farmaci nell’ordine giusto, preoccupandosi di ricontrollare più volte.
Altri ancora si sentiranno confusi; la memoria silenziosa di un genitore a sua volta smarrito spegnerà il loro sistema di orientamento nel mondo, facendoli sentire in balia delle proprie sensazioni, e rendendo loro estremamente difficile prendere decisioni.
La conoscenza della personale modalità di accudire è uno strumento insostituibile per cercare di mantenere il caregiver in una zona di sicurezza, ben protetto sia da un eccessivo prosciugarsi di forze sia da una distanza eccessiva.
Anche in questo caso la conoscenza del proprio corpo costituisce un prezioso alleato; imparare a riconoscere e dare spazio alle sensazioni che il nostro corpo ha imparato a comunicarci in tutte le nostre esperienze di accudimento ci aiuta a mantenere saldo il focus sull’obiettivo di fornire cure adeguate e misurate.

Quale può essere un buon modo per tenerti al sicuro? Quali risorse possiedi?

Il sistema di allarme e quello dell’accudimento operano in modo analogo al termostato che regola la temperatura della nostra casa: una volta raggiunta una condizione ottimale, essi semplicemente si spengono.
Anche noi, quando vediamo che i nostri sforzi hanno risolto un problema, e che la fonte di sofferenza che ci ha attivati si è infine placata, smettiamo di affannarci e percepiamo un piacevole sollievo, insieme a un senso di soddisfazione nel vedere che la situazione si evolve verso uno scenario di tranquillità.
Ad esempio, proviamo a pensare alla tiepida emozione che ci pervade dopo aver consolato un amico in difficoltà, o alla pace che sentiamo nel corpo nel vedere che il nostro bambino smette di piangere dopo che l’abbiamo consolato.
Il problema delle demenze risulta purtroppo evidente prima ancora della fine di questa frase: poiché la condizione di un malato di demenza non è curabile e si aggrava progressivamente, il sollievo di assistere alla guarigione non arriverà mai. Fanno ovviamente eccezione quei momenti in cui un caregiver riesce a rendere più piacevole o confortevole un momento della giornata del proprio caro, e possono essercene davvero tanti. Ma la sostanza rimane la stessa; lo sforzo di accudire sembra non avere fine.
Di solito propongo due strategie ai familiari consumati dallo sforzo di accudimento.
La prima è trovare, elencare e imparare ad accendere le nostre risorse, che possono essere di vari tipi: somatiche, emotive, spirituali, naturali e altre ancora. L’esperienza di accesso alle risorse permette di ricaricare le energie e di contattare la nostra parte di autoguarigione.
La seconda, di gran lunga più importante, è smettere di accudire.
Probabilmente questa frase suonerà come un pugno nello stomaco per molti.
Può sembrare un gioco di parole, ma l’accudimento non è affatto l’unico sistema a nostra disposizione per dare cure; esiste anche un’altra opzione, che è quella della cooperazione. Cooperare significa mettere le proprie forze a disposizione di una squadra per raggiungere un obiettivo comune, ma senza dover compiere in prima persona tutto il lavoro.
Troppe volte i caregiver restano incastrati in una logica di accudimento forsennato e si sostituiscono totalmente ai loro cari nelle incombenze, per quanto piccole, della vita quotidiana; troppo spesso le loro energie vengono spese tutte insieme, e al tempo stesso il malato sviluppa il sospetto – che diventa rapidamente convinzione – di non essere in grado di adempiere a nessuno di quei compiti che vede svolgere con tanta solerzia da chi gli sta accanto.
La convinzione del malato di non essere in grado di portare a termine un compito si trasforma nella rinuncia a provare: la psicologia chiama questo fenomeno ‘impotenza appresa’. Ma un malato che “non ci prova nemmeno” diventa rapidamente un peso maggiore, e richiederà una quantità ancora maggiore di sforzi assistenziali da parte del caregiver: il circolo vizioso che si instaura è tristemente evidente.
Un caregiver cooperante è una persona che accetta di abdicare alla pretesa di essere insostituibile (e non sempre tutti gradiscono questo pensiero) e di delegare al malato una parte del carico – proporzionata alle risorse in suo possesso – per lavorare insieme e ottenere un risultato condiviso.
Questo scenario mentale costituisce la base di una pratica quotidiana in grado di distribuire il carico emotivo fra caregiver, malato, e tutte le persone della rete familiare, amicale e medica che potranno e vorranno essere coinvolte nel gioco di squadra.
Potenziando le abitudini cooperative, il caregiver potrà così conservare le sue preziose riserve di cura per tutte quelle situazioni in cui il malato non potrà partecipare al gioco, aumentando i tempi di ricarica e prevenendo così la temibile sindrome da burn out da accudimento.

Come non smetto mai di ripetere, il caregiver è membro attivo e principale dell’equipe curante; riconoscerlo è facilissimo: è quello senza camice.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/12/Depositphotos_23935969_s-2019-2-e1576074434883.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-12-13 11:30:292019-12-13 11:30:29Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo

I musei aprono le porte a chi ha perso la memoria, di Elisabetta Gatto

23 Ottobre 2017/3 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

images-1Ariosto, Cervantes, Shakespeare hanno narrato la follia come l’altra faccia della mente. Poi il razionalismo illuminista ha voluto isolarla, recintarla, rinchiuderla. Di questa reclusione pagano il fio ancora oggi i malati di Alzheimer, a lungo accomunati alla patologia psichiatrica. E’ così che i malati e i loro caregiver si trovano prigionieri nella propria casa, perché mancano luoghi e competenze per accogliere persone con queste patologie.

Tanto maggior valore hanno quindi le esperienze di inclusione che sono state fatte in vari musei statunitensi ed europei. Si tratta di sperimentazioni di valorizzazione del patrimonio culturale con e per le persone affette da sindrome di Alzheimer e da decadimento cognitivo. Il museo, luogo per eccellenza della conservazione della memoria, apre le porte al pubblico che la memoria l’ha persa. E’ un’opportunità per le persone con demenza, che possono fare esperienza dell’arte e quindi sentirsi maggiormente realizzati nella loro individualità, ed è un’opportunità anche per i musei, che ripensano in tal modo al loro ruolo nella società.

Si tratta di un approccio al museo emotivo e creativo. In arte non ci sono risposte giuste o sbagliate, ma interpretazioni. Questo il presupposto del progetto Meetme al MoMA di New York, che ha proposto di usare le opere d’arte come strumenti per migliorare la qualità di vita e l’umore dei malati e dei loro familiari. I programmi per malati di Alzheimer sono stati pensati in collaborazione con le associazioni che si occupano di Alzheimer, oltre che con gli esperti d’arte, coinvolgendo anche le comunità e gli stessi malati. L’esperienza ha funzionato, tanto che è stata esportata, ad esempio con gli Unforgettable tours offerti a partire dal 2013 dallo Stedelijk Museum di Amsterdam e dal Van Abben Museum di Eindhoven a persone affette da demenza e ai loro caregiver, ora proposti da altri dieci musei nei Paesi Bassi. E sono stati organizzati corsi per insegnare a utilizzare l’arte a operatori sanitari e personale di residenze per anziani.

L’attenzione è posta sulla forza comunicativa dell’arte e su ciò che le persone possono ancora fare: l’esperienza dell’arte non attiva solo la vista e la sfera cognitiva, ma coinvolge il corpo e le emozioni, permette di sperimentare la creatività, sollecita le relazioni tra docenti e partecipanti con demenza, tra gli stessi partecipanti, e tra malati e caregiver (permettendo loro di fruire di piacevoli momenti comuni). L’intento primario di queste iniziative è quello di sollecitare e stimolare i malati, così da rallentare la progressione della malattia e consolidare il mantenimento delle capacità residue. Il museo assume così il ruolo di “dispensatore di cura”, spazio di contenuti ma anche di relazioni: permette infatti la creazione di un contesto di cura non ghettizzato, calato nella comunità, in cui i pazienti non sono più tali, ma persone capaci di allenare abilità sopite e scambiare reciprocamente memorie e narrazioni. La potenzialità della stimolazione delle persone affette da demenza attraverso le opere d’arte è nota da tempo, ma la possibilità di farlo con percorsi appositamente studiati all’interno delle strutture museali è un’acquisizione recente.

In Italia è la regione Toscana a vantare il merito di una reale inclusione di questo pubblico nell’offerta museale: ben quindici musei offrono attività per le persone con demenza e promuovono una cultura dell’accessibilità, che non consiste esclusivamente nell’eliminazione delle barriere architettoniche, ma tiene conto del fatto che anche i danni cognitivi impediscono di fare esperienza del patrimonio culturale in modo tradizionale. Viceversa, mettere la persona al centro (e non l’opera) attiva risorse che trascendono la categoria della malattia. L’interazione con l’opera d’arte permette di restituire alle persone con demenza dignità e ruolo sociale, favorendo lo sviluppo di buone pratiche anche in altri contesti.

Il museo acquista dunque un nuovo valore: non è più solo luogo deputato alla conservazione e all’esposizione, ma diviene dimora che accoglie e include, teatro di sperimentazioni progettuali, serbatoio di arte quale vera risorsa in grado di incidere positivamente sulla qualità della vita di tutti i cittadini.
Che cosa ne pensate? Ritenete importanti queste esperienze? Aderireste con un vostro caro malato di demenza?

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Comunità solidali di fronte alla fragilità, di Marina Sozzi

15 Settembre 2017/6 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

21271030_1474467749310449_5263376865317668614_nSono stata ai primi di settembre all’atteso evento dell’Alzheimer Fest, a Gavirate, sul lago di Varese, dove ho percepito un’inedita atmosfera di inclusione, di accettazione, di rottura dello stigma.

L’inclusione è di fondamentale importanza sia per i malati (che mantengono per intero la sfera delle emozioni, e quindi provano il dolore dell’isolamento e percepiscono l’altrui disagio) sia per i familiari e caregiver, soprattutto donne (che si trovano spesso prigioniere all’interno delle case, nel mondo del malato, che non può essere “portato fuori” per il timore di comportamenti incongrui o inquietanti per gli altri). Benché importante, l’inclusione è veramente ai primi passi nel nostro paese, per molteplici e complesse ragioni: tendiamo a pensare l’uomo come coincidente con la sua razionalità, sulle orme di Cartesio, e quindi il malato di demenza appare come un non-uomo, come un’alterità difficile da approcciare; il vecchio, anche se lucido e presente a se stesso, è marginalizzato in una cultura che esalta la giovinezza e la bellezza fisica, il piacere e il dinamismo: a maggior ragione lo sarà il vecchio malato di demenza; la creatività istituzionale non è il nostro forte, pertanto sono ancora isolate le esperienze di cura dell’Alzheimer fuori dagli schemi finora utilizzati, mentre le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) scoppiano nonostante i loro costi da capogiro, e le famiglie stanno in lista d’attesa per mesi o anni prima di potervi accedere, arrangiandosi nel frattempo.

Val la pena però ricordare alcune buone prassi, nella speranza di sollecitarne di nuove. Oltre all’Alzheimer Fest – dove le famiglie e le associazioni hanno potuto portare i malati, per i quali erano state pensate molte attività da fare insieme alle persone sane, in un’atmosfera che ha saputo essere al contempo seria e festosa – voglio citare i progetti di Dementia Friendly Community. Nel mondo, le “comunità amiche delle persone con demenza”, sono state sostenute da governi, associazioni, imprese ed esercizi commerciali, con l’obiettivo di alzare il livello di consapevolezza pubblica sulla demenza e di ciò che comporta, e offrire supporto e comprensione alle persone che ne soffrono e a coloro che se ne prendono cura. Giappone e Regno Unito hanno fatto da apripista, seguiti da Australia, Canada, India, Indonesia, Irlanda, Olanda, Belgio, Scozia e Sri Lanka. In Italia il progetto pilota è stato avviato dall’Associazione Alzhiemer Italia, e realizzato dal comune lombardo di Abbiategrasso, di 32.000 abitanti, di cui 600 con demenza, seguito dai comuni di Conegliano, Giovinazzo, Scanzorosciate e, grazie al lavoro della Diaconia Valdese (e del Rifugio Carlo Alberto), dalla Val Pellice.

Cosa vuol dire Dementia friendly community? Una comunità solidale è quella in cui le persone con demenza, spesso disorientate e spaventate, sono comprese e rassicurate; in cui i malati sentono di poter ancora partecipare alle attività che hanno sempre fatto parte della loro esistenza (anche solo entrare in un negozio o un bar, andare dal parrucchiere, frequentare un circolo ricreativo), e di poter ancora godere della vita, contando sulla sensibilità dei concittadini, e sulla loro capacità di non discriminarli, anche in virtù della conoscenza della malattia. Per entrare nel novero delle Comunità solidali, dunque, occorre fare progetti di sensibilizzazione e formazione per tutti, dagli esercenti pubblici a insegnanti e alunni delle scuole, dagli operatori sanitari ai semplici cittadini.

Ma perché le persone aderiscono a questi progetti, e accettano di utilizzare il loro tempo per acquisire la capacità di comprendere la malattia, e quindi di essere pazienti ed empatici con malati che hanno perso o stanno perdendo le capacità cognitive? Forse perché, nonostante i valori dominanti nella nostra cultura, ciascuno di noi sente almeno confusamente la propria fragilità umana, e sa che riconoscere la vulnerabilità di altri esseri umani fa paura perché rispecchia la propria, ma è l’unico modo per stare nel mondo in modo consapevole. Cosa ne pensate?

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Essere vecchi, di Marina Sozzi

1 Giugno 2017/16 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Depositphotos_79731798_s-2015Essere, diventare vecchi è oggi, probabilmente, più difficile di quanto non sia mai stato. Sappiamo tutti come mai: abbiamo costruito un mondo, in Occidente ma non solo, che è tutto tranne che un pianeta “per vecchi”. La frammentazione sociale, la svolta tecnologica, i valori del capitalismo avanzato marginalizzano i vecchi, che non producono più, consumano meno e sono meno belli, dinamici e glamour. Non servono neanche più come enciclopedia (con il beneplacito della pubblicità della Mulino Bianco), perché c’è Google.

La vecchiaia è, come tutte le stagioni della vita, un’esperienza complessa, irta di difficoltà ma foriera di molte possibili gratificazioni.

Certo, il corpo non ha più la stessa flessibilità e riflessi della giovinezza, riserva non ancora esperiti fallimenti, rivela molteplici fragilità. All’improvviso ci viene mal di schiena per un movimento banale, ci ammaliamo di malattie gravi, o croniche, che lasciano tracce di sé nella nostra vita. Ci accorgiamo, forse, di avere bisogno più tempo per fare cose in cui anni fa eravamo scattisti, dobbiamo fare i conti con il tempo della vita che si accorcia, dobbiamo elaborare il lutto anticipatorio della nostra morte, abbiamo nostalgia dei nostri anni vigorosi.

Tuttavia, la vecchiaia è anche (se abbiamo un pochino di salute, e una pensione garantita) la stagione della vita in cui ci viene restituito del tempo per noi, per coltivare il meglio di noi; in cui possiamo sperimentare la gioia di veder crescere dei bambini senza l’ansia della nostra passata responsabilità di genitori; in cui esperire il sapore più autentico della vita, aperti al cambiamento, che già comincia con l’uscita dal mondo del lavoro. E’ l’epoca in cui abbiamo accumulato esperienze, e quindi anche il giusto distacco dal mondo per fare le nostre scelte in modo più maturo. La maggior capacità riflessiva, le emozioni attutite, sono una grande risorsa se si accompagnano alla benevolenza, alla generosità, all’indulgenza per le debolezze umane, ferma restando l’indignazione per l’ingiustizia e l’abuso di potere. Ma in una società così anestetizzata da percepire solo le emozioni forti, c’è il rischio che la saggezza della vecchiaia mostri solo il suo aspetto negativo: l’isterilimento della passione e quindi della vita.

Gli anziani sono così, essi stessi, portati dalla svalutazione collettiva a sentirsi inutili e senza valore, assumendo una posizione di rinuncia depressiva che impedisce il godimento dell’appagamento possibile.

Ci chiedono infatti a gran voce di non invecchiare. O meglio, di invecchiare senza invecchiare. Accumulare anni sì, ma senza rughe, senza cedimenti della pelle, senza patologie, senza rallentamenti nell’incedere e nell’articolazione del pensiero. Conosco più di una donna che alla nascita del primo nipote ha avuto, come primo pensiero: “mio Dio, sono vecchia”. Ci siamo spinti collettivamente così oltre nella negazione della vecchiaia, che sento spesso usare l’appellativo di “diversamente giovani” per indicare gli anziani, il massimo del grottesco del politically correct, che la dice lunga: “normale” è essere giovani, essere vecchi è un handicap.

Ma questo diniego feroce della vecchiaia e della mortalità, che si è infiltrato anche nella valutazione delle fasi della nostra esistenza, ci impedisce di chiamare le cose con il loro nome, di restare aderenti alla realtà, e quindi di poterla processare e comprendere, di farla nostra.

Che fare allora?

Dobbiamo resistere, ribellarci, esigere rispetto! Impegnarci a maturare, invecchiando (non solo ageing, ma growing old, per dirla in inglese), cercando ogni giorno di diventare migliori e più consapevoli, cioè più umani. Possiamo provare, invece di lasciarci risucchiare dal senso di inadeguatezza e nostalgia per il tempo trascorso, magari non proprio come avremmo voluto, a utilizzare con intensità quello che resta per capire quale è stato il nostro posto nel mondo; a vivere con accettazione e consapevolezza ogni giorno, ogni ora; a prenderci cura di noi; a coltivare la relazione autentica con gli altri. Come scrive Enrico Cazzaniga in un libro appena uscito sul tema del lutto: “Lasciare che sia quello che sia non significa abbandonarsi passivamente al trascorrere del tempo e degli eventi, ma evitare che l’impotenza ci logori”.

Dobbiamo trasmettere ai giovani – ai quali lasceremo questo mondo non proprio in ottime condizioni – il messaggio che si può accogliere la fase conclusiva della propria storia di vita con saggezza, e passare la staffetta con serenità: consci dell’importanza di questo lascito, e quindi del nostro ruolo e valore.

E’ la più grande rivoluzione che oggi si possa fare. E la può fare ciascuno di noi, ogni giorno.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/06/Depositphotos_9747876_s-2015-1.jpg 333 375 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-06-01 12:00:242017-06-01 12:00:24Essere vecchi, di Marina Sozzi

Cosa fare per i caregiver? di Marina Sozzi

11 Gennaio 2017/7 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Supportive elderly man giving the cup of tea to his sick wife tucked with blanketDi fronte al dilagare della malattia d’Alzheimer, e alle frequenti svariate forme di non autosufficienza che colpiscono i nostri vecchi, non possiamo non interrogarci su cosa possiamo fare. Cosa possiamo fare, innanzitutto, per evitare che l’ultimo tratto di strada della nostra vita si trasformi in una distruzione sistematica della dignità e del significato dell’esistenza di ciascuno di noi, oltre che di ogni piacevolezza del vivere. Dignità e significato che tutti cerchiamo di costruire nel corso degli anni, più o meno consapevolmente, e più o meno efficacemente: ma che sono e restano esposti all’estrema fragilità delle umane cose. Ci chiediamo cosa possiamo fare per evitare, per usare le parole dello psicanalista Secondo Giacobbe, di essere “fetalizzati”, di tornare cioè a essere feti alla fine della vita: l’aspettativa di vita, infatti, non coincide con l’aspettativa di salute, e molti di noi chiudono la propria esistenza di nuovo confinati in un letto, come quando eravamo neonati, privi di potere decisionale e in balia di scelte mediche.

Cosa possiamo fare, inoltre, perché la vita delle persone che amiamo, e che ci amano, non deflagrino, a un certo punto, vuotate di contenuto e di energia, nel tentativo di prendersi cura di genitori, suoceri, zii, coniugi fetalizzati. Oggi la vita dei “caregiver” – come li chiamiamo in inglese, perché in italiano non abbiamo trovato una parola – è a rischio: rischio di infelicità e depressione, ma anche di contrarre, a loro volta, malattie invalidanti o letali. Questi caregiver sono donne, soprattutto. La ricerca Censis 2016 sull’Alzheimer dice che hanno mediamente sessant’anni. Ne ho incontrate molte: donne malate di cancro che curano mariti o genitori con demenza, e che non sanno come fare quando devono affrontare un’operazione chirurgica, o la chemioterapia. Donne che hanno perso il lavoro, le amicizie, il tempo per vivere, e sono confinate, disperate, nelle stesse quattro mura del malato.

Che cosa possiamo fare, allora, posto che è intollerabile lasciare le cose così come sono, abbandonando intere famiglie a solitudini sconfinate, a un tasso di stress che manda in frantumi anche le relazioni familiari che un tempo funzionavano?

Quale modello di cura è possibile, sostenibile, attuabile in tempi brevi?

Si è parlato molto di domiciliarità: curare a casa i malati anziani, che non hanno prospettive di guarigione, ha senso: sia perché è il luogo naturale in cui gli anziani desiderano stare, sia perché contribuisce a tenerli lontani dall’accanimento terapeutico: l’ultima, inutile, operazione chirurgica, che aggiunge sofferenza alla sofferenza, l’ultimo tentativo terapeutico invasivo, assurde alimentazioni artificiali, la ventilazione di un novantenne che sta morendo di Alzheimer. Tuttavia, l’opzione “casa” non deve ricadere interamente sulle famiglie, soprattutto non nell’attuale dimensione di solitudine e indifferenza sociale.

E allora, a quale modello di cura dobbiamo ispirarci?

Abbiamo bisogno di una modalità di cura che sappia fare i conti con il processo del declinare e del morire. E lo abbiamo, non occorre inventare nulla. La medicina, esaminando i propri limiti, ha prodotto la cultura delle cure palliative. I punti di forza delle cure palliative sono in primo luogo il senso del limite e la consapevolezza che occorre lasciar andare chi non può essere salvato, o guarito, e neppure cronicizzato con una qualità di vita per lui accettabile. Oggi le cure palliative hanno circa trent’anni di esperienza, anche in Italia, e un unico problema: sono state applicate quasi unicamente ai pazienti terminali di cancro. Occorre potenziarle, pensarle come modello non unicamente per la fase terminale, estenderle alla vita declinante dei nostri vecchi.

Cosa ci dicono le cure palliative per quanto riguarda i caregiver? I familiari che curano il paziente devono essere essi stessi considerati malati. Malato non è l’individuo – dicono le cure palliative – malata è la famiglia: e se questo è vero per il tumore, figuriamoci per le demenze, che richiedono una mobilitazione familiare lunghissima, e priva di gratificazione per chi cura, che spesso non viene neppure riconosciuto da chi è curato.

Se la consapevolezza di questa dimensione familiare della malattia prevale, ci si rende conto che l’intervento richiesto non è tanto medico in senso stretto, ma multidisciplinare: infermieri, operatori socio-sanitari, psicologi, volontari, ma anche filosofi, avvocati e assistenti sociali, che devono lavorare di concerto con la famiglia per rendere praticabile l’esperienza della malattia invalidante di un congiunto. Renderla praticabile non significa che sia immaginabile privarla della sua difficoltà, del dolore. Tuttavia, significa darle le caratteristiche di un’esperienza, possibile da attraversare, per quanto dura, e non di uno tsunami devastante per la vita di ciascuno, che lasci solo macerie e assenza di vita dopo essere passato. Affinché ciò accada, i familiari devono avere le informazioni e il sostegno necessario per occuparsi di un loro caro malato. Molta formazione e sostegno, niente medicalizzazione eccessiva e futile. Se si operasse questo cambiamento di mentalità, i fondi basterebbero. Lo spreco della sanità in operazioni e trattamenti che vengono attuati nell’ultimo anno di vita di pazienti molto anziani, con l’unico risultato di farli soffrire, è incalcolabile.

Sarebbe allora possibile dare un sostegno alle famiglie, sia pratico sia emotivo. E’ il modello delle cure palliative, occorre adattarlo, organizzarlo per malati la cui malattia, nella fase invalidante e declinante, dura un tempo più lungo e meno facilmente quantificabile.

Anche dal punto di vista economico, le cure palliative hanno dato buona prova di sé, dimostrando di essere sostenibili, soprattutto se gestite da associazioni non profit, in grado di sollecitare, accanto al contributo pubblico del SSN (che deve esserci), anche la consapevolezza dei cittadini, che contribuiscono a garantire il proprio welfare, e la qualità alta delle proprie cure.

Cosa ne pensate? Vi convince l’estensione del modello delle cure palliative al declinare della vita degli anziani? E soprattutto l’adozione di questo modello come sostegno per i familiari? Avete esperienze da raccontare in merito?

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/01/Depositphotos_24559953_s-2015-e1484059960229.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-01-11 09:02:212018-10-23 18:42:13Cosa fare per i caregiver? di Marina Sozzi

La nuova frontiera delle cure palliative, la quarta età, di Marina Sozzi

21 Novembre 2016/11 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

imgres-1Si è appena concluso il XXIII Congresso della Società Italiana di Cure Palliative, a Roma, e vorrei condividere su questo blog alcune riflessioni che mi sono apparse urgenti e importanti, e che non sono per addetti ai lavori.

Si tratta del dovere che abbiamo, nel rispetto della legge 38 del 2010 (che garantisce le cure palliative a tutti i cittadini, definendole come un diritto) di estendere le cure palliative a chi muore in tarda età, non per cancro. Ricordo che solo il 5% delle cure palliative erogate in Italia riguardano persone che non hanno malattie oncologiche.

La medicina ha saputo aumentare molto l’aspettativa di vita degli individui, ma non sempre, purtroppo, l’attesa di anni di vita coincide con la salute, o con una qualità di vita accettabile per il soggetto in questione. L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di ultraottantenni, che muoiono per cause diverse dal cancro (solo il 12/14% delle persone con più di 80 anni muore a causa di un tumore): in genere, a quell’età i pazienti convivono con un alto numero di patologie che la biomedicina ha saputo cronicizzare, permettendo loro di continuare a vivere, ma che rendono questi anziani estremamente fragili. Purtroppo, come ha ben evidenziato il professor Giovanni Gambassi, del Policlinico Gemelli di Roma, il modello di medicina incentrato sul disease è fallimentare in questi casi. Ancora il 60% di questi vecchi non muore a casa sua, l’aggressività del trattamento continua dopo l’85esimo anno di età (senza intercettare il bisogno della persona), si ventilano a volte pazienti con demenza e polmonite, il 30% degli anziani che muore ha subito un inutile intervento chirurgico nell’ultimo anno di vita. E mentre accade tutto questo, i sintomi disturbanti e il disagio vengono ignorati, sottovalutati, non trattati.

Si è di fronte a un curioso paradosso: è stata la medicina ad allungare la vita e cronicizzare la malattia, ed è la prima a non essere in grado di gestire la nuova situazione creata. Si è trattato di una mancanza di lungimiranza e immaginazione sulle conseguenze del proprio operare, che spesso accompagna gli uomini molto concentrati su un obiettivo.

Occorre – oggi ci appare evidente – modificare il modello d’intervento, costruendo un approccio palliativo progressivo, consapevoli dell’era della cronicità in cui siamo entrati, e dell’esigenza di personalizzare le cure per tutti, ma a maggior ragione per gli anziani. Ciò non significa abbandonare terapeuticamente pazienti che possano ancora trarre un beneficio significativo da un intervento anche invasivo, ma non infliggerlo a persone che non hanno possibilità di sopravvivere ad esso un tempo congruo, con una qualità di vita compatibile con la loro visione della propria dignità. Occorre per questo fare un altro passo verso il coinvolgimento del paziente nel percorso di cura, grande sfida per la medicina di questo secolo. Un passo che comporta: a) di partire da una corretta informazione, che prospetti rischi e benefici per la salute fisica e mentale di ciascuno; b) di concertare le cure con il paziente, con rispetto per il suo mondo interiore e le sue possibilità di comprensione, c) di dargli la possibilità di esprimere le proprie preferenze (anche con un po’ di anticipo rispetto alla situazione concreta della scelta terapeutica, soprattutto in considerazione dell’incidenza delle demenze senili oggi).

Le cure palliative progressive devono essere scelte insieme al medico di medicina generale, o con l’equipe di riferimento. Devono diventare, quindi, competenza diffusa, non riservata ai professionisti della palliazione.

E i cittadini, che cosa possono fare per facilitare questo processo di adeguamento della medicina ai suoi stessi risultati? Affinché sia possibile morire in tarda età senza accanimento terapeutico e accompagnati da cure palliative? Dobbiamo, a mio modo di vedere, smettere di sollecitare la medicina difensiva, e di illuderci che il medico sia onnipotente (non lo è); imparare che c’è il limite e che siamo mortali; non sostituirci ai nostri anziani malati nelle decisioni terapeutiche (e neppure nelle decisioni di fine vita); smettere di dire agli anziani che guariranno quando sappiamo che moriranno; rispettare chi ha molto vissuto e ha esperienza, anche se ha meno sapere di noi; pretendere di essere coinvolti nella cura della nostra malattia.

Vi sembra poco? Io credo che si tratti di un’importante rivoluzione culturale, che i medici non potranno fare da soli, senza i pazienti, i familiari, i cittadini, insomma…noi. Che ne pensate?

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L’Alzheimer e le Direttive Anticipate di Trattamento, di Marina Sozzi

29 Settembre 2016/9 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

imagesL’Alzheimer e le altre forme di demenza senili sono tra le patologie che pongono più problemi di ordine etico, per via della perdita della competenza cognitiva da parte dei pazienti, e della lunga durata della malattia stessa (da tre a dieci anni circa). Oggi, con l’impennata epidemiologica di questa malattia (malattia del benessere per eccellenza, legata com’è all’allungamento dell’aspettativa di vita, oltre che a numerosi fattori relativi agli stili di vita e all’ambiente), non ci si può più esimere dal rifletterci: cosa vogliamo che accada di noi qualora dovessimo perdere le competenze cognitive, alterare i nostri comportamenti consueti, perdere la memoria e il senso dell’orientamento spaziale e temporale? Non dovessimo più riconoscere i nostri cari, saper gestire le nostre quotidiane incombenze?

E’ il tipico caso in cui aver dato direttive anticipate di trattamento può essere dirimente, per sé e per i propri familiari: non si tratta di un incidente stradale o di un’emergenza, casi in cui i rianimatori agiscono d’ufficio (per così dire), senza avere il tempo di informarsi su ciò che avrebbe desiderato il paziente, e spesso senza poter esattamente prevedere gli esiti del loro intervento sanitario, né nel bene, né nel male.

Si tratta, invece, di una patologia che procede lentamente, erodendo poco per volta la consapevolezza e le abilità, ma lasciando intatta la percezione delle emozioni, con tutto il disorientamento, la sofferenza, la depressione, la paura, che possono insorgere sentendosi venir meno le consuete competenze mentali.

Nella demenza e nell’Alzheimer siamo costretti ad affidarci completamente ad altri, a dipendere dal loro affetto e dalle loro cure, dalla loro capacità empatica nel comprendere i nostri bisogni, poiché non sappiamo più a esprimerci verbalmente e razionalmente. Non è facile rappresentarsi cosa vorremmo in una situazione del genere, ma se riusciamo ad andare oltre alle resistenze interiori, per immaginarci malati, potremo comprendere il valore della comunicazione familiare e amicale su temi come questi. E anche il valore che potrebbero avere le Dichiarazioni Anticipate, stilate in collaborazione con il proprio medico di medicina generale (deputato a tirare le fila della nostra salute) e condivise con la famiglia. Questa sarebbe infatti, secondo me, la modalità migliore e più saggia per raccogliere il testamento biologico, l’unica davvero efficace. Promosse e raccolte in tal modo, le DAT potrebbero anche servire a far maturare una nuova generazione di medici di base, capaci di fare davvero il mestiere che oggi, nel nuovo sviluppo della biomedicina, è pensato come loro proprio: ricomporre i vari specialismi, restando aderenti al proprio paziente, che è persona e non insieme di organi funzionanti o da riparare. Persona con desideri, progetti, paure e limiti.

Personalmente, se mi dovessi ammalare di demenza, vorrei rifiutare le cure (anche quelle salvavita) per ogni altra patologia dovesse insorgere, più o meno annessa e connessa, e essere accompagnata da cure palliative. Ho provato a chiedermi come mai desidero questo, e la domanda è servita anche a chiarirmi il valore fondante che attribuisco alla mia vita: la crescita personale, l’arricchimento dell’esperienza e dell’eticità, della saggezza e del sapere. In mancanza della possibilità di sviluppare la mia vita in questa direzione, l’esistenza perderebbe per me il suo fascino. Ma, attenzione, questi sono i valori fondanti per me, e sarebbe impensabile volerli estendere a chiunque altro, che può trovare la propria gratificazione in aspetti completamente diversi della vita.

In questo senso, quindi, credo che riflettere sull’Alzheimer possa aiutare ciascuno a comprendere quali siano le condizioni compatibili con l’attribuzione di senso alla propria esistenza: condizioni, peraltro, che dobbiamo immaginare come interiormente negoziabili, non date una volta per tutte: perché questo è l’umano, complesso, sfaccettato, mutevole. Per questo occorre che le DAT siano un discorso aperto con un interlocutore, facilmente modificabili, aggiustabili, come e più di un documento testamentario notarile.

Parlarne con il proprio medico, inoltre, può aiutare lui a capire chi siamo, e quindi a consigliarci nel modo migliore sulle scelte riguardanti la nostra salute: scelte che non sono sempre necessariamente morire o vivere, ma operarsi o no in certe circostanze, fare o no una terapia oncologica invasiva, magari “cautelativa”, e moltissime altre. Credo sia bene riflettere su un fatto, che dovrebbe essere l’unico assioma della laicità, quella vera e profonda, praticabile da credenti e non, religiosi e non: non esistono modelli esistenziali assoluti, e quindi non esistono scelte etiche universalmente valide.

Cosa ne pensate? Vedete il rapporto tra “epidemia” di Alzheimer (un milione e duecentomila persone in Italia) e l’esigenza di lasciare Dichiarazioni Anticipate di Trattamento? Siete d’accordo che a raccogliere le DAT siano i medici di medicina generale?

 

 

 

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Alzheimer e demenze: tragedie e buone prassi, di Marina Sozzi

19 Luglio 2016/2 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

La mia prima esperienza con l’Alzheimer risale, ormai, a più di venti anni fa. Mia suocera viveva con noi alcuni mesi l’anno, e le volevo bene. Era una donna napoletana con un’innata nobiltà, alta e dritta nonostante l’artrite. Cucinava per noi meravigliose teglie di verdure, e invitavamo quasi ogni giorno qualcuno a cena. Una sera arrivarono i nostri più cari amici, con i quali condividevamo quotidianità e bambini da crescere, oltre che le teglie della “nonna”: erano a casa nostra almeno tre volte la settimana. Lei li accolse dicendo: «E chi sono questi bei ragazzi?». Restammo senza parole ma la prendemmo sul ridere. Non sapevamo nulla dell’Alzheimer, e ci vollero altri mesi e altri episodi prima di arrivare a una diagnosi. Dal neurologo la portammo dopo che la trovammo una notte, col cappotto indosso, accanto alla porta, seduta con la schiena eretta, il suo bastone da passeggio, che ci chiedeva di accompagnarla dal parrucchiere. Fu una rapida discesa agli inferi verso il nulla, che si impossessava della sua mente e che ci riempiva di tristezza e ansia. Nessuno ci aveva parlato dei sintomi, di ciò che avremmo dovuto aspettarci, di come sarebbe stato bene comportarci. Avevamo la fortuna di poter pagare una badante. Ma nulla poteva proteggere mio marito dal dolore di non essere più riconosciuto da sua madre. Ho letto recentemente l’osservazione di uno scrittore, la cui madre è stata colpita dalla malattia. Se mia madre non mi riconosce, scrive, chi sono io? Qual è la mia identità? Probabilmente è stata questa la sua percezione di allora, vista con gli occhi più consapevoli di oggi.

Le fu risparmiato il peggio, la perdita completa del controllo del corpo. Una sera la sentii scottare, aveva una polmonite, complicazione frequente. Convinsi mio marito a lasciarla andare, non la portammo in ospedale, veniva un infermiere a farle un’inutile flebo di liquidi e antibiotici: lui non riusciva più a entrare nella camera di sua madre, e passò interi giorni a misurare a passi incerti il corridoio. Lei soffrì, credo, era molto agitata, ma di cure palliative sapevamo ancora poco, ed erano previste solo per i malati di cancro. Poi entrò in coma, e un giorno dopo morì.

Sono passati quindici anni e la malattia d’Alzheimer si è diffusa, con l’ulteriore invecchiamento della popolazione. Oggi, se non ricordiamo un nome, diciamo scherzosi “ho l’Alzheimer!”. E’ noto che si fa spesso dell’umorismo su ciò che ci fa più paura: e infatti sulle demenze senili vi è ancora un pesante stigma, e le diagnosi continuano a essere tardive, perché i sintomi vengono spesso ricondotti al semplice fatto di essere vecchi.

Abbiamo nel frattempo capito che le demenze sono l’ultimo flagello della nostra civiltà, ne parliamo in libri e film, e speriamo nell’onnipotenza che attribuiamo alla medicina, affinché produca un vaccino, una cura, qualcosa che possa evitare o fermare lo sgretolarsi del cervello. Sappiamo anche che chi cura un malato di Alzheimer ha a sua volta un terribile bisogno di cure, perché la sua integrità psicofisica è a rischio: isolamento, depressione e malattie organiche sono frequenti. Il rapporto Censis sull’Alzheimer del 2016 ci dice che i caregiver hanno in media sessant’anni: ci sono, tra questi quasi-anziani, figli non più giovanissimi, ma anche vecchi di ottant’anni che trascorrono l’ultimo periodo della loro vita in un lago di dolore, senza molti aiuti, impegnati in un lavoro di cura al di sopra delle loro forze. Ogni tanto accade una tragedia, un ottantenne così disperato da uccidere il coniuge, un figlio che soffoca la madre. Allora tutti diciamo: che sia l’ultima volta!

Nel frattempo la crisi economica ha provato le famiglie, primo nucleo della cura nel nostro paese. Molte devono aiutare i figli disoccupati o con un lavoro che non permette loro di mantenersi. La badante non ci sta, anche unendo le forze di più nuclei, e nemmeno la retta dell’RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale). E dal sistema sanitario e dai servizi sociale il sostegno arriva col contagocce, nonostante la buona volontà di molti funzionari: pochi e insufficienti i centri diurni, dove è possibile lasciare i propri cari malati durante il giorno, a fare terapia occupazionale o stimolazione cognitiva, per rallentare la malattia. Il terzo settore (di cui Infine Onlus fa parte), con il finanziamento delle fondazioni di erogazione, propone Alzheimer caffè e gruppi di sostegno per i familiari, ma riesce a fare interventi puntiformi in una distesa di disagio: un po’ per la mancanza di coordinamento, e di denaro, e un po’ per la scarsa collaborazione delle amministrazioni. Ma anche perché le famiglie al cui interno c’è un malato tendono a richiudersi su se stesse, esauste, e a ritirarsi dal mondo. Non è semplice far arrivare loro l’informazione che l’aiuto è disponibile, e talvolta sono così abituate a far da sole che sono diffidenti con chi vorrebbe dare una mano.

So di aver dipinto uno scenario a tinte molto fosche. Voglio chiudere con una nota di ottimismo: da settembre, a Torino, dieci volontari di Infine Onlus, che hanno seguito un lungo corso di formazione, saranno disponibili a sostituire chi cura un malato di demenza a domicilio per alcune ore la settimana, dandogli un po’ di sollievo (grazie al finanziamento di Fondazione Specchio dei Tempi). Avete altre esperienze di buone prassi? Credo sarebbe molto positivo condividerle, per portare alla luce tutto il supporto che esiste.

(L’immagine in primo piano è di Pier Luigi Fagioli uno dei vincitori del contest fotografico “Immagini di vita” organizzato  da Infine Onlus http://www.infine.it/news/infine-onlus-proclama-i-vincitori-del-contest-fotografico-immagini-di-vita/)

 

 

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Arborvitae: cimiteri del nuovo millennio?

12 Gennaio 2015/20 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte


Gira l’Italia un progetto affascinante, studiato da alcuni architetti paesaggisti, tutte donne (A3Paesaggio), che hanno voluto riflettere su come possa diventare il cimitero del terzo millennio. E’ un progetto rivoluzionario rispetto agli attuali luoghi dei morti, che costituisce anche una risposta alla diffusa povertà inventiva dell’architettura funeraria contemporanea.
Consuelo Fabriani e la sua équipe si sono innanzitutto chieste quali sono i bisogni degli individui quando si recano a far visita ai propri morti. E non hanno trascurato anche un secondo interrogativo: come mai molta gente rifiuta il cimitero come luogo e dichiara di preferire una memoria “del cuore e della mente”?

Il desiderio che è emerso da questa indagine è che il cimitero sia meno cementificato, più accogliente e più verde: un luogo dove sia possibile sostare in meditazione o anche solo passare un po’ di tempo nella natura e vicino a chi abbiamo perduto, magari condividendo l’esperienza con altri.
Il progetto di cui vi parlo si chiama Arborvitae, e – dicono le protagoniste – introduce una nuova cultura del cimitero e delle pratiche legate alla morte, prevedendo, dopo la cremazione, l’interramento delle ceneri in un’apposita urna biodegradabile e la rinascita del corpo in un albero. E’ un cimitero-paesaggio in cui l’architettura funeraria cede il posto agli alberi dando vita ad un parco urbano, spazio vitale per i cittadini; un luogo di memoria e di rispetto capace di diminuire la distanza tra il mondo dei morti e quello dei vivi.

Dietro questa idea c’è, implicitamente, una visione della morte che si va diffondendo tra i nostri contemporanei, quella di vita/morte come ciclo naturale, in cui dalla morte può scaturire nuova vita: l’uomo non più re della creazione, ma parte della natura. È un progetto che fa piazza pulita dell’antropocentrismo, e che rispecchia la volontà di ricongiungersi con gli elementi, sul modello dei cimiteri nordici e anglosassoni.
Le progettiste hanno realizzato un video estremamente grazioso per spiegare la loro idea. Ecco il link, non perdetevelo https://www.youtube.com/watch?v=_69LVlsi8ms&feature=youtu.be.
Ma soprattutto vi chiedo di partecipare all’ulteriore sondaggio che stanno facendo. Richiede meno di un minuto per la compilazione: https://it.surveymonkey.com/s/ARBORVITAE.
Mi interessa moltissimo anche la vostra opinione sul blog. Secondo voi è un’idea su cui è bene lavorare? Vi convince? Vedete delle difficoltà nella realizzazione di questa proposta nella nostra cultura?

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Per favore non dite niente

1 Giugno 2014/1 Commento/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Ho letto d’un fiato il recente romanzo di Marco Ciriello, edito da Chiarelettere, che parla di malattia, di morire, di perdita, e di… calcio, e ho voluto intervistare l’autore.

Perché ha voluto scrivere questa storia? Un’affezione per il personaggio che l’ha ispirata? O piuttosto un interesse per l’esperienza della malattia e della morte di una persona insostituibile?

Questa storia l’ho scritta riconoscendo un dolore mio nelle parole di un’altra persona, ed ho cominciato un lungo percorso di immaginazione, ho messo insieme più storie e personaggi e il risultato è “Per favore non dite niente”. È un romanzo che contiene un mucchio di cose che esplora il dolore attraverso l’amore strutturandosi in ragionamenti filosofico calcistici. Senza André Gorz o Ernesto De Martino non avrei avuto la forza di pensare una storia così. C’è Carver applicato al calcio, e il calcio applicato al racconto carveriano sulla normalità della vita, in un percorso di perdita. Mi serviva una dimensione precisa, con una disciplina e degli obiettivi certi, per questo ho scelto il calcio.

Questo suo libro, frammentario, con molti salti temporali, sembra dirci che stare accanto a chi è malato, e poi muore, sia arduo, e produca una sorta di sgretolamento del mondo interiore. E’ così?

Sì, ho provato con la scrittura a restituire la perdita e il percorso della malattia. Ogni giorno di dolore è una discesa, uno spostamento. Il dolore e la perdita sono principalmente stupore, uno stupore che ci rende nomadi, non credo che ci renda migliori, nomadi sì, ci portano in spazi che non ci appartengono, stupendoci, e lì comincia un lavoro di adeguamento, senza essere mai educati, non c’è metodo, solo possibilità di provare e riprovare, cercando di adeguarsi, a volte riesce a volte no, con una amarezza di fondo, fino a quando il vuoto diventa presenza, con una lingua e una immagine diversa.

“Magari si potessero barattare le prodezze sul campo con un solo giorno in più con la donna che ami”. Il lutto non è dunque solo dolore bruto, ma anche potenziale ricchezza, cambiamento in grado di farci dare un nuovo ordine alle priorità, per maturare. E’ ciò che pensa?

Chiunque abbia avuto a che fare con l’irreversibilità della perdita entra in questa ottica, baratterebbe tutto per tornare indietro, c’è persino chi non ne esce più da questa fase, soprattutto se scambia la perdita per una punizione di Dio. Io ne ho avute di perdite devastanti ed è ovvio che abbia riflettuto a lungo su dolore e irreversibilità, in ogni romanzo c’è molto di quello che ci accade ma almeno nei miei niente è una confessione.

Il titolo “per favore non dite niente” richiama la convinzione del protagonista che chi cerca di esprimergli vicinanza dica in genere frasi inopportune, o poco sentite. Crede che sia molto difficile stare vicino a chi ha perso un congiunto?

Bisogna distinguere: io non mi riferisco all’elaborazione del lutto che ha bisogno di molte discussioni, né a come amici e parenti declinano il ricordo di chi è andato via, ma parlo del funerale, del congedo. Si dicono un mucchio di banalità davanti alla morte, è preferibile abbracciare, e parlarne dopo, magari senza improvvisare. Generazioni di filosofi e scrittori non sono riusciti a dare una risposta efficace, figuriamoci se può riuscirci uno che magari è andato al funerale per educazione e si sente elevato a rispondere a un mistero. Avrei preferenza di non conoscere quelle risposte.

Personalmente, non so nulla del gioco né del mondo del calcio. Ma ho pensato che questo libro abbia anche il pregio di parlare a un numero di persone maggiore rispetto a quelle raggiunte, di solito, dalla letteratura che tratta di malattia e di morte. Lo pensa anche lei? E’ un obiettivo che le interessa?

Non lo so, me lo auguro, quando scrivo penso alla credibilità di quello che racconto non al numero di lettori. In molti mi dicono di aver pianto durante la lettura, e poi di quello che hanno vissuto o rivissuto. Il mio obiettivo è scrivere storie credibili, mescolando persone vere e personaggi che invento, e nella confusione di tempo e realtà, nella riproduzione e invenzione di vite che credo si trovi la letteratura. Se non parliamo di morte e amore di cosa dobbiamo parlare? Mi hanno detto che la mia storia “ha la forza dei romanzi russi” non so se è vero, di certo ho molto studiato Dostoevskij e Albert Caraco che non è russo ma ne ha la forza, e molti altri, e nemmeno sto lì a gongolarmi, per questo che ritengo un complimento enorme. Penso che sì, magari è anche così, ma lo dirà il tempo che, come per la vita, è un critico spietato, obiettivo, concretissimo.

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Che ruolo ha la musica alla fine della vita?

25 Aprile 2014/12 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Nell’entusiasmante viaggio che ho fatto in Sicilia prima di Pasqua per presentare Sia fatta la mia volontà, ho conosciuto alcune di quelle rare persone che si scolpiscono nella memoria, e nel cuore. Una di queste, oltre alla mia ospite, la bioeticista Giusi Venuti, è Raffaele Schiavo, musicista e musicoterapeuta, che si occupa dell’accompagnamento dei morenti attraverso la musica. Portando il suo lavoro in Canada, a Toronto all’HPCO annual conference, Raffaele ha avuto un grande successo ed è stato premiato come migliore presentazione orale dell’intero convegno. Date un’occhiata al video: http://www.youtube.com/watch?v=2vxP8u9wCQ0
Combinazione, sempre dal Canada mi arriva la seguente riflessione, che riguarda proprio l’utilizzo della musica alla fine della vita. La palliativista Ira Byock ritiene che vi siano quattro sentimenti che permettono di chiudere bene le relazioni alla fine della vita: l’amore, la gratitudine, il perdono e il commiato. E, come è noto, la possibilità di portare a compimento le relazioni ha un grande importanza per chi sta morendo. Le canzoni, la musica sanno condurre questi messaggi affettivi più efficacemente e più rapidamente delle parole, sostiene la dottoressa Byock. E racconta della morte della propria nonna: due canzoni hanno aiutato la sua famiglia a darle l’addio. Una è la canzone Wind Beneath My Wings, che contiene le parole che hanno permesso alla madre di dire alla nonna: «Sapevi di essere la mia eroina, colei che vorrei diventare; io posso volare più in alto dell’arcobaleno, tu sei il vento che spiega le mie ali». La seconda canzone è Eagles’ Wings, una canzone cristiana che ha aiutato la stessa dottoressa Byock a esprimere la speranza nella vita dopo la morte: «Egli ti solleverà sulle ali dell’aquila, ti innalzerà sopra il respiro dell’alba, ti farà splendere come il sole, e ti terrà in palmo di mano.»
Mi piacerebbe approfondire con voi questo tema: avete delle esperienze da raccontare? Ci sono stati momenti alla fine della vita dei vostri cari, o dei vostri pazienti, in cui la musica ha assunto un particolare rilievo? Che cosa pensate della musicoterapia? Dovrebbe essere integrata nelle competenze richieste in cure palliative?

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Al Qarafa, Il Cairo: dove morti e vivi vivono gomito a gomito

4 Giugno 2013/6 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Voglio raccontarvi una storia, che parla al contempo di una donna e di un cimitero. Sabato pomeriggio Anna Tozzi Di Marco, un’antropologa romana conosciuta vari anni fa, si trovava a Torino, e si è offerta di farmi da guida per vedere la mostra delle fotografie relative al suo soggiorno nella Città dei morti del Cairo: luogo di sepoltura che, poco per volta, è divenuto una delle zone più popolose della capitale egiziana. Case e tombe, vivi e morti, convivono gomito a gomito.
Luogo della mostra (che è rimasta aperta dal 27 giugno a oggi, 4 giugno), sono i famosi Bagni Pubblici di via Aglié, a Torino, in occasione del mese di attività culturali dedicato all’Africa. I Bagni sono un luogo affascinante: hanno mantenuto la loro funzione originaria, divenendo inoltre un vivace centro culturale e interculturale.
Anna ha vissuto quasi dieci anni all’interno di Al Qarafa, la Città dei morti del Cairo, un’area di circa dodici kmq, divisa in diciassette quartieri, oggi luogo di vita e commercio da un lato, e di sepoltura dall’altro. Anna è rimasta dieci anni nel cimitero per cogliere dall’interno le dinamiche dell’inurbamento in quel luogo, ed esaminarle anche in rapporto ai rituali funebri e religiosi.
Le prime fotografie della mostra (documenti fortunosamente ricuperati da Anna) risalgono ai primi del Novecento, e mostrano uno spazio vuoto, con alcune sepolture qua e là. Da inizio Novecento ad oggi, l’area di Al Qarafa è completamente cambiata: si sono costruite le case, e oggi la densità di popolazione è molto alta, ma non per questo si è smesso di seppellire.
Anna ha già scritto un libro su quest’esperienza unica: Egitto inedito. Taccuini di viaggio nella necropoli musulmana del Cairo, acquistabile su un sito dedicato al Centro di ricerche e documentazione di tanatologia culturale, da lei fondato e diretto, eccellente per chi voglia approfondire il suo punto di vista antropologico, www.lacittadeimorti.com. Anna pratica infatti un’antropologia militante, come lei la definisce: “la prospettiva antropologica deve essere acquisizione di consapevolezza del contesto in cui si andrà a operare, e fornire gli strumenti per muoversi nel territorio interagendo con i locali. Deve gettare le basi di una cooperazione allo sviluppo sostenibile che veda coinvolti gli abitanti nei processi di decisione”.
Le foto, in parte scattate da lei, in parte da altri antropologi, giornalisti o fotografi professionisti, sono eccellenti testimonianze di questa prospettiva: l’obiettivo è restituire una rappresentazione dignitosa degli abitanti del cimitero cairota (più di un milione), valorizzandone la vita quotidiana, i mestieri (spesso legati alle sepolture), le espressioni religiose e culturali, e facendo piazza pulita delle immagini stereotipate, negative e esotizzanti. Gli scatti rappresentano interratori e scultori del marmo, venditori di verdura e di tappetini, interni di case, coloratissimi, e bambini che giocano, donne che cucinano, tombe situate nei cortili, becchini, visite alle tombe, facciate dipinte per testimoniare l’avvenuto pellegrinaggio alla Mecca, perfino una cerimonia in cui una donna entra in trans per placare gli spiriti.
La mostra sarà itinerante, continuerà a viaggiare in Italia, e magari potrà fare una seconda puntata torinese. E Anna Tozzi? Sta per ripartire, verso Cipro e la Turchia, per studiare la leggenda dei Sette Dormienti, pronta per nuove esperienze.
Se la storia di Al Qarafa vi ha interessati o incuriositi, guardate anche il documentario di Alessandro Molatore: http://vimeo.com/18992377, e su flickr, ricercate Al Qarafa. Vedrete splendide fotografie, tra le quali alcune sono di Anna.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/06/becchino-1-e1370334293286.jpg 311 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-06-04 10:28:542018-10-23 18:42:14Al Qarafa, Il Cairo: dove morti e vivi vivono gomito a gomito

I giovani e la morte

23 Maggio 2013/16 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Ho fatto un’esperienza che desidero raccontarvi: ho incontrato liceali che riflettono sulla vita e sulla morte con la competenza e la consapevolezza di vecchi saggi. Un’esperienza che ci aiuta, forse, a smettere di rimpiangere i bei tempi andati e ci chiama a dare opportunità serie ai giovani.

E’ accaduto alla presentazione di PRELUDI, il volume di cui sono stata invitata a parlare al Salone internazionale del Libro a Torino, insieme (con mia grande gioia) a una delle mie scrittrici preferite, Michela Murgia, al dottor Carlo Peruselli e a Helena Verlucca, (Hever Edizioni) editore del volumetto.

Il libro è stato scritto da studenti del Liceo scientifico Gramsci di Ivrea, e parla di morte. L’idea è stata del sindaco di Ivrea, Carlo della Pepa, che è anche medico dell’Hospice di Salerano, gestito dall’Associazione Casa Insieme: i ragazzi sono stati invitati a visitare l’hospice, accompagnati dai loro insegnanti. Hanno attraversato il parco con le piante secolari, hanno raggiunto l’antica villa silenziosa, sono entrati nelle sale comuni, hanno letto il diario degli ospiti dell’hospice, hanno visto i morenti, si sono immedesimati in chi si sta avvicinando alla morte, si sono commossi, hanno riflettuto sulla fine della vita, e poi hanno scritto racconti, e ciascuno di loro ha immaginato come protagonista un morente.

Hanno narrato di malati che si conciliano con la propria morte, hanno paura e la superano, come la musicista del racconto Silenzio, che dice:
“Non c’è canzone che non finisca, il silenzio è necessario, per pensare, comporre, dare spazio agli altri o semplicemente stare lì, ad ascoltarlo (…) Aver paura della morte è come aver paura del silenzio e un musicista non ha, non può avere, paura del silenzio, perché senza di esso non esisterebbe la sua musica. Il silenzio permette di creare una nuova melodia, il silenzio è l’ultima cosa che si sente prima di iniziare l’esecuzione di un brano e, alla fine di ogni concerto, prima o poi torna a regnare il silenzio”.
Questi ragazzi hanno mostrato di aver profondamente compreso la necessità del morire, di essere consapevoli della strana e umanissima coesistenza di gioia e dolore, facendo fiorire, nei loro scritti, una concezione della felicità profonda e non stereotipata. Altro che veline e calciatori!
Hanno capito che per accompagnare chi muore occorre semplicemente stare, esserci, e saper ascoltare, come quella bimba del racconto La sarta del Paradiso, che ogni giorno dopo la scuola si reca in hospice dalla nonna e trascorre con lei il pomeriggio. Hanno colto quante cose può avere da raccontare chi muore: “All’hospice ogni paziente è importante, ogni paziente ha la sua storia e ad ogni paziente vengono riservate tutte le attenzioni possibili. A volte sono sufficienti le orecchie per ascoltare, anche perché non si deve pensare che alla fine di un viaggio loro non abbiano più niente da raccontare.”

Questo libro è un insieme di esperienze davvero uniche: per questo motivo vi invito ad acquistarlo e a rifletterci (Autori Vari, Preludi, Hever 2012). Senza dimenticare che il ricavato delle vendite è devoluto all’Hospice di Salerano.

E, come di consueto, chiedo la vostra opinione: cosa pensate di questa iniziativa di mettere i ragazzi a contatto con l’esperienza del morire? Come potrebbe essere replicabile? Come preparereste vostro figlio, se potesse fare la stessa esperienza?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/05/Hospice-Salerano.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-05-23 08:12:492018-10-23 18:42:14I giovani e la morte

Coperte di vita per pensare alla morte

22 Aprile 2013/28 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Immaginate una coperta, o una trapunta del vostro letto trasformata in un’opera d’arte, che rappresenti il significato della vostra vita. Questa originale idea è venuta all’Associazione Canadese di Cure Palliative, per far riflettere i propri concittadini sulla fine della loro esistenza.
Il progetto si chiama “Couverture de vie”, o “Life Blanket”.
In Canada, ogni anno, muoiono circa trecento mila persone, e più di un milione sono coinvolte da una perdita; in un breve arco di tempo (nel 2036), a causa dell’invecchiamento della popolazione, saranno due milioni.
Occorre attrezzarsi perché tutti possano essere assistiti con cure palliative, ma è necessario anche che si ricominci, con maggior serenità, a parlare liberamente di vita, di morte, di significato.
L’Associazione di Cure Palliative ha identificato alcune figure di spicco nella politica, nella cultura, nell’imprenditoria (l’ex senatrice Sharon Carstairs, l’ex CEO della farmaceutica GloxoSmithKline, Paul Lucas, l’attrice Sheila McCarthy, l’attore Gordon Pinsent, il cineasta e scrittore Kevin Tierney e il reverendo Brent Hawkes) e ha chiesto loro di immaginare, con la collaborazione di artisti della Toronto School of Art, una coperta personalizzata, un singolare lascito che rappresenti la vita di ciascuno. Gli artisti le hanno realizzate. E’ un modo per stimolare la riflessione di ciascun cittadino sulla propria vita, su quale significato riesce ad attribuirle, su cosa pensa di poter lasciare dietro di sè.
Se avessero chiesto a voi di creare la vostra coperta di vita? Sareste in grado di descriverla?


https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/04/zOpt_efb1788f88e1aed75375b53c7b273464.png 244 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-04-22 08:15:012018-10-23 18:42:14Coperte di vita per pensare alla morte
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