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Tag Archivio per: paura della morte

Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

4 Febbraio 2025/8 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Noi tutti abbiamo, in dosi variabili, paura della morte. Non voglio parlare della tanatofobia, che comporta sintomi paralizzanti e un terrore ossessivo. Vorrei parlare della paura che abbiamo tutti, e che fa capolino quando capita di pensarci. Questa paura ha prima di tutto un ancoraggio biologico. E’ un’area del cervello antica, chiamata amigdala, che condividiamo con gli animali, a rispondere mediante la paura (reagendo con attacco, fuga, o freezing) di fronte alle situazioni che mettono in pericolo la nostra sopravvivenza.

Mentre gli animali, però, si attivano solo in caso di rischio imminente (l’avvistamento del leone per la gazzella), gli uomini sanno che moriranno, e sono quindi perpetuamente divisi tra la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte e il desiderio di vivere eternamente.

La paura nasce da questo scarto incolmabile.

E’ quindi paura di ciò che è massimamente sconosciuto e oscuro? Certamente, la morte è del tutto inconoscibile e impensabile, del tutto opaca per gli uomini, e per questo fonte di ansia e angoscia. Noi nasciamo vivi, e la vita è tutto quello che sappiamo, con cui abbiamo familiarità.Ma l’ignoto non è l’unica ragione del timore.

Oltre ad avere paura della morte, noi paventiamo il processo del morire, ossia le circostanze che possono condurci alla morte. Sovente temiamo di soffrire, e abbiamo in mente alcune immagini del fine vita che hanno fatto parte della nostra esperienza, e che ci inquietano in modo particolare. Da quando ho assistito mia suocera malata di Alzheimer, ad esempio, quello è diventato per me il più disturbante dei pensieri: l’involuzione, la totale perdita del controllo, il fatto di diventare un corpo ignaro di tutto, gettato nel mondo. Mi fa molto meno paura morire di cancro, perché so che potrò contare sull’assistenza e sul sostegno delle cure palliative. Ma non è così per tutti.

Proprio perché specifica e soggettiva, questa paura è diversa da un individuo all’altro, e può differire anche a seconda del momento della vita. Inoltre, visto che esistono molti tipi di apprensione che possono essere inclusi nell’idea generale della “paura della morte”, quest’ultima potrebbe essere descritta, in realtà, come una paura della vita.  Il morire fa infatti parte della vita, al contrario della morte, che la delimita e la conclude, e per questo resta estranea alla vita.

Di fronte all’ignoto, infatti, noi usiamo immagini per riempire le lacune concettuali, l’impossibilità di conoscere, il mistero. E queste immagini sono modellate dalla cultura e dalla storia: se abbiamo vissuto un conflitto o viviamo in contesto di guerra, possiamo avere il terrore della distruzione che quest’ultima comporta; oppure, se siamo anziani, possiamo temere maggiormente l’infermità e la vulnerabilità di malattie legate all’invecchiamento, e così via. Per concludere, ciò che chiamiamo “paura della morte” potrebbe essere una paura mortale di certi aspetti dell’esperienza umana, o addirittura della vita in generale.

Lo psicoanalista Irving Yalom, nel suo libro Fissando il sole, narrava alcuni casi clinici in cui la paura della morte, durante il percorso analitico, si era rivelata essere piuttosto sintomo di una difficoltà rispetto ad alcuni particolari vissuti. Una storia che mi è rimasta impressa riguarda una terapista britannica, Julia, che dopo la morte di un’amica era diventata ipocondriaca e terrorizzata dalla morte al punto da smettere di fare tutto ciò (sport, e perfino guidare l’auto) che la esponesse a un rischio anche molto piccolo. Durante un viaggio in California chiese aiuto a Yalom, il quale le rivolse una domanda che faceva spesso ai suoi pazienti: “Di quale aspetto particolare della morte ha paura?”. Julia rispose: “Tutte le cose che non ho fatto”. Da quel momento l’analisi prese un’altra via, e permise a Julia di comprendere che aveva impedito a se stessa, per il timore di non essere all’altezza, di realizzare o almeno di misurarsi con le sue ambizioni artistiche. La paura della morte, occultata dal dolore per la perdita dell’amica, nascondeva a sua volta una vita insoddisfacente da cui Julia non riusciva ad affrancarsi. L’identificazione della paura più autentica e profonda permise a Julia di mettersi alla prova, e l’angoscia di morte diminuì.

Voi avete mai riflettuto sulla vostra paura della morte? Di cosa avete soprattutto paura? La vostra paura si collega con le vostre esperienze di vita? L’idea delle cure palliative vi conforta?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2025/02/paura-della-morte-1-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2025-02-04 10:24:362025-02-04 10:24:36Paura della morte, paura della vita, di Marina Sozzi

La teoria della gestione del terrore, uno sguardo antropologico, di Cristina Vargas

28 Febbraio 2024/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Proposta per la prima volta nel 1986 da Rosenblatt, Greenberg, Solomon e altri autori, la Terror Management Theory (TMT) ha guadagnato molti consensi negli ultimi vent’anni e ha ottenuto un importante numero di convalide esperimentali in diversi paesi. Partendo da una descrizione sintetica dei principali postulati della TMT, nel presente articolo vorrei proporre alcune riflessioni critiche su questo approccio, che trovano fondamento in uno sguardo antropologico, caratterizzato dall’attenzione alla diversità e dall’apertura rispetto a modi “altri” di intendere la morte.

L’assunto di base della Teoria della gestione del terrore prende spunto dal lavoro dell’antropologo Ernest Becker, in particolare il volume The Denial of Death (1973). Partendo dalla rilettura di Freud, Otto Rank e altri psicanalisti, Becker sostiene che il terrore della morte e il desiderio di immortalità siano fenomeni universali, presenti in tutte le culture e in tutti gli esseri umani. La paura della morte è “il verme che ci divora dall’interno”, da cui scaturisce un profondo bisogno inconscio di negazione che ci porta ad allontanare difensivamente lo sguardo dal carattere precario e transitorio della nostra esistenza. Resi codardi dalla consapevolezza di dover morire, prosegue l’autore, abbiamo bisogno di aggrapparci alle religioni o alle strutture socio-culturali che ci offrono un’illusione di immortalità.

Le tesi di Becker ebbero una grande influenza in quel momento storico e contengono alcune riflessioni sulla condizione umana che, a mio avviso, a tutt’oggi meritano un’attenta considerazione.

Come evidenziato da altri antropologi, ma anche da filosofi, psicologi e neuroscienziati, siamo dotati di un sistema neurofisiologico che ha fra le sue funzioni primarie anche quella di garantirci la sopravvivenza di fronte alle minacce esterne (si pensi per esempio ai meccanismi di attacco e fuga). Nel contempo, siamo dotati di abilità cognitive che rendono inevitabile la consapevolezza della nostra mortalità. Siamo, dunque, biologicamente programmati per sopravvivere, ma sappiamo che in qualsiasi momento potremmo morire e che, di fatto, a un certo punto moriremo.

Partendo da questo nostro tratto specie-specifico, ci si potrebbe interrogare su come le varie società umane si siano confrontate con i grandi quesiti esistenziali della finitezza e del limite. Becker, e con lui gli autori della Terror Management Theory, rinunciano invece a soffermarsi sulla pluralità e scelgono invece di postulare l’esistenza di una “natura umana” immutabile, scollegata dalla cultura, astorica e non suscettibile all’influenza esterna.

In ogni caso, nella prospettiva della TMT, il terrore della morte genera un’intensa ansia, una sorta di angoscia latente, ma sempre presente, che deve essere costantemente tenuta a bada (managed) e condiziona in modo molto rilevante le nostre scelte e il nostro agire. Le due strategie più efficaci per contrastare la paura della morte sarebbero l’adesione a un sistema sociale in grado di provvedere una visione del mondo dotata di senso e il percepire sé stessi come persone di valore, qualcuno che può contribuire a preservare o a difendere il sistema di cui fa parte (aumentando quindi la propria autostima).

Partendo da queste premesse gli autori sostengono che, in situazioni che “ricordano” la mortalità (Mortality Salience), le persone innescheranno comportamenti orientati al rafforzamento delle strutture sociali e culturali a cui si sentono appartenenti e da cui traggono sicurezza. Esse inoltre compiranno maggiori sforzi di essere meritevoli di riconoscimento; le opinioni politiche o religiose si irrigidiranno e si polarizzeranno; si enfatizzeranno i simboli di appartenenza; aumenterà la possibilità di scontro con coloro che vengono percepiti come minacce e si cercheranno leader forti ed “eroi” che sottolineino la difesa del “noi”.

Negli anni, la presenza di alcune ricerche in cui non si ottenevano gli effetti sperati ha reso necessario raffinare questo modello originario, ed è stata adottata l’ipotesi di un processo duale, secondo il quale l’attivazione dei comportamenti difensivi non avviene quando il pensiero della morte è prevalente a livello conscio ed esplicito, ma solo quando esso ha un elevato di accessibilità a livello inconscio, ma non è il focus dell’attenzione.

Al di là di proporre una visione universalistica dell’umano, che si discosta in modo netto da quella di Geertz, Foucalt, Remotti e numerosi altri studiosi che hanno messo in discussione il concetto di “natura umana” e hanno adottato un approccio attento alla particolarità di ogni cultura, mi sembra interessante notare che la ricerca nel campo della TMT si basa quasi completamente su dati quantitativi sperimentali, quindi realizzati in situazioni artificiali, spesso in laboratorio e con campioni limitati. Questo tipo di studi ha certamente dei vantaggi – fra cui il rigore e la replicabilità – ma ha anche dei limiti rilevanti, soprattutto per quanto riguarda la validità al di fuori dei setting sperimentali.

Che cosa avviene in contesti sociali fortemente esposti alla violenza, in cui la salienza della morte è inevitabilmente elevata?

Nella mia esperienza di ricerca sul campo in Colombia, mi sono confrontata non con la paura della morte e con un’unica tipologia di risposta ad essa, ma con una pluralità di rappresentazioni del morire non riducibili a un’unica, universale, verità.

In numerosi casi il rischio costante innescava effettivamente reazioni orientate alla polarizzazione delle opinioni e alla percezione dell’altro come nemico, ma in altre occasioni la risposta era di segno opposto. Per esempio, ho avuto la grande opportunità di frequentare una rete di supporto reciproco creata in modo autonomo da un gruppo di donne i cui figli erano stati uccisi nel conflitto armato, che era in quel momento in una delle sue fasi peggiori. Si trattava di mamme di ragazze e ragazzi; alcuni di loro erano vittime civili, altri erano attori armati: guerriglieri, miliziani, galoppini dei narcos, paramilitari. Poiché la società era frammentata e non c’erano divisioni territoriali chiare fra gli armati in lotta, nel gruppo capitava di incontrare le mamme dei “nemici” e persino quella di chi aveva ucciso il proprio figlio. Questo però non le aveva scoraggiate, anzi, avevano capito che l’unica via per tornare a vivere era quella di perdonarsi e di supportarsi a vicenda. Si erano così organizzate senza appartenenze né distinzioni, unite dal dolore profondo del lutto e dalla consapevolezza della loro comune vulnerabilità.

Esperienze come che ho appena descritto non sono forse maggioritarie, ma esistono trasversalmente in molti contesti segnati dalla violenza e testimoniano la possibilità di un approccio all’angoscia di morte fondato non sul terrore, ma sull’incontro e la condivisione.

Come ci ricorda Francesco Remotti non tutte le società percorrono le stesse vie. Ci sono società – come la nostra – in cui il desiderio e la ricerca dell’immortalità vanno di pari passo con una concezione individualistica della persona. Ma esistono molte altre società che hanno una visione relazionale del sé; società in cui la persona è intesa non come individuo, ma come “con-dividuo” in permanente rapporto con gli altri e con l’ambiente: una visione di questo tipo favorisce l’idea che la vita e la morte non siano poli opposti e separati, ma aspetti integrati e necessari del ciclo vitale.

Sebbene la teoria della gestione del terrore possa offrire spunti interessanti di riflessione, credo sia importante evitare la sua tendenza all’universalismo e aprirsi al dialogo (scientifico e umano) con società che hanno una visione meno terrificante della morte e che la approcciano con strumenti diversi dallo scontro “noi” /“altri”.

Cosa ne pensate? Credete che la paura della morte sia universale e origini sempre le medesime risposte? Aspettiamo, come sempre, le vostre riflessioni, e vi ringraziamo in anticipo.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/02/TMT.jpg 265 348 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-02-28 18:28:502024-02-28 18:28:51La teoria della gestione del terrore, uno sguardo antropologico, di Cristina Vargas

Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

25 Aprile 2022/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/04/coronavirus-conseguenze-psicologiche-e1650709432692.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-04-25 10:35:392022-04-25 10:35:40Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi

12 Gennaio 2018/18 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Matryoshka doll set isolated on a white background

Perché abbiamo paura della morte? E soprattutto, è possibile addomesticare tale inquietudine, che per alcuni è un vero e proprio disagio con cui convivere?

Non parlo tanto, qui, della paura della morte che si manifesta nella prossimità della nostra fine biologica, ma di quell’inesausto sgomento che ci prende al pensiero della nostra finitezza, che può condizionarci a ogni età e in ogni situazione di vita. Quella paura che rende vano, e forse anche futile, il detto del filosofo greco Epicuro, secondo cui “se ci siamo noi, non c’è la morte, se c’è la morte non ci siamo più noi”. Infatti, nonostante questa sia un’indubbia verità, passiamo buona parte della nostra vita ad avere paura, perché vita e morte non sono realtà chiaramente distinte, ma aspetti fittamente intrecciati del destino umano.

La paura della morte è legata, nell’uomo, proprio all’acuta coscienza che egli ha del proprio limite. La morte rappresenta l’ignoto oltre la fine, il mistero per antonomasia, e gli esseri umani hanno sempre cercato soluzioni per attutire l’angoscia che ne deriva loro: risposte religiose, come quella del cristianesimo o dell’islam, che prefigurano altri mondi cui la morte apre il passaggio. O consolazioni laiche, come il pensiero dell’“eredità d’affetti” che ciascuno può lasciare all’umanità, sulla falsariga di Foscolo.

Il quesito è se sia possibile addomesticare, anche se non proprio superare, la paura della fine nel corso della nostra vita. Il filosofo Jankélévitch sosteneva che da un lato c’è la morte come legge naturale, necessità impersonale, perfettamente comprensibile e razionalizzabile. Dall’altro lato c’è la morte come minaccia concreta, inaccettabile, tragica e scandalosa, che incombe sul singolo individuo. In questo secondo significato la morte è inconoscibile e indicibile. Il pensiero si annienta se prende come oggetto la morte, e l’angoscia che essa suscita è legata al nostro tempo umano, all’impossibilità di rappresentazione, al crollo, all’annullamento, all’inabissarsi del pensiero stesso. Sembra dunque, come peraltro pensava anche Sartre, che sia impossibile prepararsi alla morte, e quindi anche affrontare la paura della morte.

A mio modo di vedere, però, occorre capirsi sul significato che diamo al temine “morte”. Se per morte intendiamo l’istante del trapasso, si può dare ragione a Jankélévitch.

Tuttavia, proprio per via della stretta implicazione che c’è tra vita e morte nella quotidianità umana, è possibile accostarsi al pensiero della finitezza in molti modi. Uno di questi è cominciare a guardare alla nostra cultura dal punto di vista della consapevolezza della mortalità. C’è infatti una difficoltà antropologica nell’affrontare la paura di morire, ma ce n’è una molto più grande che è di carattere culturale.

La nostra società ci impone infatti di non condividere socialmente l’ansia per la morte: parlare di morte è considerato segno di indelicatezza o di cattiva educazione, in particolare in presenza di persone anziane, bambini o malati. Il diktat del silenzio induce nella maggior parte dei nostri contemporanei la mancanza di elaborazione, perché l’uomo, animale sociale, non riesce ad accogliere e sistematizzare le proprie ansie e paure se non nella dimensione della condivisione. In questo clima, all’individuo non resta che cercare di sfuggire alle proprie ansie non pensandoci, distraendosi, mettendole da parte ogni volta che si presentano. Invece di cercare di fare i conti con la finitezza, scappiamo a gambe levate, buttandoci nel lavoro o in troppe relazioni superficiali, talvolta facciamo uso di sostanze psicotrope più o meno legali, acquistiamo oggetti inutili. Forse così facendo siamo funzionali alle logiche della civiltà nella quale viviamo, ma certo non contribuiamo alla nostra felicità.

Abbiamo citato la felicità. C’è forse un legame tra elaborazione della paura della morte e felicità? Penso di sì, a patto di non intendere per felicità l’insulsa spensieratezza che aleggia negli spot pubblicitari, a patto di comprenderla come quello stato di appagamento in cui coincidiamo con quel che siamo, perché abbiamo accettato i nostri limiti. E a patto, inoltre, di non illudersi di poter trovare, una volta per tutte, un’incrollabile serenità di fronte alla nostra morte. Ho sperimentato in prima persona, durante la mia malattia oncologica, la difficoltà della mente ad accogliere la propria possibile morte, il rifiuto di toccare la concretezza della fine. Attraverso quell’esperienza mi sono fatta l’idea che solo in una reale prossimità della morte biologica sarà forse possibile lambirla – se non coglierla – col pensiero.

Tuttavia, se si accetta che il dialogo con la morte ci accompagni negli anni, ritengo che il percorso di avvicinamento al pensiero della fine serva, e sia in grado, oltre che di addomesticare la paura, anche di arricchire all’inverosimile la vita: di emozioni, sensibilità, intelligenza. E di riempire di significato le relazioni più autentiche. Ce la dice lunga, a tal proposito, la lettera di Holly Butcher postata su Facebook il 3 gennaio e rapidamente diventata virale: “Voglio solo che la gente smetta di preoccuparsi così tanto dei piccoli stress insignificanti della vita e cerchi di ricordare che tutti abbiamo lo stesso destino, dopo tutto. Quindi: fai quello che puoi per far sì che il tuo tempo sia degno e grande.”

Ma come fare a venire a patti con la paura della morte? Pensiamo innanzitutto che essa non è un monolite, ma è composta da un insieme inestricabile di tante paure più o meno grandi.

Ottenere una migliore convivenza con questa paura, allora, comporta un processo elaborativo, che non può essere fatto in solitudine. Occorre rigirarsela in mente insieme a persone che ci comprendano, scomponendola, e guardando dentro a quel contenitore della Grande Paura, che sembra impossibile da aprire. Cosa troviamo là dentro? Timore della sofferenza? Della perdita della propria individualità? Del dolore di chi resta? Dell’annientamento del nostro mondo? Come bamboline russe, una dentro l’altra, possiamo imparare a estrarre queste paure più piccole una alla volta, esaminarle e cercare di comprendere la loro funzione nella nostra vita. Vedremo allora scendere il tasso di inquietudine, e cominceremo a capire cosa davvero è importante per noi.

Avere paura, sentirsi fragili, non è disdicevole, è umano. Non ce lo ripeteremo mai abbastanza. E Holly scrive: “E’ questa la cosa della vita: è fragile, preziosa e imprevedibile, e ogni giorno è un dono, non un diritto dato.”

Cosa ne pensate? E’ possibile ammansire la nostra paura della morte? Voi ci avete provato? Ci siete riusciti?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/01/Depositphotos_45512471_s-2015-e1515689547593.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-01-12 11:14:302018-01-12 11:14:30Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi

Necrologi e eufemismi

17 Luglio 2013/13 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici, giunti quasi alle vacanze estive, vorrei dirvi arrivederci introducendo un argomento lieve, e anche un gioco. Lo faccio attraverso lo scritto di un giovane drammaturgo, Marco Pozzi. Il dialogo, ironico eppure struggente, s’intitola Trapasso fai da te, e fa parte di un libro intitolato Tre dialoghi (potete acquistarlo a questi link: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=967801
http://www.lafeltrinelli.it/products/9788891046611/Tre_dialoghi/Pozzi_Marco.html

Dunque, leggiamo in anteprima:

MEDICO Quello che voglio farle capire è che sono finiti i tempi in cui si moriva a casa senza assistenza medica, con famigliari senza conoscenze sanitarie.
PAZIENTE I miei genitori morirono così. Non era così brutto morire a casa propria, sarà d’accordo spero.
MEDICO Ma ora lei ha la fortuna di poter stare in un ospedale ben attrezzato, con medici e infermieri competenti. Pensi all’Africa.
PAZIENTE È una terapia psicologica?
MEDICO Pensi a quanti africani darebbero chissà cosa per essere al suo posto.
PAZIENTE Per essere in punto di morte?
MEDICO Ma no, per essere curati com’è curata lei.
PAZIENTE Un novantenne è un novantenne ovunque, in Africa come in Italia.
MEDICO (breve pausa) Che poi, morire: perché mai deve chiamarlo così? Al massimo si diparte, si scompare, ci si spegne, si manca all’affetto dei propri cari, si va in un posto migliore.
PAZIENTE Diparto…? Manco all’affetto…?
MEDICO …all’affetto dei suoi cari, certo.
PAZIENTE Ma io sono sola, neanche uno dei miei figli è venuto.
MEDICO Non facciamo sottigliezze.
PAZIENTE Le sembra una sottigliezza morire da soli?
MEDICO Insomma, è un modo di dire.
PAZIENTE Ma esiste già una parola per dire questo e questa parola è morire.
MEDICO Non la pronunci, porta male.
PAZIENTE Porta male?
MEDICO Sì, deprime.
PAZIENTE Deprime?
MEDICO Non fa bene.
PAZIENTE Non fa bene?
MEDICO Insomma, sono io il medico, mi ascolti per favore.
PAZIENTE La ascolto.
MEDICO Bene, cosa le stavo dicendo?
PAZIENTE Che proprio lei, uomo di scienza, non vuol guardare in faccia i fatti.
MEDICO Quali fatti?
PAZIENTE Che sto per morire. Questa si chiama morte! Guardi le mia labbra: m-o-r-t-e.
MEDICO La smetta! Non pronunci quella parola. Ora la curo.

La riflessione che il dialogo suggerisce (ma non è certo l’unica) riguarda il modo che noi abbiamo di parlare della morte, o meglio di non parlarne.
Avete mai pensato quanta attenzione si faccia a non pronunciare la parola “morte”? Basta dare un’occhiata ai necrologi, cosa che certo anche Marco Pozzi ha fatto: che circonvoluzioni! Il defunto è tornato alla casa del Padre (ossia, secondo la speranza cristiana, è andato in Paradiso); oppure, è prematuramente scomparso (detto molto più laico, che vede la morte non come passaggio ma come semplice sottrazione al mondo dei vivi): sono solo modi di dire? Eppure, c’è tutto il nostro terrore in queste parole allusive, in questi eufemismi che prendono il posto della cruda fattualità della morte.
Nella cultura cinese, la morte è tabù, ed è vietato nominarla, non solo nelle situazioni che hanno a che fare con la fine della vita, ma anche nella vita quotidiana: non si potrebbe mai dire “ho una fame da morire” senza venire rimproverati. La morte porta sfortuna.
E noi? Noi che sorridiamo delle “superstizioni”, che viviamo pieni di fede nella scienza e nella medicina? Noi secolarizzati?
Nonostante i danni causati dall’atteggiamento tecnicista della medicina durante i decenni trascorsi, nonostante la solitudine che provoca a noi e agli altri la fuga dalla mortalità, ancora non vogliamo saperne di affrontare la morte. Non vogliamo nominarla, non vogliamo guardarla in faccia, non vogliamo invecchiare, non vogliamo dire ai nostri cari che stanno morendo (dottore, per carità, lui non sa niente!). Se dobbiamo dunque imparare a parlare della morte, facciamolo per una volta con un sorriso. Vi propongo un gioco, anzi due:
1) raccogliamo tutti gli eufemismi che vi vengono in mente per dire “è morto”, o “sta morendo”? Valgono tutti i dialetti, purché con il significato a lato.
2) andiamo a scoprire i necrologi più strani che vi è capitato di leggere.

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L’impermanenza: la morte da una prospettiva buddhista

14 Maggio 2013/3 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Cari amici, ricevo e pubblico con piacere, a integrazione delle cose pubblicate ieri, questo guest post da Tiziano Casonato della Kagyu Samye Dzong di Venezia: http://www.kagyu.it

Morire, di per sé, è molto semplice: espiriamo e non inspiriamo più. Niente di complicato, niente da modificare. E’ un fatto assolutamente naturale: il buio della notte è seguito dalla luce del giorno, un umore triste viene sostituito da un momento di felicità, il freddo dell’inverno trova il suo complemento nel calore dell’estate. E così come siamo nati, moriamo.
Eppure tanta semplicità, paradossalmente, non viene vissuta con altrettanta facilità. Spesso è difficile venire a termini con la mortalità, nostra e di chi amiamo, come è difficile venire a patti con una caratteristica dell’esistenza, di cui la morte fa parte, che nel buddhismo viene chiamata impermanenza.
Il mondo, l’intero universo e gli esseri che in esso vivono, dipendono da una fitta interrelazione di fattori che portano al sorgere dei fenomeni di cui facciamo esperienza, a livello esteriore e anche a livello interiore. Pensieri, emozioni, stati mentali, sensazioni fisiche, sono per natura transitorie: hanno origine dall’incontro di una serie di cause, che portano a quella specifica manifestazione, che cessa nel momento in cui quelle cause cambiano il loro modo d’essere in relazione tra loro.
Lo stesso avviene a livello fisico: l’incontro di una serie di fattori ha portato al nostro concepimento, ha permesso lo sviluppo del feto, alla nascita, alla sopravvivenza e così via.
La morte non è quindi né “giusta”, né “sbagliata”. Non è un fallimento, né una punizione. E’ un fatto naturale che in uguale misura, senza distinzione di razza, specie animale e ceto sociale, sperimenteremo tutti.
In tutti i suoi approcci, il buddhismo ha come aspetto centrale la consapevolezza: il contatto con la propria esperienza e la relazione che si ha con se stessi e quindi con gli altri e con il mondo in cui viviamo. Vivere la nostra vita pienamente, istante dopo istante, senza seguire fantasie irrealistiche sulle esperienze e senza scappare da ciò che viviamo. Essere presenti quindi, permettersi di sperimentare le nostre emozioni, le nostre gioie, le nostre paure in modo sempre più profondo . Anche la paura di morire e della morte.
La paura della morte è una delle paure fondamentali che, in quanto esseri viventi, condividiamo. Gli insegnamenti del Buddha invitano ad esplorare con grande apertura e profondità la paura della morte. Perché? Una delle ragioni è che sicuramente è una delle paure che più condizionano la nostra esistenza: la paura di un evento incerto nei tempi e nelle modalità, ma sicuro nel suo verificarsi. Soffriamo nel presente per un evento che capiterà solamente in futuro. L’unico evento certo dal momento della nascita.
Quando il momento della morte arriva non possiamo scappare, non possiamo rimandare, dobbiamo lasciare andare questa vita e le esperienze che abbiamo vissuto, quelle belle e anche quelle che non ci sono piaciute. Questa prospettiva presenta due possibilità: lasciare andare forzatamente, accompagnati da tanta sofferenza, panico e magari rimpianti, che al momento della morte risultano evidenti nella loro intensità; oppure arrivare pronti per lasciare andare, avendo vissuto una vita piena e significativa, appagati, senza o con pochi rimpianti e magari curiosità.
Riflettere sulla morte e sentire quali stati d’animo fa emergere è quindi una pratica quotidiana, che accompagna il praticante lungo la sua vita, come sentire quali stati d’animo fa emergere e scoprire la capacità di accoglierli. E di lasciarli andare. In questo modo la paura della morte, che scorre spesso non vista e soprattutto non sperimentata, viene integrata e liberata nell’esperienza del praticante.
Questo dà origine ad un processo molto potente e trasformativo che, tra le varie cose, riconfigura in modo naturale le priorità della vita e fa scoprire un coraggio di investigare in profondità il proprio sentire e le proprie aspirazioni. Che cosa voglio? Cosa è importante per me? Se questo fosse il giorno della mia morte mi sentirei soddisfatto di come ho vissuto? Sento di poter morire appagato, libero da eccessivi attaccamenti quando lasciare andare è l’unica cosa che posso fare?
Affrontare la paura della morte diventa la via d’accesso a una grande libertà interiore che si esprime in due modi: libertà dalla paura della morte; libertà dalla paura di vivere secondo le nostre aspirazioni, pienamente.
All’inizio, trovarsi faccia a faccia con la tristezza, la paura e il senso di impotenza che il pensiero della morte può far emergere è difficile. E’ naturale, non c’è niente di sbagliato in tutto questo. Se ci permettiamo di guardare in faccia questo sentire, con un atteggiamento gentile e accogliente, potremmo riuscire a regalarci una vita appagante, piena, che valorizza le cose che per noi sono veramente importanti, trovando dentro noi il coraggio e la saggezza per farlo.
Quale dono più grande, per noi e per chi ci saluterà in quel momento, di una morte serena e consapevole, senza rimpianti, il risultato di una vita vissuta con pienezza e profondità?

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Paura della morte

12 Febbraio 2013/23 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Ferdinando Cancelli, palliativista e bioeticista cattolico, che ha lavorato alla Fondazione Faro e all’Asl CN1, ha scritto un libro dal titolo Vivere fino alla fine: chi l’ha già letto dice che è un potente antidoto contro la paura di morire. Le cure palliative, peraltro, si stanno diffondendo in tutto il mondo, Kenia e India compresi.
In Francia, l’anestesista Bernard Devalois ritiene che l’eutanasia sarebbe stata una soluzione nel passato, quando non c’erano i mezzi per combattere il dolore; sarebbe invece superata oggi, quando un malato terminale può prendere la morfina, o nel caso di una sofferenza ancora troppo grande, chiedere la sedazione terminale, un coma farmacologico che abolisce la coscienza senza abbreviare la vita.
Cancelli afferma che spesso una cattiva informazione crea un clima di paura: la fine della vita è spesso immaginata, allora, come un’anticipazione della morte, come un periodo cupo e disperato, da trascorrere tra atroci sofferenze, nell’attesa tremebonda della fine. Ma è davvero così morire?
Quali sono i timori che soprattutto ci fanno propendere per un sì alla soluzione eutanasica, più sbrigativa delle cure palliative? A mio modo di vedere ci sono infatti, indubbiamente, particolari situazioni (alcune malattie neurologiche, o condizioni post traumatiche), che rendono necessario discutere anche di eutanasia. Ma stupisce che in Belgio nel 2012 il 74% delle eutanasie siano state praticate a malati di cancro (il cancro è la malattia meglio controllata dalle cure palliative).
Allora, parliamone, visto che nessuno lo fa: cosa ci fa maggiormente paura in relazione alla morte nostra e dei nostri cari?

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