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Tag Archivio per: paura

Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

25 Aprile 2022/2 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Come molte altre persone che si occupano del fine vita nel campo delle scienze sociali, in questi ultimi due anni mi sono più volte interrogata su quali implicazioni abbia avuto la pandemia sulla rappresentazione del fine vita. Come è cambiata la percezione della morte nel nostro contesto sociale? Quali conseguenze avrà questa esperienza epocale che abbiamo vissuto – e stiamo ancora vivendo – sul modo in cui conferiamo senso al morire? E, ancora, in che modo possono contribuire le varie discipline che si occupano di tematiche tanatologiche (la filosofia, la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia e altre ancora) a comprendere meglio l’impatto questi cambiamenti?

È ancora presto per dare delle risposte e per fare dei bilanci, ma quel che è certo è che la malattia grave e la morte sono tornate prepotentemente alla ribalta. La pandemia, e in queste ultime settimane la guerra in Ucraina, molto più vicina di altre guerre contemporanee, ci hanno costretti a fare i conti con l’incertezza, a riconoscere la nostra vulnerabilità, a confrontarci con la paura di ammalarci, con il lutto e, in alcuni casi, con il rischio concreto di morire.

Può sembrare contraddittorio, ma in molti sensi, l’onnipresenza della morte ha innescato due reazioni opposte. Se in alcuni contesti il tema della morte è stato “sdoganato” e si è sviluppata una maggior consapevolezza rispetto a questo argomento; in altri si è creato l’effetto opposto: il bisogno di distogliere lo sguardo e di voltare pagina hanno avuto il sopravvento.

Partiamo dal secondo scenario, quello della normalizzazione, un meccanismo che si osserva oggi in molti paesi e che ricorda da vicino quello che è storicamente avvenuto in contesti colpiti dalla violenza protratta. Ed Yong, giornalista scientifico e vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro durante la pandemia, ha ricordato recentemente che, nel maggio del 2020, quando gli Stati Uniti avevano appena raggiunto i 100.000 morti, il New York Times aveva riempito la prima pagina con i nomi di ognuna delle persone scomparse: un gesto che aveva profondamente commosso i lettori ed era diventato un simbolo della drammaticità di una perdita sentita da tutta la nazione. Eppure, ora che gli Stati Uniti si avvicinano a un milione di morti, l’opinione pubblica sembra quasi insensibile, come una cifra così sbalorditiva fosse in qualche modo troppo grande per essere sentita o pensata. C’è chi è in lutto, ma i parenti delle persone decedute sovente si ritrovano a elaborare il loro dolore “in mezzo alla fuga precipitosa della maggioranza verso la normalità”.

La storia insegna che l’abitudine smussa la paura; vivere a lungo in una situazione, per quanto critica essa sia, crea una sorta di “assuefazione” (uso, non a caso, l’espressione con cui Vovelle descriveva la familiarità con la morte che aveva caratterizzato altri periodi storici). Un po’ come avviene nelle guerre che accadono altrove, chi non ha subito le conseguenze più dirette del Covid può fare ricorso a una sorta di “distanza di sicurezza”, che depersonalizza le vittime e attenua, almeno in parte, l’intensità della sofferenza. Questa distanza è in parte necessaria per riprendere il movimento vitale dopo una fase di stallo. Essa, tuttavia, impedisce il riconoscimento dell’angoscia, rallentando la costruzione di una memoria condivisa e l’elaborazione del trauma che, in maggior o minor misura, ognuno ha subito. Molti dati confermano che le conseguenze psicologiche sono state rilevanti anche in chi non ha vissuto in modo diretto la perdita di una persona cara o le conseguenze gravi della malattia. Il Covid, per tutti noi, rimarrà nelle autobiografie come uno spartiacque, ci sarà un “prima” e un “dopo”: uno di quei momenti storici di svolta, un’ondata che, anche se non ci ha travolti, ha sicuramente creato delle discontinuità nella nostra storia personale.

Vale quindi la pena riflettere, per tornare alla prima delle due reazioni che abbiamo inizialmente descritto, sulla possibilità di sviluppare una nuova consapevolezza sulla morte e sulla vita.

Alcune interessanti ricerche, condotte nel corso del 2020 e del 2021 fra gli operatori sanitari in varie nazioni, hanno messo in luce l’importanza della resilienza e della crescita post traumatica, in inglese Post Traumatic Growth (PTG), nel gestire lo stress correlato al lavoro e il rischio di burn out in una delle categorie professionali che ha subito in modo più diretto le conseguenze della pandemia.

Pur senza sottovalutare le conseguenze negative sulla vita psichica di eventi gravi, il concetto di Post Traumatic Growth (PTG) parte dall’idea che le persone che si trovano ad affrontare situazioni drammatiche possano scoprire di avere più risorse di quanto credessero e, in alcuni casi, riemergerne rafforzati. La crescita post traumatica porta a integrare le “cicatrici”, fisiche e simboliche, in una nuova immagine di sé. Per spiegare questo concetto alcuni autori orientali usano la metafora del kintsugi, una forma di artigianato giapponese in cui le crepe della ceramica rotta vengono riempite con delle sottili linee dorate o argentate, che restituiscono la bellezza all’oggetto spezzato. I segni del “trauma” non scompaiono, al contrario, nel restare visibili riescono a trasformare una normale ciotola in un pezzo unico e irripetibile che può avere una nuova vita.

Quando il periodo critico può considerarsi concluso, esso può essere riletto come qualcosa che ha innescato un ripensamento del senso complessivo che prima veniva attribuito alla propria vita. Non è un caso che la pandemia abbia portato molte persone a rivedere le proprie priorità e i propri valori. Anche se non abbiamo dati sufficienti ad affermarlo con certezza, questo processo di cambiamento valoriale e identitario sembra essere alla base della cosiddetta “great resignation”, ovvero il significativo aumento delle dimissioni volontarie che si è verificato a partire dalla fine del 2020 negli Stati Uniti, in molti paesi europei e, in modo più limitato, anche in Italia.

Dato l’impatto negativo della pandemia a livello economico, molti analisti si aspettavano un ritorno celere al lavoro appena l’allentamento delle restrizioni l’avesse consentito. Tuttavia, questo non è avvenuto: molte persone hanno deciso di rivedere complessivamente il proprio percorso professionale e hanno deciso di cambiare radicalmente vita. È come se, durante i mesi della pandemia, la consapevolezza di non avere davanti a sé un tempo infinito avesse permesso di ripensare alle cose importanti, di dare più spazio agli affetti e, quando possibile, di fare scelte concrete in questa direzione. Forse come società non siamo diventati migliori – come nelle prime settimane della pandemia speravamo – ma i cambiamenti individuali fondati su una nuova e più consapevole rappresentazione della vita, in cui la finitudine è presente ma non diventa un pensiero angosciante, sono un primo passo da cui partire per ripensare il nostro futuro. Che ne pensate? Voi come avete vissuto la paura in questi due anni?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/04/coronavirus-conseguenze-psicologiche-e1650709432692.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-04-25 10:35:392022-04-25 10:35:40Normalità e trauma: la paura della morte in tempi di pandemia, di Cristina Vargas

La morte al tempo del Coronavirus, di Marina Sozzi

6 Marzo 2020/33 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

In questi giorni convulsi, in cui il pericolo di contagio del coronavirus ci lascia sbigottiti, scardina le nostre certezze e mina la sicurezza delle nostre vite, mette a rischio la nostra salute (giovani o vecchi che siamo); in questi giorni in cui, se non siamo accorti, il nostro sistema sanitario nazionale rischia di collassare; in cui la nostra vita sociale e culturale è sospesa, e la nostra economia corre il pericolo di entrare in un lungo periodo recessivo; in cui la paura domina le menti, mi sono chiesta quale contributo potesse dare questo blog, che ha sempre trattato di morte.

La morte è infatti il fantasma che aleggia oggi sopra le nostre città contagiate, ferite e deserte, in modo del tutto inedito per i nostri contemporanei. Cosa aggiungere agli innumerevoli interessanti commenti scritti da giornalisti e scrittori da un mese a questa parte? Non è facile.
Tuttavia, mi pare che non solo abbiamo tutti paura di ammalarci e morire. Ma risulta anche particolarmente inquietante il “come” delle morti che il coronavirus ci mette di fronte.

Un tempo, quando la medicina non aveva strumenti efficaci per combattere gran parte delle patologie, la morte giungeva sovente a causa di malattie acute. Il morire era brutale e sopraggiungeva rapidamente.

La medicina novecentesca, con la sua ricerca sempre più efficace in farmacologia, con la sua sempre più raffinata tecnologia chirurgica e diagnostica, aveva allontanato da noi “la morte improvvisa” da malattie brevi e travolgenti, per la quale si pregava una volta “libera nos Domine”, quella morte che non ci lasciava il tempo di accomiatarci dal mondo e mettere l’anima in pace con Dio.
Oggi le nostre morti sono, nella maggior parte dei casi, morti al rallentatore, che sopraggiungono per malattie croniche e degenerative che ci privano, piano piano, di fette di vita e di autonomia. Morti prevedibili con prognosi lunghe, morti alle quali ci si può, se si vuole (se si desidera andarsene consapevolmente), abituare poco per volta, fino, in alcuni casi, ad essere davvero “sazi di giorni”.

Il coronavirus arriva imprevisto e sbaraglia (oltre a molte altre cose) anche tutto il nostro apparato di pensiero sulla morte, la nostra (mi verrebbe da dire) Death Education. Le cure palliative, l’accompagnamento, l’hospice, il domicilio, la dolcezza, perfino l’essere circondati dai propri cari: tutto quello che ci rassicurava, pur nel triste pensiero di dover un giorno morire, viene meno.

Le morti per coronavirus sono e saranno morti che si consumano in ospedale, forse in terapia intensiva, in isolamento, velocemente, proprio con quei tubi che avevamo attribuito all’accanimento terapeutico e che non volevamo più, nei nostri fine vita. L’idiosincrasia per i tubi, per respirare o per nutrirci, ci aveva portati a volere una legge che ci permettesse di stilare le nostre Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Molti di noi hanno voluto scrivere che non desideravano rianimazione, respirazione artificiale e nutrizione artificiale. E ora sembra che proprio quel rischio incomba nuovamente sulle nostre vite. E ancor peggio: i nostri cari saranno tenuti lontani, per timore del contagio. E, nelle nostre più plumbee rappresentazioni, saremo circondati solo da operatori intabarrati in scafandri protettivi e in probabile burn out da superlavoro.

Non è solo il rischio di stare male e quello di morire, che preoccupa. E’ la quarantena, il cordone sanitario che isola le persone, che separa le famiglie. E’ l’orribile percezione che chiunque può essere un pericolo per noi. E’ l’apprensione per i nostri cari. E’ questo antico apparato di un ossessivo pensiero della morte che avevamo completamente archiviato. Qualcuno, non del tutto a sproposito, ha ricordato la peste del Trecento, o quella del Seicento, anche se la mortalità del Covid-19 è certo molto diversa…. Tuttavia, il memento mori che avevamo messo in soffitta torna prepotente nella nostra quotidianità. Inutile dire che non siamo preparati a confrontarci con una tale invasiva precarietà generalizzata.

Nessuna cultura è mai stata pronta ad accogliere un’epidemia, penso. Manzoni ce lo ha raccontato in modo magistrale. Ma certo nella nostra cultura, anche coloro che non hanno negato il pensiero della morte, anche coloro che erano in grado di prendere in considerazione la propria mortalità in un contesto protetto di accompagnamento palliativo, sono ammutoliti di fronte al Covid-19. Mi includo. Siamo ammutoliti.
E ci riconosciamo fragili e paralizzati dal terrore, nonostante le nostre conoscenze, la nostra medicina, la nostra razionalità occidentale. Mi viene in mente Sartre, che sosteneva che non sia possibile prepararsi alla morte. Diceva che gli uomini sono come prigionieri reclusi nel braccio della morte: sanno di dover essere fucilati, e si preparano per quella morte, salvo poi essere falciati via da un’epidemia di influenza spagnola.
E mi viene in mente anche un altro pensiero. Anche le nostre morti, addolcite e ovattate, sono un incredibile privilegio, uno straordinario esito della nostra cultura. Speriamo di poter presto tornare a pensare alla morte per malattie croniche…

Credo sia utile raccontarci la nostra paura, o ciò che ci passa per la mente di fronte a questo pericolo nuovo. Aspetto i vostri commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/03/covid-19-in-italia-e1583445005123.jpg 264 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2020-03-06 09:58:202020-03-06 09:58:20La morte al tempo del Coronavirus, di Marina Sozzi

Paura di morire, è affrontabile? di Marina Sozzi

18 Settembre 2018/11 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Nessun essere umano ignora il timore suscitato dalla morte, buco nero che tutto assorbe, ignoto, misterioso e inquietante. Anche i bambini e gli adolescenti hanno un’apprensione nei suoi confronti, spesso mista all’attrazione per ciò che è pericoloso e sconosciuto. Spesso ripetiamo che occorre reintegrare la morte nella vita: ma questo non significa affermare che sia possibile superare la paura della morte, connaturata con l’uomo in quanto essere consapevole della propria mortalità.

Tuttavia, se, come a molti accade, la paura della morte diventa un’emozione dominante nell’equilibrio della vita, senza che vi sia un’imminenza della morte o un rischio di vita con una concreta base di realtà, vale la pena occuparsene con maggiore attenzione.

E c’è qualcosa che possiamo fare per capirla meglio. Possiamo cominciare a guardarla da vicino, questa paura, e ad analizzarla, spacchettandola, per così dire, dividendola in parti. Che cosa mi fa paura nel fatto di morire?
Non è tautologico. La paura della morte si compone di diverse paure più piccole, che, se comprese, possono contribuire a rendere più accettabile la grande Paura. Tutte le componenti del terrore della morte riguardano la vita.

Una delle più frequenti è quella di non sentire la propria vita come gratificante, di non essere soddisfatti di ciò che si è realizzato. La nostra cultura, che ci spinge a credere di essere individui assolutamente liberi nel mondo, capaci di creare la propria vita dal nulla, come un’opera d’arte, non aiuta a comprendere il limite intrinseco nelle nostre biografie. Siamo invece persone con un radicamento e una storia familiare, sociale e culturale che fanno di noi esseri determinati, che hanno solo alcune possibilità di realizzazione. Se riusciamo a cogliere il senso di quest’affermazione, ad accettare senza rimpianti eccessivi alcune sconfitte e frustrazioni, potremo essere persone più felici, vivere appieno la vita che abbiamo, e vedremo allontanarsi un po’ la paura di morire.

Vivere con consapevolezza sembra un altro elemento centrale. Se siamo sempre proiettati solo nel futuro, senza nulla assaporare del presente, rinviando continuamente le gratificazioni e la felicità, immaginando che arriveranno con la prossima vacanza, con la promozione attesa, con una nuova relazione, l’idea di morire si presenterà come una mannaia che cade su un’opportunità perduta, quella di godere della vita. Se proviamo a essere più presenti, più appagati di quello che abbiamo, più consapevoli e maturi, avremo meno paura di morire.

L’amore è l’altra questione cruciale. La profonda gioia del dare e ricevere amore, amore in senso lato, è un buon antidoto contro la paura di morire. Se abbiamo sperimentato la gioia di dare amore disinteressato e pieno almeno una volta, se ne abbiamo ricevuto in cambio, il senso della nostra vita ci appare più chiaro. E se il significato è compreso, lasciare la vita incute meno panico.

Poi ci sono tante altre paure che non riguardano il fatto in sé di non vivere più, ma il timore di come arriveremo alla nostra morte. La paura di perdere l’autonomia, di dover dipendere da altri, di avere lunghi periodi di sofferenza fisica e spirituale. In una parola, di perdere la propria identità e la propria dignità.
Ma cosa è la dignità? Occorre distinguere tra la paura di perdere la dignità e la percezione, o l’esperienza di perderla. Chi ha studiato l’esperienza di perdere la dignità (come Harvey Max Chochinov nel suo Terapia della dignità) ha messo in luce il fatto che tale percezione non dipende dalle numerose perdite che alla fine della vita indubbiamente si presentano, ma da come si relazionano con noi coloro che si prendono cura della nostra vecchiaia, o della nostra malattia. Il Royal College of Nursing inglese ha dato un’interessante definizione della dignità, affermando che nessun essere umano la perde se coloro che lo circondano continuano a considerarlo un individuo di valore, degno di stima. La dignità ha a che fare con la relazione, non è realtà oggettiva, non esiste a prescindere dagli altri.

Ma se così stanno le cose, come facciamo a essere certi che chi si prenderà cura di noi ci guarderà come esseri dotati di valore? Non è, naturalmente, una certezza che possiamo avere (anche se stendere le nostre disposizioni anticipate di trattamento può aiutare), e tuttavia c’è qualcosa che possiamo fare. Quel che possiamo fare per rassicurarci è attribuire sempre a ogni singolo essere umano, qualunque sia la situazione in cui ci si presenta, quello stesso valore che vorremmo che gli altri attribuissero a noi. E’ l’imperativo categorico kantiano, formulato nella Metafisica dei costumi, e quanto mai attuale: “agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”. Universalizzando, con Kant, il nostro comportamento (agisci come vorresti che gli altri agissero nei tuoi confronti), possiamo contribuire a creare una cultura del rispetto dell’essere umano e della salvaguardia della sua dignità. Ricordiamolo, quando incontriamo persone che hanno bisogno del nostro sostegno, o anche solo della nostra considerazione. Poveri, immigrati, malati, disabili, morenti, eccetera eccetera. La nostra paura di morire decrescerà.

Mi sta molto a cuore il vostro parere. Sia sulla paura della morte, sia sul tema della dignità.

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E’ possibile imparare a chiedere aiuto?

6 Luglio 2015/4 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Solo una piccola minoranza delle persone che affrontano una malattia complessa o invalidante, che sono in lutto, che assistono dei malati gravi, che hanno un figlio che si droga, che subisce violenza, riesce a riconoscere la propria fragilità e ad attivarsi per chiedere aiuto. Perché abbiamo tanta paura a rivolgerci a un sostegno quando siamo in difficoltà?
L’aiuto sociale, certo, è scarso, e le iniziative di sostegno privato o sono costose, o, se sono non profit, molto spesso comunicano in modo insufficiente la loro presenza. E’ un fatto che molte preziose associazioni che offrono gratuitamente sostegno per i più disparati problemi hanno spesso meno partecipanti di quelli che riuscirebbero a gestire. Gli amministratori pubblici seguono in genere la logica della domanda e dell’offerta, e ritengono che i cittadini non abbiano bisogno di aiuto se non lo rivendicano esplicitamente. Ma se i nostri concittadini sono pronti a pretendere aiuto economico quando sono in difficoltà, ignorano sovente che possano esserci anche altri modi per stare meglio: la solidarietà altrui, ad esempio, o l’esistenza di luoghi dove condividere una preoccupazione con altri, e maturare risposte collettive a problemi comuni. Siamo in genere molto lontani dal saper costruire contesti solidali. La cultura dell’auto mutuo aiuto tra esseri umani è tramontata (o forse non è mai sorta) , e i tentativi di farla vivere attraverso gruppi di pari che si incontrano su temi specifici non sono privi di ostacoli, nonostante gli incoraggiamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Tuttavia, perché? Perché non riusciamo a chiedere aiuto? Mi si affastellano molte idee nella testa. La prima riguarda l’individualismo della nostra cultura, di cui abbiamo già parlato in un recente post: ci hanno insegnato che valiamo tanto più quanto più siamo indipendenti, capaci di gestire autonomamente i nostri successi e insuccessi, risorgendo dalle nostre ceneri come l’araba fenice. Questa prospettiva è contraria all’antica dimensione della “comunità”, in cui la solidarietà tra individui faceva parte della quotidianità. Anche se magari accompagnata da un rigido controllo sociale, e quindi da una minore libertà, lasciava gli individui meno soli. E forse, avendo vissuto per millenni in comunità piccole, non siamo adatti a vivere come liberi battitori in un mondo smisurato e spesso ostile.
La seconda idea che mi viene riguarda il pudore, o addirittura la vergogna di sperimentare la sofferenza: essere malati, sentirsi disperati, esposti al dolore, sono modi di essere che sono spesso guardati con un certo sospetto, come se fosse colpa nostra se incontriamo il disagio nella nostra vita. Per questo, se non è proprio indispensabile, molti di noi evitano di rendere pubblico il proprio malessere, per sottrarsi all’allontanamento del prossimo, imbarazzato e incapace di confrontarsi con le emozioni negative.
Ma eccoci forse al punto nodale, almeno mi sembra: proprio le emozioni negative. Sfuggire loro non è oggi più il problema di alcuni individui nevrotici, sembra piuttosto essere la cifra distintiva di un’intera società. Non vogliamo soffermarci e provare dolore, pena, paura, tristezza, solitudine, spaesamento, e per non sentire abbiamo trovato un metodo eccellente e molto funzionale alla cultura dell’homo faber, nella quale siamo immersi, e all’economia capitalistica del XXI secolo: correre, frenetici, riempire la vita di oggetti, di impegni, di persone da vedere per pranzo e per l’aperitivo, di sicurezze da garantire a noi e alla nostra famiglia, di benessere materiale da raggiungere. A questa velocità non si prova nulla, né di negativo, né di positivo. Non dolore, ma neanche gioia e amore.
E condivido l’opinione di Sogyal Rinpoche che scrive, nel Libro tibetano del vivere e del morire: “E’ come se fosse la vita a viverci, anziché il contrario; come se possedesse una sua bizzarra dinamica che ci trascina via, e alla fine abbiamo l’impressione di non poter più decidere né tenere le cose sotto controllo”. E, paradossalmente, proprio il controllo era l’obiettivo di quell’inumana corsa.
Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, secondo voi, per incentivare la dimensione della solidarietà? Avete fatto esperienze interessanti?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/07/images-2.jpg 192 263 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-07-06 09:51:452015-07-06 09:51:45E’ possibile imparare a chiedere aiuto?

La demenza e la paura di dipendere dal prossimo

16 Giugno 2015/15 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Vorrei oggi provare a guardare la malattia d’Alzheimer da un punto di vista inconsueto, che definirei culturale.
Mettiamo per un breve periodo tra parentesi la paura che succeda ai nostri cari o a noi stessi. Facciamo cadere in un momentaneo oblio le immagini che abbiamo dei malati che ci è accaduto di andare a trovare o di curare a casa: le loro parole per noi prive di senso, il loro errare senza sapere dove, le loro fughe, la loro confusione, e la rabbia, lo sguardo perduto, l’immobilità vuota, l’impossibilità di riconoscerci, il loro perdere progressivamente l’abilità di vestirsi, lavarsi, alzarsi, mangiare. Dimentichiamo anche la nostra sconsolata disperazione, il nostro sentimento di solitudine, se si è trattato di una persona per la quale abbiamo nutrito affetto. E i molteplici problemi pratici ed economici che l’assistenza ha creato o crea.

Vi sto chiedendo molto? Avete ragione… “a che pro?” vi domanderete.
Vorrei riflettere su un timore diffuso, quello di PERDERE L’AUTONOMIA e di DIPENDERE DA ALTRI. Si tratta forse della “Paura” per antonomasia, che ci destabilizza almeno quanto quella di soffrire o di morire. Anche se dipendere da altri è una necessità in molte patologie, il malato di demenza rappresenta l’incarnazione di questo terrore, poiché il decorso della malattia è una progressiva scomparsa della memoria e delle abilità acquisite.
Così, a volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “se mi ammalo di demenza, mi uccido”. “Stare al mondo con la demenza è vegetare, non vivere”. “Nel mio testamento biologico ho scritto che non voglio mi si diano antibiotici se avrò una complicazione polmonare, frequente nei malati di Alzheimer” (questo è quello che ho detto io).

Perché ci fa tanta paura dipendere da altri? Che timore nascondiamo, esattamente, dietro quel senso di disagio intollerabile, al solo pensiero di non essere autonomi? C’è qualcosa che possiamo fare per mitigare la nostra paura?
Vi ricordate quando eravamo bambini e avevamo la febbre? Era una pacchia mangiare sul vassoio che la mamma portava a letto, la spremuta d’arancia, i giornalini nuovi, papà che tornato dal lavoro si fermava in camera nostra… da piccoli non avevamo paura di non essere autonomi, di essere di peso, di dipendere dalle cure altrui. Cosa ci è successo dopo, quando siamo entrati nel mondo adulto?
Nella nostra cultura vige l’idea che fare da soli sia un valore (“si è fatto tutto da sé”), e che l’individuo costituisca l’unità minima della società (non la famiglia, non la stirpe). E cosa intendiamo per “individuo”? Un uomo con una personalità definita e stabile, razionale, padrone del proprio destino, in grado di dominare le proprie emozioni e di scegliere per sé, facendo riferimento solo alla propria volontà (senza ledere l’altrui libertà) in qualunque circostanza.

Ma siamo proprio sicuri che l’individuo autonomo, slegato dagli altri e indipendente sia il primo tassello su cui si fonda la nostra società? Non potrebbe essere il contrario? A me pare che sussista una dimensione collettiva, un “noi” che permette all’”io” di esistere: la visione dell’individuo vincente nel pensiero occidentale non pare realistica. Non nasciamo nell’iperuranio, ma in una certa porzione del pianeta Terra, in un determinato paese, in una certa epoca storica, in una famiglia, che ha reti di relazioni amicali e lavorative: siamo, quindi, dipendenti da mille fili invisibili che contribuiscono a costituire e legittimare le nostre emozioni, le nostre opinioni, le nostre scelte. Non siamo soli al mondo, apparteniamo a molti insiemi umani, a molti “noi”, che non sono immutabili (perché evolvono nel tempo) ma che ci condizionano in diversi modi, nel corpo ancor prima che nella mente. E corpo e mente, contrariamente alla tendenza occidentale a tenerli distinti, sono tutt’uno. Già Lévi-Strauss aveva messo in luce l’insistenza tematica, quasi la fissazione della cultura occidentale sull’io a discapito del noi. Il grande sociologo Baumann ci ha mostrato, più recentemente, il prezzo che paghiamo all’individualismo imperante, alla frammentazione, all’oblio della fragilità umana e della solidarietà: una solitudine senza fine.

In virtù di questo insieme di idee mitologiche sull’individuo autonomo e indipendente, da adulti tendiamo a dimenticare che la fragilità, l’impotenza, il bisogno d’aiuto che sono evidenti nel bambino, nell’anziano, e ancor più nell’anziano malato di demenza, sono universali, fanno parte dell’essere uomini. Dipendiamo dagli altri per tutto il corso della nostra vita, senza accorgercene. Poi, se ci ammaliamo, la dipendenza si manifesta, con tutti i tormenti, legati al sistema di valori nel quale viviamo, che si aggiungono al dolore di essere malati. E cominciamo a ruminare pensieri nella nostra mente affannata: “se non sono autonomo, se rischio di “dipendere” dall’altrui solidarietà, rischio di “essere di peso” per i miei figli, di frenarne la corsa, di obbligarli a dedicarmi del tempo, di distoglierli dalla professione, dal guadagno, dalla carriera. E certamente mi ameranno di meno, saranno insofferenti per queste limitazioni, anzi non mi ameranno più. Ma soprattutto, se il mio valore di persona è legato all’indipendenza, ora sono costretto a chiedere aiuto, a gravare su altri, e quindi non valgo, la mia vita perde di significato e di dignità”. Ecco i nodi principali della paura di dipendere da altri.

E la demenza? Fa una grande paura perché il malato neppure si rende conto di gravare sul suo prossimo. E questo appare oggi il culmine della mancanza di dignità. Rimando a un post successivo le complesse considerazioni etiche che l’assistenza a un malato di Alzheimer solleva.
La malattia, con il suo carico di sofferenza per malati e caregiver, ci insegna, piuttosto brutalmente, che dipendiamo reciprocamente gli uni dagli altri molto di più di quanto non ci faccia piacere ammettere. Il demente perde i ricordi, la sua memoria autobiografica se ne va, non riesce a recuperare il ricordo degli avvenimenti della sua vita, e neppure l’identità delle persone con cui ha costruito rapporti affettivi. Ha pertanto bisogno d’aiuto in ogni momento, per costruire la sua quotidianità, perché gli mancano i riferimenti necessari. E’ come se vivesse in un eterno qui e ora, sempre di volta in volta da reinventare.

Vi va di condividere come vi siete sentiti nei casi in cui avete dovuto dipendere da altri, nel corso di una malattia, in seguito a un’operazione, o per altre ragioni? E’ stato difficile? Avete provato disagio? E quando siete stati caregiver? Siete stati insofferenti o avete pensato fosse possibile dedicare tempo alla cura traendone un arricchimento personale?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/06/matisse-dance.jpg 1071 1600 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-06-16 11:51:272015-06-16 11:51:27La demenza e la paura di dipendere dal prossimo

I giovani e la morte

23 Maggio 2013/16 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Ho fatto un’esperienza che desidero raccontarvi: ho incontrato liceali che riflettono sulla vita e sulla morte con la competenza e la consapevolezza di vecchi saggi. Un’esperienza che ci aiuta, forse, a smettere di rimpiangere i bei tempi andati e ci chiama a dare opportunità serie ai giovani.

E’ accaduto alla presentazione di PRELUDI, il volume di cui sono stata invitata a parlare al Salone internazionale del Libro a Torino, insieme (con mia grande gioia) a una delle mie scrittrici preferite, Michela Murgia, al dottor Carlo Peruselli e a Helena Verlucca, (Hever Edizioni) editore del volumetto.

Il libro è stato scritto da studenti del Liceo scientifico Gramsci di Ivrea, e parla di morte. L’idea è stata del sindaco di Ivrea, Carlo della Pepa, che è anche medico dell’Hospice di Salerano, gestito dall’Associazione Casa Insieme: i ragazzi sono stati invitati a visitare l’hospice, accompagnati dai loro insegnanti. Hanno attraversato il parco con le piante secolari, hanno raggiunto l’antica villa silenziosa, sono entrati nelle sale comuni, hanno letto il diario degli ospiti dell’hospice, hanno visto i morenti, si sono immedesimati in chi si sta avvicinando alla morte, si sono commossi, hanno riflettuto sulla fine della vita, e poi hanno scritto racconti, e ciascuno di loro ha immaginato come protagonista un morente.

Hanno narrato di malati che si conciliano con la propria morte, hanno paura e la superano, come la musicista del racconto Silenzio, che dice:
“Non c’è canzone che non finisca, il silenzio è necessario, per pensare, comporre, dare spazio agli altri o semplicemente stare lì, ad ascoltarlo (…) Aver paura della morte è come aver paura del silenzio e un musicista non ha, non può avere, paura del silenzio, perché senza di esso non esisterebbe la sua musica. Il silenzio permette di creare una nuova melodia, il silenzio è l’ultima cosa che si sente prima di iniziare l’esecuzione di un brano e, alla fine di ogni concerto, prima o poi torna a regnare il silenzio”.
Questi ragazzi hanno mostrato di aver profondamente compreso la necessità del morire, di essere consapevoli della strana e umanissima coesistenza di gioia e dolore, facendo fiorire, nei loro scritti, una concezione della felicità profonda e non stereotipata. Altro che veline e calciatori!
Hanno capito che per accompagnare chi muore occorre semplicemente stare, esserci, e saper ascoltare, come quella bimba del racconto La sarta del Paradiso, che ogni giorno dopo la scuola si reca in hospice dalla nonna e trascorre con lei il pomeriggio. Hanno colto quante cose può avere da raccontare chi muore: “All’hospice ogni paziente è importante, ogni paziente ha la sua storia e ad ogni paziente vengono riservate tutte le attenzioni possibili. A volte sono sufficienti le orecchie per ascoltare, anche perché non si deve pensare che alla fine di un viaggio loro non abbiano più niente da raccontare.”

Questo libro è un insieme di esperienze davvero uniche: per questo motivo vi invito ad acquistarlo e a rifletterci (Autori Vari, Preludi, Hever 2012). Senza dimenticare che il ricavato delle vendite è devoluto all’Hospice di Salerano.

E, come di consueto, chiedo la vostra opinione: cosa pensate di questa iniziativa di mettere i ragazzi a contatto con l’esperienza del morire? Come potrebbe essere replicabile? Come preparereste vostro figlio, se potesse fare la stessa esperienza?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/05/Hospice-Salerano.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-05-23 08:12:492018-10-23 18:42:14I giovani e la morte

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