E’ possibile imparare a chiedere aiuto?
Solo una piccola minoranza delle persone che affrontano una malattia complessa o invalidante, che sono in lutto, che assistono dei malati gravi, che hanno un figlio che si droga, che subisce violenza, riesce a riconoscere la propria fragilità e ad attivarsi per chiedere aiuto. Perché abbiamo tanta paura a rivolgerci a un sostegno quando siamo in difficoltà?
L’aiuto sociale, certo, è scarso, e le iniziative di sostegno privato o sono costose, o, se sono non profit, molto spesso comunicano in modo insufficiente la loro presenza. E’ un fatto che molte preziose associazioni che offrono gratuitamente sostegno per i più disparati problemi hanno spesso meno partecipanti di quelli che riuscirebbero a gestire. Gli amministratori pubblici seguono in genere la logica della domanda e dell’offerta, e ritengono che i cittadini non abbiano bisogno di aiuto se non lo rivendicano esplicitamente. Ma se i nostri concittadini sono pronti a pretendere aiuto economico quando sono in difficoltà, ignorano sovente che possano esserci anche altri modi per stare meglio: la solidarietà altrui, ad esempio, o l’esistenza di luoghi dove condividere una preoccupazione con altri, e maturare risposte collettive a problemi comuni. Siamo in genere molto lontani dal saper costruire contesti solidali. La cultura dell’auto mutuo aiuto tra esseri umani è tramontata (o forse non è mai sorta) , e i tentativi di farla vivere attraverso gruppi di pari che si incontrano su temi specifici non sono privi di ostacoli, nonostante gli incoraggiamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Tuttavia, perché? Perché non riusciamo a chiedere aiuto? Mi si affastellano molte idee nella testa. La prima riguarda l’individualismo della nostra cultura, di cui abbiamo già parlato in un recente post: ci hanno insegnato che valiamo tanto più quanto più siamo indipendenti, capaci di gestire autonomamente i nostri successi e insuccessi, risorgendo dalle nostre ceneri come l’araba fenice. Questa prospettiva è contraria all’antica dimensione della “comunità”, in cui la solidarietà tra individui faceva parte della quotidianità. Anche se magari accompagnata da un rigido controllo sociale, e quindi da una minore libertà, lasciava gli individui meno soli. E forse, avendo vissuto per millenni in comunità piccole, non siamo adatti a vivere come liberi battitori in un mondo smisurato e spesso ostile.
La seconda idea che mi viene riguarda il pudore, o addirittura la vergogna di sperimentare la sofferenza: essere malati, sentirsi disperati, esposti al dolore, sono modi di essere che sono spesso guardati con un certo sospetto, come se fosse colpa nostra se incontriamo il disagio nella nostra vita. Per questo, se non è proprio indispensabile, molti di noi evitano di rendere pubblico il proprio malessere, per sottrarsi all’allontanamento del prossimo, imbarazzato e incapace di confrontarsi con le emozioni negative.
Ma eccoci forse al punto nodale, almeno mi sembra: proprio le emozioni negative. Sfuggire loro non è oggi più il problema di alcuni individui nevrotici, sembra piuttosto essere la cifra distintiva di un’intera società. Non vogliamo soffermarci e provare dolore, pena, paura, tristezza, solitudine, spaesamento, e per non sentire abbiamo trovato un metodo eccellente e molto funzionale alla cultura dell’homo faber, nella quale siamo immersi, e all’economia capitalistica del XXI secolo: correre, frenetici, riempire la vita di oggetti, di impegni, di persone da vedere per pranzo e per l’aperitivo, di sicurezze da garantire a noi e alla nostra famiglia, di benessere materiale da raggiungere. A questa velocità non si prova nulla, né di negativo, né di positivo. Non dolore, ma neanche gioia e amore.
E condivido l’opinione di Sogyal Rinpoche che scrive, nel Libro tibetano del vivere e del morire: “E’ come se fosse la vita a viverci, anziché il contrario; come se possedesse una sua bizzarra dinamica che ci trascina via, e alla fine abbiamo l’impressione di non poter più decidere né tenere le cose sotto controllo”. E, paradossalmente, proprio il controllo era l’obiettivo di quell’inumana corsa.
Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, secondo voi, per incentivare la dimensione della solidarietà? Avete fatto esperienze interessanti?
Questa malattia (è sempre il mio punto di partenza………………..ci lavorerò! Mi ha insegnato a chiedere aiuto, ma non abbastanza e non bene. Dopo tutta la vita passata a credere nella mia sutosufficienza, non siamo preparati a fidarci e lasciarci andare quando ci aiutano: uno dei gioochi più belli che ho sperimentato in questo senso (in Umbria da jacopo Fo) consisteva nel lasciarsi bendare da uno sconosciuto della comunità, che poi ti conduceva per mano nel bosco a piedi scalzi. Dapprima perplessi, poi sempre meno. Bello! Parliamone!!!!!!!!!!!! Paola
C’è chi fa più i meno fatica, ma spero sia possibile imparare!
Io trovo difficile chiedere aiuto. Parlo di me e della mia nuova malattia (che pur in fase diagnostica, di tumore si tratta) con facilità, ma credo che soprattutto per chi lavora da metà della propria vita come me nel campo dei malati (ho cominciato come volontaria del 118 e poi come infermiera in un reparto oncologico) sia uno scalino tanto alto da salire. Per adesso chiedo aiuto perché vedo che quando lo faccio le persone che mi amano sono un po’ più serene. Lo faccio per amore verso di loro.
Mi sono trovata a più di un corso a fare l’esercizio di essere bendata e portata da uno, più o meno, sconosciuto ma non sono mai stata brava ad affidarmi completamente. Al contrario, mi sono sempre sentita forte dell’accompagnare un bendato! L’ironia della sorte…la vita!
Quando meno te l’aspetti…ti cambia le carte in tavola!
La difficoltà di chiedere aiuto… sì credo proprio dipenda dalla nostra società “individualistica” che premia, il vincente e il successo, e relega nella solitudine non solo il debole e il perdente, ma anche chi è in momentanea difficoltà. E molto dal pudore, dall’orgoglio e, come dici tu, dalla vergogna di sentirsi così miseri e deboli. E’ verissimo, abbiamo totalmente smarrito il senso della comunità. Ho letto di recente un bel libro di Alain De Botton, “Del buon uso della religione”, dove, da laico, lo scrittore lamenta che con la fede (o con una fede tutta risolta nel proprio intimo), si sia persa anche la dimensione COLLETTIVA degli eventi cruciali della nostra vita. Si è perso il rito, che ha una sua precisa funzione catartica. E questo è negativo, e ci condanna alla solitudine. Lui suggerisce di recuperare il rito in versione laica, non solo, come prevedibile, nelle nascite, nelle unioni civili e nei funerali, ma perfino nella messa. E’ possibile una messa laica? Sì, basterebbe scegliere fra gli infiniti esempi di saggezza in letteratura, e raccontarli, ripeterli, memorizzarli assieme come una liturgia per metter in comune i momenti più difficili o comunque più importanti della vita.
Da maschio, credo sia più difficile per la figura maschile chiedere aiuto: vuol dire perdere molto “aplomb” e orgoglio. Personalmente, nei momenti di difficoltà, sono ricorso due volte all’analisi, e questo mi ha cambiato la vita. In occasione del cancro, ho scritto su un altro blog. E, da “caregiver” in grande difficoltà con un fratello disabile, ho trovato molto conforto e sollievo nel confronto con altre persone in un gruppo di sostegno e di lavoro per “fratelli e sorelle” di disabili. Poi, con un piccolo gruppo di amici, ci siamo creati una famiglia più “vera” al di fuori di quella naturale, dove incontrarci in momenti belli (come i compleanni o la vigilia di Natale) come in quelli brutti, da condividere assieme. Piccole cose, ma tutta l’esperienza dell’uomo moderno rinchiuso nelle proprie tane-appartamenti andrebbe radicalmente ripensata, se non ribaltata. Altrimenti i momenti “cruciali” della vita ci troveranno sempre più soli e impreparati.
Mi sono dimenticato di parlare, oltre al saper chiedere aiuto, della dimensione della solidarietà. Nel bisogno, non ci si deve chiudere nella tana, ma aprirsi alla dimensione della condivisione, con chi è disposto (non tutti) ad ascoltarci. E far tesoro di queste esperienze, per essere d’aiuto agli altri. Non mi tiro indietro mai, anzi le cerco, cerco di fare uscire dalla loro “bolla” di disperazione, le persone che sono in difficoltà, sia che stiano attraversando una malattia grave, o un lutto. Non è un merito, mi viene spontaneo. L’empatia, ecco, è un dono, ma dovremmo essere anche “educati” a cercarla, a sentirla, a non vietarcelo, per inadeguatezza o per paura. Se si è preso coscienza della nostra fragilità, l’altro, quando vi si trova immerso, è nostro fratello. Eppure, questa cosa così semplice sembra tanto difficile da trasmettere…