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Tag Archivio per: felicità

Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

9 Aprile 2024/13 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Scrivo questo post a partire da un interessante incontro al quale ho partecipato in Vidas, insieme a Carlo Casalone e Luciano Orsi, il 5 marzo 2024, sulla buona morte. Ringrazio pertanto Caterina Giavotto per questo invito, che mi ha indotto a riflettere su questo tema.

Dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa significhi “buona morte”, ed evitare di dare per scontato questo concetto.

Occorre prima di tutto non mitizzarne il tema. L’obiettivo delle cure palliative è accompagnare, per ottenere la migliore qualità della vita possibile. Tuttavia, la buona morte non dipende solo dalla qualità delle cure, ma anche da come ciascuno di noi ha vissuto, e da come ha affrontato la domanda sulla morte nel corso della vita. Hans Küng, teologo cattolico della dissidenza, diceva che la buona morte è da un lato un compito, dall’altro un dono. Nella parola “dono” è espressa anche la parte di incontrollabilità che riguarda la buona morte, le caratteristiche e le evoluzioni della patologia. Nella parola “compito” c’è invece il ruolo della soggettività del paziente. E tuttavia, credo che la buona morte possibile non sia neppure un fatto individuale, ma risieda nella triangolazione della relazione tra paziente, familiari e curanti: un compito condiviso, quindi.

Ma la buona morte è buona per chi? Dobbiamo farci questa domanda, per evitare di proiettare, come curanti, la nostra idea di buona morte sul paziente, mettendo inconsapevolmente in sordina i suoi desideri. Ovviamente, la morte deve essere buona soprattutto per chi se ne va, ma è importante anche per chi resta (il lutto è influenzato dalla morte che ha avuto la persona cara, lo dico anche per esperienza personale). Questo non significa che il familiare possa prevaricare il volere del morente, ma che i curanti debbano sempre cercare di “portarlo con sé”, di non lasciarlo solo con i suoi timori o le sue fantasie. Un esempio potrebbe essere quello della richiesta, da parte del paziente, di sedazione palliativa, quando i familiari non sono pronti a separarsi dal loro caro. L’abilità dei curanti (Sonia Ambroset lo dice magistralmente nel suo libro sulla sedazione) consiste nella condivisione, nella spiegazione, nell’accompagnamento.

Talvolta ci si chiede se la buona morte possa essere un diritto. Io credo che ci siano diversi diritti da tutelare alla fine della vita. Primo tra tutti, garantito anche dalla legge 38/2010 (non ancora pienamente applicata), il diritto a ricevere cure palliative qualora ve ne sia l’esigenza. Poi la dignità delle persone, il rispetto della loro identità e unicità, malgrado la malattia e l’avvicinarsi della morte. Tutelare la dignità significa, per i curanti, rivolgere sguardi pieni di rispetto verso i malati. E significa anche, al contempo, preservare l’autodeterminazione, la capacità di compiere scelte. Vale la pena soffermarsi un attimo sul concetto di autodeterminazione. Benché spesso si pensi all’autodeterminazione come a un diritto umano, e come tale universale e già acquisito alla nascita (cosa peraltro vera), occorre tenere presente che non tutte le persone sono abituate a prendere decisioni per sé. L’autodeterminazione deve quindi essere un obiettivo concreto della cura, ossia le persone vanno accompagnate a prendere le decisioni migliori per sé, coinvolgendo le famiglie e le comunità (intese come reti di relazioni di ciascuno) e aiutandole a comprendere le scelte compiute dal loro caro.

Invece, non credo sia produttivo dare alla buona morte lo statuto di un diritto. Si rischia di scivolare in una vicenda analoga a quella della felicità. Definita la ricerca della felicità come diritto nel XVIII secolo, inserita come tale nella Costituzione americana, essere felici è poco per volta divenuto un dovere, o perlomeno una forte pressione sociale: se non hai saputo procurarti la felicità non vali nulla, se non sei felice sei un fallito. Non vorrei che toccasse la stessa sorte alla buona morte, se vogliamo definirla come diritto. C’è il rischio che si infiltri in questo concetto un elemento di giudizio (negativo) per chi, ad esempio, non riuscisse a conciliarsi con la propria morte.

Un altro punto importante è la preparazione alla morte: è importante al fine della buona morte, come afferma Küng?

Esiste una lunga storia dell’idea che sia necessario prepararsi alla morte per averne una buona. Scopo delle Artes Moriendi del 1400 era preparare il morente e coloro che lo assistevano, mediante la preghiera e il respingimento delle tentazioni. Erasmo da Rotterdam, nella sua celebre opera De praeparatione ad mortem del 1534, indica due “cure” contro la paura della morte: una invita il lettore a percorrere mentalmente le tappe della propria esistenza per rendersi conto della sua caducità e di quanto sia colma di preoccupazioni e di dolori; l’altra si incentra sulla fede in Dio, unica difesa atta a sconfiggere i limiti, le imperfezioni e la fragilità della condizione umana.

Ancora nel 1620 con il Cardinale Bellarmino indica come norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da procurarsi beni celesti.

Che ne è oggi della preparazione alla morte in un contesto molto secolarizzato? Ha senso? E’ possibile?

Nel suo libro Morire all’italiana, Asher Colombo ha fatto otto domande molto concrete a un campione di italiani sulla preparazione alla morte: ha chiesto se avevano dato disposizioni sul destino delle proprie spoglie; comunicato ai familiari la collocazione dei documenti importanti; espresso la propria volontà sulla donazione degli organi; lasciato le proprie DAT; pianificato il proprio funerale; comunicato le password dei propri account e social network; stabilito a chi affidare la cura dei propri cari; fatto testamento. Dalle risposte a queste domande Colombo deduce che circa il 43% degli italiani non si è preparato affatto alla propria morte. Ha senz’altro un valore, soprattutto per chi rimane, trovare le cose in ordine.

Io però credo che sia necessario un approccio più complesso. E penso che ci siano vari modi, anche molto personali, per prepararsi alla morte: pensarci, ad esempio, trovare una consolazione alla finitezza, informarsi sulle cure palliative, familiarizzarsi con la propria vulnerabilità e mortalità. Cose che è difficile indagare con un sondaggio.

Non possiamo eludere, inoltre, a proposito di buona morte, la questione della morte volontaria. La buona morte può essere anche morte nel tempo ritenuto opportuno dal morente? Credo che andiamo verso il riconoscimento della possibilità di scegliere di abbreviare il proprio tempo, anche in Italia. Con una legge, non solo mediante la sentenza della Corte costituzionale. La caratteristica del mondo in cui viviamo è la pluralità: delle religioni, delle credenze, degli stili di vita, degli atteggiamenti nei confronti della vita e della morte: quindi la chiave di volta dell’etica contemporanea, in sanità, è per me il rispetto delle diverse prospettive.

Occorre però che l’opzione del suicidio assistito non ostacoli la crescita delle cure palliative, altrimenti si finirebbe non per aumentare, ma per ridurre le scelte possibili.

Io non credo neppure, però, che il mondo delle cure palliative debba tirarsi fuori da questa riflessione. Credo anzi che, essendo l’unico soggetto ad avere dimestichezza con il fine vita, abbia molto da dire. So che ci sono sensibilità diverse su questo tema nel nostro mondo, e che alcuni rifiutano decisamente ogni interruzione prematura della vita. E so anche che esiste il timore che le persone rifiutino le cure palliative perché vengono ancora confuse con pratiche di abbreviazione della vita. E tuttavia, penso che a tale riflessione occorra andare incontro, facendo chiarezza, con un lavoro culturale costante e paziente.

Cosa pensate voi della buona morte? Che esperienze avete fatto? Pensate che si possa preparare?

Vi ringrazio in anticipo per i vostri preziosi commenti.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/04/costruire_la_buona_morte_rid.jpg__1200x675_q85_crop_subsampling-2_upscale-copia.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2024-04-09 11:20:522024-04-09 11:20:53Riflessioni sulla buona morte, di Marina Sozzi

Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi

12 Gennaio 2018/18 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Matryoshka doll set isolated on a white background

Perché abbiamo paura della morte? E soprattutto, è possibile addomesticare tale inquietudine, che per alcuni è un vero e proprio disagio con cui convivere?

Non parlo tanto, qui, della paura della morte che si manifesta nella prossimità della nostra fine biologica, ma di quell’inesausto sgomento che ci prende al pensiero della nostra finitezza, che può condizionarci a ogni età e in ogni situazione di vita. Quella paura che rende vano, e forse anche futile, il detto del filosofo greco Epicuro, secondo cui “se ci siamo noi, non c’è la morte, se c’è la morte non ci siamo più noi”. Infatti, nonostante questa sia un’indubbia verità, passiamo buona parte della nostra vita ad avere paura, perché vita e morte non sono realtà chiaramente distinte, ma aspetti fittamente intrecciati del destino umano.

La paura della morte è legata, nell’uomo, proprio all’acuta coscienza che egli ha del proprio limite. La morte rappresenta l’ignoto oltre la fine, il mistero per antonomasia, e gli esseri umani hanno sempre cercato soluzioni per attutire l’angoscia che ne deriva loro: risposte religiose, come quella del cristianesimo o dell’islam, che prefigurano altri mondi cui la morte apre il passaggio. O consolazioni laiche, come il pensiero dell’“eredità d’affetti” che ciascuno può lasciare all’umanità, sulla falsariga di Foscolo.

Il quesito è se sia possibile addomesticare, anche se non proprio superare, la paura della fine nel corso della nostra vita. Il filosofo Jankélévitch sosteneva che da un lato c’è la morte come legge naturale, necessità impersonale, perfettamente comprensibile e razionalizzabile. Dall’altro lato c’è la morte come minaccia concreta, inaccettabile, tragica e scandalosa, che incombe sul singolo individuo. In questo secondo significato la morte è inconoscibile e indicibile. Il pensiero si annienta se prende come oggetto la morte, e l’angoscia che essa suscita è legata al nostro tempo umano, all’impossibilità di rappresentazione, al crollo, all’annullamento, all’inabissarsi del pensiero stesso. Sembra dunque, come peraltro pensava anche Sartre, che sia impossibile prepararsi alla morte, e quindi anche affrontare la paura della morte.

A mio modo di vedere, però, occorre capirsi sul significato che diamo al temine “morte”. Se per morte intendiamo l’istante del trapasso, si può dare ragione a Jankélévitch.

Tuttavia, proprio per via della stretta implicazione che c’è tra vita e morte nella quotidianità umana, è possibile accostarsi al pensiero della finitezza in molti modi. Uno di questi è cominciare a guardare alla nostra cultura dal punto di vista della consapevolezza della mortalità. C’è infatti una difficoltà antropologica nell’affrontare la paura di morire, ma ce n’è una molto più grande che è di carattere culturale.

La nostra società ci impone infatti di non condividere socialmente l’ansia per la morte: parlare di morte è considerato segno di indelicatezza o di cattiva educazione, in particolare in presenza di persone anziane, bambini o malati. Il diktat del silenzio induce nella maggior parte dei nostri contemporanei la mancanza di elaborazione, perché l’uomo, animale sociale, non riesce ad accogliere e sistematizzare le proprie ansie e paure se non nella dimensione della condivisione. In questo clima, all’individuo non resta che cercare di sfuggire alle proprie ansie non pensandoci, distraendosi, mettendole da parte ogni volta che si presentano. Invece di cercare di fare i conti con la finitezza, scappiamo a gambe levate, buttandoci nel lavoro o in troppe relazioni superficiali, talvolta facciamo uso di sostanze psicotrope più o meno legali, acquistiamo oggetti inutili. Forse così facendo siamo funzionali alle logiche della civiltà nella quale viviamo, ma certo non contribuiamo alla nostra felicità.

Abbiamo citato la felicità. C’è forse un legame tra elaborazione della paura della morte e felicità? Penso di sì, a patto di non intendere per felicità l’insulsa spensieratezza che aleggia negli spot pubblicitari, a patto di comprenderla come quello stato di appagamento in cui coincidiamo con quel che siamo, perché abbiamo accettato i nostri limiti. E a patto, inoltre, di non illudersi di poter trovare, una volta per tutte, un’incrollabile serenità di fronte alla nostra morte. Ho sperimentato in prima persona, durante la mia malattia oncologica, la difficoltà della mente ad accogliere la propria possibile morte, il rifiuto di toccare la concretezza della fine. Attraverso quell’esperienza mi sono fatta l’idea che solo in una reale prossimità della morte biologica sarà forse possibile lambirla – se non coglierla – col pensiero.

Tuttavia, se si accetta che il dialogo con la morte ci accompagni negli anni, ritengo che il percorso di avvicinamento al pensiero della fine serva, e sia in grado, oltre che di addomesticare la paura, anche di arricchire all’inverosimile la vita: di emozioni, sensibilità, intelligenza. E di riempire di significato le relazioni più autentiche. Ce la dice lunga, a tal proposito, la lettera di Holly Butcher postata su Facebook il 3 gennaio e rapidamente diventata virale: “Voglio solo che la gente smetta di preoccuparsi così tanto dei piccoli stress insignificanti della vita e cerchi di ricordare che tutti abbiamo lo stesso destino, dopo tutto. Quindi: fai quello che puoi per far sì che il tuo tempo sia degno e grande.”

Ma come fare a venire a patti con la paura della morte? Pensiamo innanzitutto che essa non è un monolite, ma è composta da un insieme inestricabile di tante paure più o meno grandi.

Ottenere una migliore convivenza con questa paura, allora, comporta un processo elaborativo, che non può essere fatto in solitudine. Occorre rigirarsela in mente insieme a persone che ci comprendano, scomponendola, e guardando dentro a quel contenitore della Grande Paura, che sembra impossibile da aprire. Cosa troviamo là dentro? Timore della sofferenza? Della perdita della propria individualità? Del dolore di chi resta? Dell’annientamento del nostro mondo? Come bamboline russe, una dentro l’altra, possiamo imparare a estrarre queste paure più piccole una alla volta, esaminarle e cercare di comprendere la loro funzione nella nostra vita. Vedremo allora scendere il tasso di inquietudine, e cominceremo a capire cosa davvero è importante per noi.

Avere paura, sentirsi fragili, non è disdicevole, è umano. Non ce lo ripeteremo mai abbastanza. E Holly scrive: “E’ questa la cosa della vita: è fragile, preziosa e imprevedibile, e ogni giorno è un dono, non un diritto dato.”

Cosa ne pensate? E’ possibile ammansire la nostra paura della morte? Voi ci avete provato? Ci siete riusciti?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/01/Depositphotos_45512471_s-2015-e1515689547593.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-01-12 11:14:302018-01-12 11:14:30Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi

Sono vivo ed è solo l’inizio

10 Marzo 2014/10 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici, oggi vi propongo una riflessione su filosofia e morte. Fermi! non smettete di leggere, non intendo certo parlare della morte nella storia della filosofia, come ci hanno abituati a fare a scuola, lasciandoci spesso in compagnia di teorie mal digerite che apparivano fine a se stesse.
E’ stato molto bello invece discorrerne con Laura Campanello, che ha pubblicato presso Mursia un bel libro dal titolo: Sono vivo ed è solo l’inizio. L’ha scritto, mi racconta, proprio perché ha sempre avuto molta paura della morte, e ha dovuto quindi farci i conti. Il suo strumento privilegiato è stato la filosofia, o meglio la filosofia pratica, l’unica che la coinvolga, e che sorge come ricerca del senso della vita, per vivere meglio. Solo successivamente, Laura, come analista biografica a indirizzo filosofico, ha accompagnato i malati di tumore o di SLA nel loro percorso di malattia.

La meditazione della morte è dunque importante per la vita?
Senza dubbio. Montaigne parlava di libertà, Heidegger di autenticità dell’uomo, ma per me la sua funzione principale è farci arrivare alla fine della vita avendole dato un significato. Non quindi un “memento mori”, ma un “memento vivere”, non dimenticarti di vivere, ricordati di essere consapevole della tua esistenza, come scrisse anche Pierre Hadot.

La riflessione sulla morte è un esercizio individuale, o possiamo condividerla?
Dobbiamo condividerla, pensare alla nostra morte ci porta all’incontro con l’altro, come esplorazione e apertura. La condivisione va dunque concepita come confronto, come integrazione di sguardi diversi.

Cosa rispondi a chi ti dice di non sapere nulla di filosofia, di non possederla come strumento?
Io capisco che siamo abituati a considerare la filosofia come un pensiero complesso e inaccessibile, ma la si può praticare come ricerca di uno stile di vita, come capacità di posare uno sguardo diverso, straniato, su di sé e sugli altri, come possibilità di interpretare il proprio mondo. Noi siamo frutto di una cultura, ma non per questo non possiamo comprenderla e mutarne alcuni aspetti. Non occorre a questo fine conoscere necessariamente il pensiero di Hegel.

Tu citi spesso tre concetti: morte, filosofia e felicità. Come li metti insieme?
La filosofia, se intesa come consapevolezza della propria vita, ci protegge da due rischi: da un lato dai deliri di onnipotenza diffusi nella nostra società, che portano molta infelicità; dall’altro lato ci difende dalla depressione e dall’impossibilità di trovare un senso. Tra l’onnipotenza di chi si pensa immortale e l’impotenza totale, noi possiamo praticare la potenza, ossia l’agire, restando consci del limite e della misura. La felicità risiede nella capacità di accettare quello che non possiamo trasformare, e di intervenire su ciò che possiamo cambiare.

E voi? Pensate che filosofare sulla morte aiuti a dare un senso alla vita? Avete trovato altri strumenti? Altre strade che potete suggerire?

Ps. Per chi desidera leggere il libro di Laura Campanello, questo è il link di Amazon: http://www.amazon.it/linizio-Riflessioni-filosofiche-sullamorte/dp/8842552232/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1394208679&sr=8-1&keywords=laura+campanello.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2014/03/images-7.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2014-03-10 07:59:292014-03-10 07:59:30Sono vivo ed è solo l’inizio

Felicità e mortalità

28 Ottobre 2013/17 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Avete mai pensato quale incredibile filo rosso lega il tema della felicità a quello della morte?
Se non riuscite a vedere un legame tra le due cose, per prima cosa vi parlo della mia riflessione, e poi della mia esperienza.
Sono convinta che la felicità di ognuno di noi dipenda in buona parte dallo sguardo che abbiamo sulla vita, e su ciò che comporta essere vivi.
Non è il risultato di fatti oggettivi come diventare ricchi o ottenere il lavoro che volevamo. Questi fatti causano emozioni forse forti, e certamente piacevoli, ma non sono in grado di agire stabilmente sulla nostra percezione della felicità.
Invece, se siamo consapevoli di essere mortali, diveniamo capaci di apprezzare di più la vita, di godere del presente, di essere meno vittime del consumismo, di smettere di lamentarci di tutto a ogni piè sospinto, di sentirci quindi più stabili e più sereni. Il pensiero della morte, inoltre, scrive Salvatore Natoli,

«dissolve la boria, il delirio di onnipotenza, cambia il nostro modo di valutare le cose, dissipa la confusione tra ciò che è vano e ciò che è importante.»

Invece, la nostra cultura ha reso anche la felicità una specie di obbligo. Dobbiamo dimostrare di essere capaci di costruire la vita nel migliore dei modi, dobbiamo essere uomini di successo, donne in carriera. Manchiamo di tempo per noi e rincorriamo obiettivi futili, non sappiamo essere felici ma ci sentiamo in dovere di esserlo.

Nella mia vita, la prima volta che sono stata felice (nel senso di emotivamente stabile e capace di assaporare l’attimo) è stato quando ho scoperto di non essere immortale: paradossalmente, proprio quando ho pagato, da giovane, il mio tributo al tumore. Mi sento felice anche oggi, mentre invecchio e sono consapevole che il tempo a mia disposizione diminuisce. Felice perché ora, quel tempo, non scorre solo ineluttabile senza di me, ma riesco più spesso a cavalcarlo, farlo mio, accompagnarlo.
Vi chiedo, come sempre, di aiutarmi a raccontare, a spiegare questo legame tra mortalità e felicità. Oppure, anche di smentirmi. Voi vi sentite felici? E in quali circostanze vi siete sentiti felici?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/10/images.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-10-28 09:08:312013-10-28 09:08:31Felicità e mortalità

Il limite, la morte

13 Dicembre 2012/7 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Scriveva Alexis de Tocqueville nel 1835, La democrazia in America: “Chi mette il proprio cuore nell’esclusiva ricerca dei beni di questo mondo ha sempre fretta, perché non ha che un tempo limitato per trovarli, procurarseli e goderne. Il pensiero della brevità della vita lo pungola senza requie. Indipendentemente dai beni che possiede ne immagina a ogni istante mille altri che la morte gli impedirà di gustare, se non si affretta.”
Vorrei portare l’attenzione sul tema del limite, e di quel limite per antonomasia che è la morte. Ai lettori di questo blog è nota l’osservazione che i nostri contemporanei respingono il pensiero della morte e della stessa mortalità.
Lo fanno, in parte, proprio per non rendersi neppure conto del tempo limitato di cui parla Tocqueville, che renderebbe grottesche tante vite e tanti nostri obiettivi. La cultura occidentale mira al superamento di ogni limite, e considera un valore la dismisura, la crescita illimitata, la corsa cieca verso il futuro, e la trasgressione della norma. Accumulare oltre ogni limite, consumare senza freni, desiderare infinitamente: su questa mancanza di saggezza e senso della misura si fonda il nostro capitalismo avanzato.
Espungere il limite dalla nostra vita significa non potersi prendere alcuna responsabilità. La responsabilità poggia infatti sulla consapevolezza del diritto degli altri a essere, vivere e possedere nella stessa misura in cui noi lo facciamo. L’irresponsabilità ci conduce invece a esaurire le risorse del pianeta, a ignorare interi continenti che diventano sempre più poveri per via della nostra sconfinata ingordigia, e a eleggere governanti altrettanto irresponsabili. La responsabilità è saggezza, i greci dicevano “phronesis”, e questa parola significava consapevolezza del limite, che si contrapponeva alla dismisura, alla violenza, alla “hybris” verso gli uomini e gli dei. Quale senso della responsabilità personale posso avere se rifiuto di considerarmi mortale?
Tornare a riflettere sulla nostra morte può anche aiutarci a ritrovare quel brandello di felicità che sta nell’appagamento dei bisogni (che sono limitati, a differenza dei desideri) e nel godimento anche delle piccole gioie del quotidiano.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2012/12/imgres.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2012-12-13 10:24:132012-12-13 10:24:13Il limite, la morte

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