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Tag Archivio per: demenza

C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

22 Gennaio 2022/8 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Altre volte su questo blog ci siamo chiesti come muoiano i nostri anziani, soprattutto quando sono ricoverati in RSA (Residenze sanitarie assistenziali). O meglio, quando abbiano voluto o dovuto eleggere come loro “casa” una di queste strutture, perché non più del tutto autosufficienti o perché affetti da una forma di demenza.

Ora, negli ultimi mesi ho avuto modo di seguire (perché coordinato da me) un progetto di formazione in cure palliative in quattro RSA dell’area metropolitana torinese. Si è trattato di un progetto simile al progetto VELA, portato avanti già anni fa da Franco Toscani in Lombardia.

Come sono innanzitutto organizzate le RSA?

Nelle Residenze ci sono in genere moltissimi OSS (operatori sociosanitari, che fanno un corso biennale per prepararsi alla professione), alcuni infermieri, pochissimi o nessun medico (talvolta, a parte il direttore sanitario, i medici di riferimento sono solo i medici di medicina generale che raramente, o solo per ragioni di emergenza, si recano in struttura a vedere i loro pazienti). Gli OSS sono circa da 4 a 7 volte più numerosi degli infermieri. Non dappertutto è previsto uno psicologo nell’organico, o qualche fisioterapista.

Gli OSS svolgono quindi buona parte del lavoro di cura, sono in maggioranza stranieri, sono pagati poco e in genere non prendono parte alle decisioni di carattere sanitario che riguardano i pazienti. Questo accade per ragioni gerarchiche, nonostante il fatto che gli OSS siano le figure maggiormente a contatto con i residenti, e che abbiano quindi un’idea piuttosto precisa delle condizioni di salute di ciascuno e del loro eventuale peggioramento.

In questa situazione cosa accade quando un paziente si aggrava, perde autonomia, comincia a mangiare meno, a non alzarsi dal letto? Raramente i familiari vengono avvertiti, e preparati alla realtà del declino, e all’avvicinamento del loro congiunto alla fine della vita.

Accade ancora troppo frequentemente che, ad esempio, quando una persona non riesce più a deglutire (è un decorso frequente nelle forme di demenza) venga inviata in ospedale e si passi all’alimentazione artificiale, rischiando di aggiungere sofferenza a sofferenza. Le evidenze scientifiche dicono che in quei casi l’alimentazione artificiale non contribuisce al benessere della persona (quindi non migliora la qualità della sua vita) e neppure aumenta la quantità di vita residua. Inviando al Pronto Soccorso, tuttavia, si rimanda comunque il “problema” (e la responsabilità) ad altri, perché nessuno in RSA è pronto a prendersela.

“E’ la famiglia che ci chiede di mandare il parente in Pronto soccorso”, dicono sovente gli operatori. E certamente è più probabile che ci sia questa richiesta in un contesto in cui le famiglie non sono state adeguatamente preparate a quello che sarebbe accaduto. Se avessero saputo per tempo che l’evoluzione della demenza avrebbe portato il loro caro a non poter più mangiare (e che quello sarebbe stato anche un segno dell’avvicinarsi della fine), forse avrebbero potuto accettarlo ed evitare inutili e gravosi spostamenti e sofferenze a chi sta morendo.

L’altro grave esempio delle conseguenze di una preparazione carente delle équipe curanti in RSA è la sottovalutazione del dolore (e quindi il suo mancato trattamento) nelle persone con decadimento cognitivo, che non sanno quindi spiegare dove hanno male e come questo dolore si presenti. È frequente che vengano fraintesi l’agitazione, i lamenti, il pianto, da parte di operatori che interpretano questi sintomi come dovuti al declino cognitivo, mentre sovente sono segni di un dolore non controllato.

Nelle RSA la permanenza media degli ospiti è di poco più di 12 mesi, ed è chiaro che le persone che vi abitano si trovano nell’ultimo miglio della loro vita. Alcuni vivono in RSA meno, molto meno di 12 mesi. Come è possibile quindi che non si rifletta sull’esigenza di garantire una buona qualità della fine della vita in questi luoghi (dove tutti i residenti, o quasi tutti, concludono in effetti la loro vita?)

Ciò che manca, insomma, nelle strutture per anziani, è la sensibilità palliativa, l’approccio palliativo, l’attenzione per la sofferenza e il disagio, le competenze comunicative con gli ospiti e con le famiglie.

Come fare dunque a sollecitare questa attenzione e questo approccio in tutti coloro che lavorano in queste strutture, così da garantire una vita e una morte dignitosa a chi ci abita?

La prima cosa da insegnare al personale è a porsi quella che è stata definita la “domanda sorprendente”, che consiste nel chiedersi, per ogni paziente, o ospite (nel caso delle RSA): “Sarei sorpreso se questa persona morisse nel giro di sei mesi o un anno?”. Se la risposta è “No, non sarei sorpreso”, quello è già il momento per dare inizio a un approccio palliativo.

Le prossime sfide, per le cure palliative (che avranno finalmente una scuola di specialità per i medici), sono: 1) ampliare i luoghi di cura in cui saranno disponibili cure palliative (quindi anche gli ospedali e, appunto, le RSA); e 2) fare in modo che le cure palliative siano applicabili a ogni patologia (e gli anziani ricoverati in RSA spesso sono persone molto fragili, portatrici di più di una patologia cronica e degenerativa).

Certamente, formare gli operatori delle RSA è di primaria importanza, sia per le persone che vi risiedono, sia per i loro familiari, spesso carichi di sensi di colpa per non riuscire a curare a casa il loro caro; sia inoltre per i curanti, affaticati sia fisicamente sia emotivamente, a maggior ragione con il Covid (e infatti un veloce turn over degli operatori in queste strutture è usuale).

Ma occorre anche che i decisori (come si dice con un brutto termine) richiedano alle RSA la competenza già acquisita in cure palliative di base per accreditare le strutture. In questo modo l’adeguata formazione non sarebbe iniziativa singola di alcuni direttori sanitari particolarmente sensibili e lungimiranti, ma la norma.

Avete esperienze che riguardano la cura in RSA? Cosa pensate dell’auspicio che vi sia una formazione alle cure palliative in queste strutture per anziani?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2022/01/CurePalliative-e1642761170837.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2022-01-22 09:00:002022-01-21 11:44:03C’è bisogno di cure palliative in RSA, di Marina Sozzi

Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo

13 Dicembre 2019/14 Commenti/in Riflessioni, Vecchiaia/da sipuodiremorte

Quando si parla di Alzheimer, o più in generale di demenza, una serie di immagini e di emozioni negative si affastellano nella nostra mente: una memoria che sbiadisce e progressivamente si perde nell’oblio, un volto smarrito incapace di riconoscersi nello sguardo dei propri familiari, la perdita lenta e inesorabile dell’autonomia e dell’identità, e tanti altri frammenti disturbanti che la nostra coscienza tende a scacciare e a non voler vedere.

Nel mio lavoro di neuropsicologo mi trovo quotidianamente a interagire non solo con i malati di demenza, ma soprattutto con le persone che se ne prendono cura, e che, oltre a lottare quotidianamente con gli spettri di una vita che va pian piano dissolvendosi, si trovano a dover arginare con la sola forza dei propri strumenti il mare di difficoltà e di impotenza che minaccia di travolgerli; queste persone vengono chiamate ‘caregiver’.
Sin dalla prima seduta, che sia di gruppo o individuale, o persino durante un incontro casuale davanti a un caffè, un caregiver mi pone la fatidica domanda che presto o tardi qualunque neuropsicologo si trova a dover fronteggiare: “cosa devo fare”? e poi ancora: “Quali sono le parole, le mosse ed i comportamenti ‘giusti’?”
La verità è che non esiste una risposta univoca; ogni cervello, e ogni storia che esso racchiude scolpita nei suoi neuroni, porta una costellazione e un marchio unici; di conseguenza elaborare delle soluzioni generali che valgano per tutti gli individui è impossibile.
Tuttavia, anche se non è possibile creare un algoritmo, non è detto che non possiamo farci guidare da buone domande che ci aiutino a non smarrirci nella difficile avventura di diventare un caregiver.
Quando mi trovo davanti un caregiver, le domande che devo pormi per cercare di comprenderne il dolore, e che allo stesso tempo devo cercare di rendere il più possibile familiari ed automatiche nella sua mente sono le seguenti:

Qual è il tuo modo di ‘andare in allarme’?

Nel momento in cui viene percepita la presenza di un altro essere umano in difficoltà attraverso uno dei nostri cinque sensi, nel nostro cervello si attiva un meccanismo di allarme antico e potente che ci spinge a dirigere irresistibilmente la nostra attenzione sulla fonte della sofferenza, lasciando sullo sfondo altri stimoli che sino ad un secondo prima ci sembravano interessanti. Tutti noi abbiamo sperimentato, ad esempio, il senso di urgenza di voltarci verso un bambino che scoppia a piangere mentre siamo sull’autobus.
Il senso di urgenza ci guida come un magnete verso i modi migliori per dare aiuto a chi sta soffrendo, ma risente anche delle nostre esperienze precoci; non tutti abbiamo imparato a gestire allo stesso modo quel suono penetrante dell’allarme che ci scatta dentro di quando in quando.
Alcuni di noi hanno imparato negli anni a silenziarlo, per non venire assordati dalle continue richieste di un ambiente familiare colmo di emergenze pressanti; altri hanno dovuto imparare a riconoscerne anche le frequenze più flebili, appena udibili nelle loro case ovattate da finzioni e cautele genitoriali; altri ancora al minimo suono sobbalzano terrorizzati e immaginano scenari terrificanti che li paralizzano e li rendono incapaci anche solo di pensare.
Quando prendo in carico un caregiver, conoscere il suo modo personale -sedimentato negli anni- di fronteggiare l’allarme mi permette di entrare in risonanza in modo autentico con la sua mente e il suo cuore, e di costruire nel tempo quella che chiamo “manopola di regolazione”, ossia una serie di strategie personalizzate utili a gestire l’intensità del suono emotivo.
L’alleato più prezioso che ci viene in soccorso in questo delicato compito è il corpo; attraverso esercizi mirati e ripetuti, è possibile aumentare il senso di sicurezza e di padronanza, partendo dalle sensazioni fisiche, ottenendo risultati duraturi e che non passano attraverso i canali verbali. Maggiore è la padronanza che un caregiver riesce a ottenere sulle proprie reazioni fisiche in caso di allarme, maggiori saranno le possibilità di agire in modo efficace e senza inutile dispendio di energie.

Qual è il tuo modo di dare aiuto?

La fase dell’allarme è solo la prima di un lungo processo: dopo che il suono si è attutito e il nostro caregiver può nuovamente contare su una maggiore presenza di spirito, un nuovo scenario mentale si apre, e si attiva il sistema atto a percepire i bisogni dell’altro e a preparare il proprio armamentario di accudimento a fornire aiuto.
Anche questo sistema è guidato in parte dalla biologia, e in parte è condizionato dalle esperienze apprese sin dalla tenera età; in altre parole, ciascuno di noi ha lo stesso strumento che possiedono gli altri esseri umani, ma ha imparato a suonare una melodia leggermente diversa e personalizzata.
Continuiamo con gli esempi: alcuni di noi, magari abituati a maneggiare con cura le emozioni per non rischiare di scottarsi troppo, preferiranno dare aiuto “con la testa”, magari cercando per ore la carrozzina tecnologicamente più avanzata, o organizzando i referti di visite e esami in ordine cronologico per facilitare al massimo le visite cui –puntualissimi- accompagneranno il proprio caro.
Altri cercheranno di mantenere un tono di voce più alto e si muoveranno un po’ più in fretta del necessario per cercare di mantenere un ritmo sufficiente a sganciarsi da quel suono fastidioso e continuo. L’ansia li aiuterà ad essere efficienti e non fermarsi, e la loro giornata sarà piena di impegni e preoccupazioni, dalla corsa dallo specialista, telefonando lungo la strada ad una decina di amici per informarli della situazione, fino al pomeriggio, in cui cercheranno di somministrare tutti i farmaci nell’ordine giusto, preoccupandosi di ricontrollare più volte.
Altri ancora si sentiranno confusi; la memoria silenziosa di un genitore a sua volta smarrito spegnerà il loro sistema di orientamento nel mondo, facendoli sentire in balia delle proprie sensazioni, e rendendo loro estremamente difficile prendere decisioni.
La conoscenza della personale modalità di accudire è uno strumento insostituibile per cercare di mantenere il caregiver in una zona di sicurezza, ben protetto sia da un eccessivo prosciugarsi di forze sia da una distanza eccessiva.
Anche in questo caso la conoscenza del proprio corpo costituisce un prezioso alleato; imparare a riconoscere e dare spazio alle sensazioni che il nostro corpo ha imparato a comunicarci in tutte le nostre esperienze di accudimento ci aiuta a mantenere saldo il focus sull’obiettivo di fornire cure adeguate e misurate.

Quale può essere un buon modo per tenerti al sicuro? Quali risorse possiedi?

Il sistema di allarme e quello dell’accudimento operano in modo analogo al termostato che regola la temperatura della nostra casa: una volta raggiunta una condizione ottimale, essi semplicemente si spengono.
Anche noi, quando vediamo che i nostri sforzi hanno risolto un problema, e che la fonte di sofferenza che ci ha attivati si è infine placata, smettiamo di affannarci e percepiamo un piacevole sollievo, insieme a un senso di soddisfazione nel vedere che la situazione si evolve verso uno scenario di tranquillità.
Ad esempio, proviamo a pensare alla tiepida emozione che ci pervade dopo aver consolato un amico in difficoltà, o alla pace che sentiamo nel corpo nel vedere che il nostro bambino smette di piangere dopo che l’abbiamo consolato.
Il problema delle demenze risulta purtroppo evidente prima ancora della fine di questa frase: poiché la condizione di un malato di demenza non è curabile e si aggrava progressivamente, il sollievo di assistere alla guarigione non arriverà mai. Fanno ovviamente eccezione quei momenti in cui un caregiver riesce a rendere più piacevole o confortevole un momento della giornata del proprio caro, e possono essercene davvero tanti. Ma la sostanza rimane la stessa; lo sforzo di accudire sembra non avere fine.
Di solito propongo due strategie ai familiari consumati dallo sforzo di accudimento.
La prima è trovare, elencare e imparare ad accendere le nostre risorse, che possono essere di vari tipi: somatiche, emotive, spirituali, naturali e altre ancora. L’esperienza di accesso alle risorse permette di ricaricare le energie e di contattare la nostra parte di autoguarigione.
La seconda, di gran lunga più importante, è smettere di accudire.
Probabilmente questa frase suonerà come un pugno nello stomaco per molti.
Può sembrare un gioco di parole, ma l’accudimento non è affatto l’unico sistema a nostra disposizione per dare cure; esiste anche un’altra opzione, che è quella della cooperazione. Cooperare significa mettere le proprie forze a disposizione di una squadra per raggiungere un obiettivo comune, ma senza dover compiere in prima persona tutto il lavoro.
Troppe volte i caregiver restano incastrati in una logica di accudimento forsennato e si sostituiscono totalmente ai loro cari nelle incombenze, per quanto piccole, della vita quotidiana; troppo spesso le loro energie vengono spese tutte insieme, e al tempo stesso il malato sviluppa il sospetto – che diventa rapidamente convinzione – di non essere in grado di adempiere a nessuno di quei compiti che vede svolgere con tanta solerzia da chi gli sta accanto.
La convinzione del malato di non essere in grado di portare a termine un compito si trasforma nella rinuncia a provare: la psicologia chiama questo fenomeno ‘impotenza appresa’. Ma un malato che “non ci prova nemmeno” diventa rapidamente un peso maggiore, e richiederà una quantità ancora maggiore di sforzi assistenziali da parte del caregiver: il circolo vizioso che si instaura è tristemente evidente.
Un caregiver cooperante è una persona che accetta di abdicare alla pretesa di essere insostituibile (e non sempre tutti gradiscono questo pensiero) e di delegare al malato una parte del carico – proporzionata alle risorse in suo possesso – per lavorare insieme e ottenere un risultato condiviso.
Questo scenario mentale costituisce la base di una pratica quotidiana in grado di distribuire il carico emotivo fra caregiver, malato, e tutte le persone della rete familiare, amicale e medica che potranno e vorranno essere coinvolte nel gioco di squadra.
Potenziando le abitudini cooperative, il caregiver potrà così conservare le sue preziose riserve di cura per tutte quelle situazioni in cui il malato non potrà partecipare al gioco, aumentando i tempi di ricarica e prevenendo così la temibile sindrome da burn out da accudimento.

Come non smetto mai di ripetere, il caregiver è membro attivo e principale dell’equipe curante; riconoscerlo è facilissimo: è quello senza camice.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/12/Depositphotos_23935969_s-2019-2-e1576074434883.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-12-13 11:30:292019-12-13 11:30:29Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo

Comunità solidali di fronte alla fragilità, di Marina Sozzi

15 Settembre 2017/6 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

21271030_1474467749310449_5263376865317668614_nSono stata ai primi di settembre all’atteso evento dell’Alzheimer Fest, a Gavirate, sul lago di Varese, dove ho percepito un’inedita atmosfera di inclusione, di accettazione, di rottura dello stigma.

L’inclusione è di fondamentale importanza sia per i malati (che mantengono per intero la sfera delle emozioni, e quindi provano il dolore dell’isolamento e percepiscono l’altrui disagio) sia per i familiari e caregiver, soprattutto donne (che si trovano spesso prigioniere all’interno delle case, nel mondo del malato, che non può essere “portato fuori” per il timore di comportamenti incongrui o inquietanti per gli altri). Benché importante, l’inclusione è veramente ai primi passi nel nostro paese, per molteplici e complesse ragioni: tendiamo a pensare l’uomo come coincidente con la sua razionalità, sulle orme di Cartesio, e quindi il malato di demenza appare come un non-uomo, come un’alterità difficile da approcciare; il vecchio, anche se lucido e presente a se stesso, è marginalizzato in una cultura che esalta la giovinezza e la bellezza fisica, il piacere e il dinamismo: a maggior ragione lo sarà il vecchio malato di demenza; la creatività istituzionale non è il nostro forte, pertanto sono ancora isolate le esperienze di cura dell’Alzheimer fuori dagli schemi finora utilizzati, mentre le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) scoppiano nonostante i loro costi da capogiro, e le famiglie stanno in lista d’attesa per mesi o anni prima di potervi accedere, arrangiandosi nel frattempo.

Val la pena però ricordare alcune buone prassi, nella speranza di sollecitarne di nuove. Oltre all’Alzheimer Fest – dove le famiglie e le associazioni hanno potuto portare i malati, per i quali erano state pensate molte attività da fare insieme alle persone sane, in un’atmosfera che ha saputo essere al contempo seria e festosa – voglio citare i progetti di Dementia Friendly Community. Nel mondo, le “comunità amiche delle persone con demenza”, sono state sostenute da governi, associazioni, imprese ed esercizi commerciali, con l’obiettivo di alzare il livello di consapevolezza pubblica sulla demenza e di ciò che comporta, e offrire supporto e comprensione alle persone che ne soffrono e a coloro che se ne prendono cura. Giappone e Regno Unito hanno fatto da apripista, seguiti da Australia, Canada, India, Indonesia, Irlanda, Olanda, Belgio, Scozia e Sri Lanka. In Italia il progetto pilota è stato avviato dall’Associazione Alzhiemer Italia, e realizzato dal comune lombardo di Abbiategrasso, di 32.000 abitanti, di cui 600 con demenza, seguito dai comuni di Conegliano, Giovinazzo, Scanzorosciate e, grazie al lavoro della Diaconia Valdese (e del Rifugio Carlo Alberto), dalla Val Pellice.

Cosa vuol dire Dementia friendly community? Una comunità solidale è quella in cui le persone con demenza, spesso disorientate e spaventate, sono comprese e rassicurate; in cui i malati sentono di poter ancora partecipare alle attività che hanno sempre fatto parte della loro esistenza (anche solo entrare in un negozio o un bar, andare dal parrucchiere, frequentare un circolo ricreativo), e di poter ancora godere della vita, contando sulla sensibilità dei concittadini, e sulla loro capacità di non discriminarli, anche in virtù della conoscenza della malattia. Per entrare nel novero delle Comunità solidali, dunque, occorre fare progetti di sensibilizzazione e formazione per tutti, dagli esercenti pubblici a insegnanti e alunni delle scuole, dagli operatori sanitari ai semplici cittadini.

Ma perché le persone aderiscono a questi progetti, e accettano di utilizzare il loro tempo per acquisire la capacità di comprendere la malattia, e quindi di essere pazienti ed empatici con malati che hanno perso o stanno perdendo le capacità cognitive? Forse perché, nonostante i valori dominanti nella nostra cultura, ciascuno di noi sente almeno confusamente la propria fragilità umana, e sa che riconoscere la vulnerabilità di altri esseri umani fa paura perché rispecchia la propria, ma è l’unico modo per stare nel mondo in modo consapevole. Cosa ne pensate?

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La giornata dell’Alzheimer e i media

14 Settembre 2015/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Forse perché il 21 settembre è la giornata mondiale dedicata all’Alzheimer, nelle ultime settimane abbiamo assistito a un infittirsi, su quotidiani, testate online e agenzie, di notizie riguardanti questa e altre forme di demenza.
Ottimo, direte voi. Purtroppo (con alcune pregevoli eccezioni), non si può fare a meno di commentare la qualità, a essere generosi scadente, di queste notizie. Facciamo un breve itinerario attraverso titoli e sottotitoli, tanto per darvi l’idea, nel caso in cui non vi fossero capitati sotto gli occhi.
La Gazzetta dello Sport: “Fitness, l’Alzheimer si può prevenire con l’attività fisica”. Adnkronos: “La prevenzione dell’Alzheimer comincia a tavola, se si segue la dieta mediterranea” (di questo pare si sia parlato all’Expo di Milano). Online-News: “L’obesità over 50 accelera l’Alzheimer”, e qui val la pena leggere anche la prima frase dell’articolo: “Ogni punto in più dell’indice di massa corporea corrisponde ad un anticipo dell’insorgenza della demenza di circa 7 mesi” (la notizia si trova anche su Affari Italiani). Humanitas Salute: “Alzheimer, dal caffè un aiuto contro demenza e declino cognitivo?” L’articolo poi dice che una tazzina al giorno riduce il rischio di deterioramento cognitivo lieve, mentre chi ne beve troppo corre più pericoli. Chissà qual è il giusto mezzo?
La Stampa salute: “Le noci contro la malattia di Alzheimer” e, sempre sullo stesso giornale, ecco in sintesi i consigli per la prevenzione (dato che, come è noto, la cura ancora non c’è): 1. Esercizio fisico, 2. Seguire la dieta mediterranea, 3. Gestire altre condizioni di salute, in particolare il diabete, 4. Evitare di fumare, 5. Usare il cervello. Non mancano notizie sulla minore incidenza dell’Alzheimer nelle classi sociali superiori e più istruite (sarà, ma come dimenticare Ronald Reagan e la Margaret Thatcher?).
Ora, vi ricordate le raccomandazioni per prevenire il cancro? Se si esclude l’uso del cervello, sono esattamente le stesse. E’ senz’altro lodevole che si voglia indurre la popolazione ad adottare uno stile di vita sano, anche se il metodo risulta essere un maldestro tentativo di risparmiare sulla sanità, con poca attenzione al reale benessere degli individui. Non credo infatti sia lecito farlo spargendo il panico sulle malattie che fanno più paura: Il Sole 24ore ci parla di una diagnosi di demenza (nel mondo) ogni 3 secondi, di una vera e propria epidemia. Un caso ogni tre secondi su una popolazione mondiale di 7,36 miliardi, significa lo 0,00014% circa. Scritto così, inquieta certo molto meno: il modo in cui vengono date le notizie è senz’altro scandalistico.
Curioso, peraltro, che l’Italia non faccia per nulla eccezione nell’incidenza dell’Alzheimer. La dieta mediterranea non era decisiva per la prevenzione?
Tutte queste notizie fanno naturalmente riferimento a ricerche o a ipotesi di ricerche sfuggite agli studiosi, studi sovente non ben impostati, non sufficientemente sperimentati o confermati dalla comunità scientifica internazionale. Così gli articoli, invece di fare informazione, aumentano la confusione. Un esempio particolarmente opportuno? La recente ipotesi di una trasmissibilità della malattia, dovuta alla scoperta di depositi di proteina beta-amiloide (tipici dell’Alzheimer) in pazienti che avevano contratto la malattia in seguito a somministrazione di ormone della crescita tratto dalla ghiandola pituitaria di cadaveri.
Mentre scrivo di questa ipotesi, io, che non sono un ricercatore né un medico, fatico a capire bene. Mi è chiaro, però, che se ne sa ancora molto poco, e che c’è polemica intorno a questa presunta scoperta (peraltro si parla di otto casi su 30.000 esaminati).
Perché allora decine di giornali in tutto il mondo hanno titolato L’Alzheimer è contagioso? (contagioso è tutt’altra cosa che trasmissibile attraverso materiale contaminato), facendo crescere il panico in coloro che accudiscono un malato di demenza?
Sappiamo che le malattie che sono ancora poco chiare, come il cancro e l’Alzheimer, spaventano. Sappiamo anche che i cittadini sono spesso pronti ad accogliere notizie improbabili, pur di non restare nel dubbio. Proprio per questo è riprovevole che le testate giornalistiche, per creare la “notizia”, cerchino di colmare le lacune della scienza, producendo illusioni o terrori.
Inoltre, sfogliando i giornali in questi giorni, sorge un’ultima ma centrale domanda: perché così pochi articoli su chi si occupa di assistenza? Sulle difficoltà delle famiglie che hanno un malato tra i loro congiunti? Sui problemi della sanità pubblica e delle amministrazioni nel sostenere i malati e i loro caregiver? Sul fatto che esistono numerose situazioni in cui i malati di demenza vivono soli, costituendo un enorme pericolo non solo per sé, ma anche per i loro vicini?
Perché non si parla delle associazioni che compiono un importante lavoro di sostegno? Perché non si danno informazioni alle famiglie sui loro diritti e sulle opportunità di aiuto?
Facciamolo noi, insieme, cari amici.
Se avete avuto esperienze di aiuto efficace nell’assistere un malato di demenza, raccontatela, così come vi chiedo di narrare le vostre difficoltà.
Io mi impegno, in una serie di articoli che seguiranno questo, a dare indicazioni sulle risorse presenti sul territorio della provincia di Torino.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/09/Alzhei-e1442156665374.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-09-14 18:10:022015-09-14 18:10:02La giornata dell’Alzheimer e i media

La demenza e la paura di dipendere dal prossimo

16 Giugno 2015/15 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Vorrei oggi provare a guardare la malattia d’Alzheimer da un punto di vista inconsueto, che definirei culturale.
Mettiamo per un breve periodo tra parentesi la paura che succeda ai nostri cari o a noi stessi. Facciamo cadere in un momentaneo oblio le immagini che abbiamo dei malati che ci è accaduto di andare a trovare o di curare a casa: le loro parole per noi prive di senso, il loro errare senza sapere dove, le loro fughe, la loro confusione, e la rabbia, lo sguardo perduto, l’immobilità vuota, l’impossibilità di riconoscerci, il loro perdere progressivamente l’abilità di vestirsi, lavarsi, alzarsi, mangiare. Dimentichiamo anche la nostra sconsolata disperazione, il nostro sentimento di solitudine, se si è trattato di una persona per la quale abbiamo nutrito affetto. E i molteplici problemi pratici ed economici che l’assistenza ha creato o crea.

Vi sto chiedendo molto? Avete ragione… “a che pro?” vi domanderete.
Vorrei riflettere su un timore diffuso, quello di PERDERE L’AUTONOMIA e di DIPENDERE DA ALTRI. Si tratta forse della “Paura” per antonomasia, che ci destabilizza almeno quanto quella di soffrire o di morire. Anche se dipendere da altri è una necessità in molte patologie, il malato di demenza rappresenta l’incarnazione di questo terrore, poiché il decorso della malattia è una progressiva scomparsa della memoria e delle abilità acquisite.
Così, a volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “se mi ammalo di demenza, mi uccido”. “Stare al mondo con la demenza è vegetare, non vivere”. “Nel mio testamento biologico ho scritto che non voglio mi si diano antibiotici se avrò una complicazione polmonare, frequente nei malati di Alzheimer” (questo è quello che ho detto io).

Perché ci fa tanta paura dipendere da altri? Che timore nascondiamo, esattamente, dietro quel senso di disagio intollerabile, al solo pensiero di non essere autonomi? C’è qualcosa che possiamo fare per mitigare la nostra paura?
Vi ricordate quando eravamo bambini e avevamo la febbre? Era una pacchia mangiare sul vassoio che la mamma portava a letto, la spremuta d’arancia, i giornalini nuovi, papà che tornato dal lavoro si fermava in camera nostra… da piccoli non avevamo paura di non essere autonomi, di essere di peso, di dipendere dalle cure altrui. Cosa ci è successo dopo, quando siamo entrati nel mondo adulto?
Nella nostra cultura vige l’idea che fare da soli sia un valore (“si è fatto tutto da sé”), e che l’individuo costituisca l’unità minima della società (non la famiglia, non la stirpe). E cosa intendiamo per “individuo”? Un uomo con una personalità definita e stabile, razionale, padrone del proprio destino, in grado di dominare le proprie emozioni e di scegliere per sé, facendo riferimento solo alla propria volontà (senza ledere l’altrui libertà) in qualunque circostanza.

Ma siamo proprio sicuri che l’individuo autonomo, slegato dagli altri e indipendente sia il primo tassello su cui si fonda la nostra società? Non potrebbe essere il contrario? A me pare che sussista una dimensione collettiva, un “noi” che permette all’”io” di esistere: la visione dell’individuo vincente nel pensiero occidentale non pare realistica. Non nasciamo nell’iperuranio, ma in una certa porzione del pianeta Terra, in un determinato paese, in una certa epoca storica, in una famiglia, che ha reti di relazioni amicali e lavorative: siamo, quindi, dipendenti da mille fili invisibili che contribuiscono a costituire e legittimare le nostre emozioni, le nostre opinioni, le nostre scelte. Non siamo soli al mondo, apparteniamo a molti insiemi umani, a molti “noi”, che non sono immutabili (perché evolvono nel tempo) ma che ci condizionano in diversi modi, nel corpo ancor prima che nella mente. E corpo e mente, contrariamente alla tendenza occidentale a tenerli distinti, sono tutt’uno. Già Lévi-Strauss aveva messo in luce l’insistenza tematica, quasi la fissazione della cultura occidentale sull’io a discapito del noi. Il grande sociologo Baumann ci ha mostrato, più recentemente, il prezzo che paghiamo all’individualismo imperante, alla frammentazione, all’oblio della fragilità umana e della solidarietà: una solitudine senza fine.

In virtù di questo insieme di idee mitologiche sull’individuo autonomo e indipendente, da adulti tendiamo a dimenticare che la fragilità, l’impotenza, il bisogno d’aiuto che sono evidenti nel bambino, nell’anziano, e ancor più nell’anziano malato di demenza, sono universali, fanno parte dell’essere uomini. Dipendiamo dagli altri per tutto il corso della nostra vita, senza accorgercene. Poi, se ci ammaliamo, la dipendenza si manifesta, con tutti i tormenti, legati al sistema di valori nel quale viviamo, che si aggiungono al dolore di essere malati. E cominciamo a ruminare pensieri nella nostra mente affannata: “se non sono autonomo, se rischio di “dipendere” dall’altrui solidarietà, rischio di “essere di peso” per i miei figli, di frenarne la corsa, di obbligarli a dedicarmi del tempo, di distoglierli dalla professione, dal guadagno, dalla carriera. E certamente mi ameranno di meno, saranno insofferenti per queste limitazioni, anzi non mi ameranno più. Ma soprattutto, se il mio valore di persona è legato all’indipendenza, ora sono costretto a chiedere aiuto, a gravare su altri, e quindi non valgo, la mia vita perde di significato e di dignità”. Ecco i nodi principali della paura di dipendere da altri.

E la demenza? Fa una grande paura perché il malato neppure si rende conto di gravare sul suo prossimo. E questo appare oggi il culmine della mancanza di dignità. Rimando a un post successivo le complesse considerazioni etiche che l’assistenza a un malato di Alzheimer solleva.
La malattia, con il suo carico di sofferenza per malati e caregiver, ci insegna, piuttosto brutalmente, che dipendiamo reciprocamente gli uni dagli altri molto di più di quanto non ci faccia piacere ammettere. Il demente perde i ricordi, la sua memoria autobiografica se ne va, non riesce a recuperare il ricordo degli avvenimenti della sua vita, e neppure l’identità delle persone con cui ha costruito rapporti affettivi. Ha pertanto bisogno d’aiuto in ogni momento, per costruire la sua quotidianità, perché gli mancano i riferimenti necessari. E’ come se vivesse in un eterno qui e ora, sempre di volta in volta da reinventare.

Vi va di condividere come vi siete sentiti nei casi in cui avete dovuto dipendere da altri, nel corso di una malattia, in seguito a un’operazione, o per altre ragioni? E’ stato difficile? Avete provato disagio? E quando siete stati caregiver? Siete stati insofferenti o avete pensato fosse possibile dedicare tempo alla cura traendone un arricchimento personale?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/06/matisse-dance.jpg 1071 1600 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-06-16 11:51:272015-06-16 11:51:27La demenza e la paura di dipendere dal prossimo

Prendiamo per mano l’Alzheimer

28 Aprile 2015/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici,
quanti di voi hanno avuto un familiare malato di Alzheimer o di un altro tipo di demenza, e hanno attraversato la lunga tristezza di vederlo ogni giorno perdere abilità, estraniarsi un po’ di più dal mondo, deperire? Quanti hanno sperimentato l’improvvisa mancanza di libertà, per l’impegno di accudire il familiare malato, che non può essere lasciato solo? Quanti hanno dovuto misurarsi con le spese spesso insostenibili che l’assistenza di questi pazienti richiede? Quanti hanno provato senso di colpa perché hanno rinunciato a curare in casa il loro caro?
Se avete fatto queste esperienze, non siete gli unici. L’incidenza dell’Alzheimer e delle altre demenze è in costante aumento.
La convivenza con un malato di Alzheimer è tutt’altro che facile. A seconda del grado di progressione della patologia, il malato può perdere gradualmente le sue capacità mentali e soprattutto di gestione del quotidiano. Tali limitazioni, in particolare nelle fasi precoci, possono anche non richiedere un ricovero o un’assistenza continuativa. In queste situazioni “grigie” la sanità pubblica offre interventi che spesso si rivelano insufficienti sia nel fornire competenze minime per gestire la malattia, sia nell’offrire sostegno emotivo.

Proprio per aiutare i caregiver dei malati con demenza Infine Onlus offre gratuitamente la partecipazione a gruppi condotti da un neuropsicologo, il dottor Andrea Raviolo,
che hanno un duplice scopo:
1. Innanzitutto informativo, così che i familiari possano comprendere meglio ciò che accade al loro congiunto malato (Che cos’è la demenza? Quanti tipi di demenza esistono? Cosa significa prendersi cura di una persona con demenza? Quali sono le cose fondamentali da sapere? Esistono modi efficaci per rendere più semplice la quotidianità? Se ne può parlare? Ci sono altre persone che affrontano quotidianamente le nostre stesse difficoltà?)
2.In secondo luogo, di supporto, condividendo la propria esperienza di caregiver con chi vive la stessa esperienza, e imparando a conoscere e rafforzare le risorse che ciascuno possiede per affrontare questa difficile avventura.

Parallelamente all’attivazione dei gruppi, Infine Onlus intende costituire un Osservatorio permanente sulle demenze, composto da alcuni esperti della materia (un geriatra, un neurologo, un neuropsicologo, un palliativista, un medico di famiglia, un dirigente di Asl, un dirigente dei centri di valutazione dell’Alzheimer, un infermiere, un dirigente di RSA) per progettare nel tempo nuovi interventi che vadano ad affiancare i gruppi.

Ecco il link per donare per il progetto, su Rete del dono:
http://www.retedeldono.it/progetti/associazione-infine-onlus/prendiamo-lalzheimer-per-mano

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/04/InfineArt_Mole_pagine-web1-e1430219298990.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-04-28 17:06:492015-04-28 17:11:12Prendiamo per mano l’Alzheimer

Come muoiono i nostri vecchi?

19 Febbraio 2013/109 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Oggi viviamo a lungo, e spesso godiamo di un certo numero di buoni anni, più liberi dagli impegni e ancora in buona salute. Purtroppo c’è un rovescio della medaglia: molto più frequentemente che in passato, siamo colpiti da malattie degenerative, in particolare da demenze, che trasformano il vivere, o se vogliamo il lento morire, in un calvario, per noi e per gli altri. La demenza costituisce una delle emergenze sanitarie che i paesi con più alto tenore di vita si trovano ad affrontare, ed è molto probabile che in futuro questo fenomeno assumerà dimensioni ancor più drammatiche a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e dell’aumento ulteriore dell’aspettativa di vita dei cittadini. Fra pochi anni, addirittura, la principale causa di morte sarà la demenza. L’incremento mondiale di ultrasessantenni previsto tra il 1990 e il 2030 è del 180%, con un aumento in valore assoluto da 488 milioni a 1,3 miliardi, e riguarda, sebbene in minor misura, anche i paesi in via di sviluppo.
La demenza è, in generale, una malattia lunga e invalidante. Per via di questo decorso, si stenta a considerarla una malattia terminale: tuttavia è noto che, per gradi, il paziente passa dall’autosufficienza alla completa assenza di competenza cognitiva, e poi al deperimento fisico e alla morte. Assistere un malato di demenza è impresa ardua e frustrante, perché spesso il paziente non riconosce i familiari e ha manifestazioni di aggressività. La maggior parte di questi vecchi muore nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA), pensate per gli anziani disabili, dove è ancora raro il personale competente in cure di fine vita, e dove spesso il dolore (anche fisico) è sottovalutato e trascurato (non dimentichiamo la legge n. 38 del 2010, che stabilisce che l’accesso alle cure palliative sia un diritto per tutti). A volte, per poter far accedere un vecchio a un programma palliativo, si va cercando nel suo corpo un tumore che gli dia la possibilità di rientrare nella categoria dei malati oncologici e di avere un posto in hospice.
Credo che non possiamo lasciar andare le cose in questo modo, senza fare pressioni, anche politiche, per migliorare questa inquietante realtà, e senza trovare alternative, per la morte degli anziani, meno deprimenti della reclusione in RSA. Qualcuno di voi ha fatto esperienze che può condividere? E anche chi non ne ha fatte, cosa ne pensa?

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