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Tag Archivio per: consapevolezza

Consapevolezza? di Marina Sozzi

17 Gennaio 2023/31 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.

Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.

Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?

Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.

Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.

Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.

Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.

E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).

La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.

E allora?

Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.

Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/01/consapevolezza-e1673885447393.webp 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-01-17 11:02:532023-01-17 11:02:53Consapevolezza? di Marina Sozzi

Consapevolezza della morte e leadership. Intervista a Barbara Carrai, di Marina Sozzi

12 Febbraio 2021/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Barbara Carrai lavora nel campo della ricostruzione post-bellica in missioni internazionali condotte dalle Nazioni Unite, dall’Unione europea o dall’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa nelle zone calde del pianeta. È Vicepresidente dell’associazione “Tutto è Vita-Onlus”, che si occupa di educare a una visione positiva del fine vita, promuovendo un cambiamento culturale di linguaggio e di comportamento. È assistente spirituale alle Cure Palliative di Livorno, dove coordina anche il gruppo che si occupa di assistenza spirituale nella malattia e nell’elaborazione del lutto. L’abbiamo intervistata sul tema Leadership e Spiritualità, e in particolare sull’importanza della consapevolezza della morte per un buon leader.

A fine novembre hai organizzato una bellissima giornata dal titolo “Dalla crisi al mondo nuovo. Verso una leadership spirituale”.  Come era nata quell’idea?

Avevamo cominciato nel 2016 a fare un festival di Economia e Spiritualità a Lucca: in quell’ambito abbiamo iniziato a parlare con politici, economisti, rappresentanti delle istituzioni, dirigenti aziendali e del terzo settore.
Da quelle riflessioni è emerso come ai leader, e a quanti ricoprono funzioni di responsabilità, sia oggi richiesta una capacità di gestione del cambiamento e della complessità che travalica quelle che sono normalmente considerate le competenze manageriali. È richiesta loro una conversione profonda e una nuova consapevolezza che possa rigenerare il mondo esterno –incluso il mondo del lavoro- a partire dalla riscoperta della propria interiorità. Stare bene dentro, prendersi cura di sé nell’interezza di mente, corpo, spirito, psiche, è parso essenziale. Se non siamo frammentati, riusciamo a fare qualcosa di buono, di sostenibile, di generativo. Dobbiamo al contempo cambiare noi stessi e cambiare il mondo.

Nell’intervento che avevi fatto in quella giornata, avevi tracciato una via che porta dalla consapevolezza della morte a una leadership spirituale. Puoi ripercorrere i passaggi di quella riflessione?

Prima di essere leader siamo esseri umani, e in quanto tali siamo mortali. Anche se nella nostra cultura è negata, la morte può essere una grandissima amica e consigliera.
Sapendo che morirò, riesco a identificare meglio qual è lo scopo della mia vita, il suo senso, per cosa voglio morire e quindi per cosa vale la pena vivere. Ci sono degli ideali, dei sogni, qualcosa che mi trascende? Se invece si resta nell’ottica dell’immortalità, si ha sempre tempo per realizzare ciò che è importante, si può rimandare indefinitamente.
Avere una meta e sapersi orientare in un percorso è difficile, occorre una grande consapevolezza. La consapevolezza della morte, che è sicura ma che non sappiamo quando si verificherà, ci insegna a vivere nell’incertezza, ad accettare la vulnerabilità.

Il contrario del “mito del leader”, forte, deciso, invincibile?

Un buon leader deve essere capace di sognare, di governare, ma anche di prendersi cura di chi lavora con lui. Se scopre di essere umano, vulnerabile e mortale, lavorerà con altri esseri umani vulnerabili al dolore, alla fatica e alla mortalità: questa consapevolezza gli permetterà di cambiare la relazione e di sviluppare la solidarietà. Prendersi cura significa riconoscere il dolore dell’altro come qualcosa che io stesso ho sperimentato, e che, se non lo nascondo, mi permette di entrare in una relazione profonda con gli altri.

Montaigne scrisse che la “meditazione della morte è meditazione della libertà”. Per un leader, la libertà nel senso di Montaigne significa affrancarsi dalle costrizioni, dai ricatti, dai compromessi al ribasso. Un’altra cosa che può insegnare la morte è il senso di responsabilità e del limite. Rendersi conto che le azioni hanno conseguenze che vanno oltre l’orizzonte biologico di ciascuno porta a prendersi la responsabilità delle decisioni: è qualcosa che può spaventare, ma allo stesso tempo è ciò che rende protagonista un leader.

Ernesto Balducci disse in un’intervista che il discorso sulla morte contiene un aspetto positivo, il recupero dell’autenticità del vivere. Secondo lui l’impegno storico, l’azione, devono seguire, e non precedere, il confronto con la propria morte: cambiare se stessi e cambiare il mondo devono procedere di pari passo. In quest’ottica posso vedere nella morte un’indispensabile consigliera. Alfonso de’ Liguori scrisse: “giudica equamente i fatti e dirige correttamente le proprie azioni chi le giudica e le dirige tenendo ben presente la morte.” La morte ci rende eticamente consapevoli. Dovrebbe diventare abitudine di un leader prendere le decisioni alla luce della morte, come facevano i certosini, che si sdraiavano nella bara. Steve Jobs disse: “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita, perché quasi tutte le cose, tutte le aspettative di eternità, tutto l’orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o fallire, semplicemente svaniscono di fronte all’idea della morte, lasciando solo quello che c’è di realmente importante.”

Quindi la cura di sé è quindi fondamentale non solo per chi lavora in sanità, ma anche per chi ha responsabilità di governo…

Non solo, è fondamentale anche per un padre di famiglia. È proprio un modo di essere e di vivere, mi prendo cura di me e mi prendo cura di te.

C’è un intellettuale francese, Abdennour Bidar, che ha scritto un libro sulla “Rivoluzione spirituale”: una rivoluzione, come diceva anche Daniel Lumera, proattiva e non reattiva, basata sulla felicità e non sulla rabbia. Questa idea della rivoluzione spirituale ti piace?

Tantissimo, anche nella Bibbia c’è scritto: “i tiepidi saranno vomitati”. Stiamo vivendo da tiepidi, aspettando. Invece dobbiamo operare una rivoluzione a partire da noi, una conversione. Da ragazzina ero innamorata di Che Guevara, per il fatto che ha dato la vita, si è messo totalmente in gioco per una grande idea. Senza quell’entusiasmo, senza coraggio, non c’è amore, non c’è vita, non c’è trasformazione.

L’infermiera Bronnie Ware ha scritto un libro ormai famoso, “Vorrei averlo fatto”, sui rimpianti dei morenti. Anche questa può essere una guida per i leader. Avrei voluto vivere la mia vita, e non quello che gli altri si aspettavano da me; non avrei voluto lavorare così tanto; avrei voluto coltivare le amicizie; avrei voluto esprimere con più libertà i miei sentimenti; avrei voluto essere più felice: quest’ultimo rimpianto è il più interessante. Tanti se ne rendono conto alla fine della vita che la felicità è una scelta, non dipende da cosa accade.

Voi farete un Master su leadership e spiritualità. Che posto avranno queste riflessioni nel Master?

Il Master avrà una sessione sul prepararsi a morire, per portare a questa consapevolezza.
Abbiamo scelto una citazione di Platone per presentare il Master: “Prima di pensare a cambiare il mondo, fare rivoluzioni, meditare nuove costituzioni, stabilire un nuovo ordine, scendete prima di tutto nel vostro cuore, fatevi regnare l’ordine, l’armonia, la pace. Soltanto dopo, cercate delle anime che vi assomiglino e passate all’azione.”

Per chi fosse interessato, il Master avrà inizio nel fine settimana del 29 e 30 maggio, e avrà cadenza trisettimanale.

Cosa ve ne pare di quest’esigenza di formare i leader alla consapevolezza della mortalità e della vulnerabilità? Credete che potrebbe migliorare lo stile di governo non solo dei paesi ma delle istituzioni in genere, e delle imprese?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/02/Giacomo-Borlone-de-Buschis-Danza-Macabra-1484-1485-Oratorio-dei-Disciplini-Clusone-copia-1-e1612951891982.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-02-12 10:32:112021-02-12 10:32:12Consapevolezza della morte e leadership. Intervista a Barbara Carrai, di Marina Sozzi

Paura di morire, è affrontabile? di Marina Sozzi

18 Settembre 2018/11 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Nessun essere umano ignora il timore suscitato dalla morte, buco nero che tutto assorbe, ignoto, misterioso e inquietante. Anche i bambini e gli adolescenti hanno un’apprensione nei suoi confronti, spesso mista all’attrazione per ciò che è pericoloso e sconosciuto. Spesso ripetiamo che occorre reintegrare la morte nella vita: ma questo non significa affermare che sia possibile superare la paura della morte, connaturata con l’uomo in quanto essere consapevole della propria mortalità.

Tuttavia, se, come a molti accade, la paura della morte diventa un’emozione dominante nell’equilibrio della vita, senza che vi sia un’imminenza della morte o un rischio di vita con una concreta base di realtà, vale la pena occuparsene con maggiore attenzione.

E c’è qualcosa che possiamo fare per capirla meglio. Possiamo cominciare a guardarla da vicino, questa paura, e ad analizzarla, spacchettandola, per così dire, dividendola in parti. Che cosa mi fa paura nel fatto di morire?
Non è tautologico. La paura della morte si compone di diverse paure più piccole, che, se comprese, possono contribuire a rendere più accettabile la grande Paura. Tutte le componenti del terrore della morte riguardano la vita.

Una delle più frequenti è quella di non sentire la propria vita come gratificante, di non essere soddisfatti di ciò che si è realizzato. La nostra cultura, che ci spinge a credere di essere individui assolutamente liberi nel mondo, capaci di creare la propria vita dal nulla, come un’opera d’arte, non aiuta a comprendere il limite intrinseco nelle nostre biografie. Siamo invece persone con un radicamento e una storia familiare, sociale e culturale che fanno di noi esseri determinati, che hanno solo alcune possibilità di realizzazione. Se riusciamo a cogliere il senso di quest’affermazione, ad accettare senza rimpianti eccessivi alcune sconfitte e frustrazioni, potremo essere persone più felici, vivere appieno la vita che abbiamo, e vedremo allontanarsi un po’ la paura di morire.

Vivere con consapevolezza sembra un altro elemento centrale. Se siamo sempre proiettati solo nel futuro, senza nulla assaporare del presente, rinviando continuamente le gratificazioni e la felicità, immaginando che arriveranno con la prossima vacanza, con la promozione attesa, con una nuova relazione, l’idea di morire si presenterà come una mannaia che cade su un’opportunità perduta, quella di godere della vita. Se proviamo a essere più presenti, più appagati di quello che abbiamo, più consapevoli e maturi, avremo meno paura di morire.

L’amore è l’altra questione cruciale. La profonda gioia del dare e ricevere amore, amore in senso lato, è un buon antidoto contro la paura di morire. Se abbiamo sperimentato la gioia di dare amore disinteressato e pieno almeno una volta, se ne abbiamo ricevuto in cambio, il senso della nostra vita ci appare più chiaro. E se il significato è compreso, lasciare la vita incute meno panico.

Poi ci sono tante altre paure che non riguardano il fatto in sé di non vivere più, ma il timore di come arriveremo alla nostra morte. La paura di perdere l’autonomia, di dover dipendere da altri, di avere lunghi periodi di sofferenza fisica e spirituale. In una parola, di perdere la propria identità e la propria dignità.
Ma cosa è la dignità? Occorre distinguere tra la paura di perdere la dignità e la percezione, o l’esperienza di perderla. Chi ha studiato l’esperienza di perdere la dignità (come Harvey Max Chochinov nel suo Terapia della dignità) ha messo in luce il fatto che tale percezione non dipende dalle numerose perdite che alla fine della vita indubbiamente si presentano, ma da come si relazionano con noi coloro che si prendono cura della nostra vecchiaia, o della nostra malattia. Il Royal College of Nursing inglese ha dato un’interessante definizione della dignità, affermando che nessun essere umano la perde se coloro che lo circondano continuano a considerarlo un individuo di valore, degno di stima. La dignità ha a che fare con la relazione, non è realtà oggettiva, non esiste a prescindere dagli altri.

Ma se così stanno le cose, come facciamo a essere certi che chi si prenderà cura di noi ci guarderà come esseri dotati di valore? Non è, naturalmente, una certezza che possiamo avere (anche se stendere le nostre disposizioni anticipate di trattamento può aiutare), e tuttavia c’è qualcosa che possiamo fare. Quel che possiamo fare per rassicurarci è attribuire sempre a ogni singolo essere umano, qualunque sia la situazione in cui ci si presenta, quello stesso valore che vorremmo che gli altri attribuissero a noi. E’ l’imperativo categorico kantiano, formulato nella Metafisica dei costumi, e quanto mai attuale: “agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”. Universalizzando, con Kant, il nostro comportamento (agisci come vorresti che gli altri agissero nei tuoi confronti), possiamo contribuire a creare una cultura del rispetto dell’essere umano e della salvaguardia della sua dignità. Ricordiamolo, quando incontriamo persone che hanno bisogno del nostro sostegno, o anche solo della nostra considerazione. Poveri, immigrati, malati, disabili, morenti, eccetera eccetera. La nostra paura di morire decrescerà.

Mi sta molto a cuore il vostro parere. Sia sulla paura della morte, sia sul tema della dignità.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2018/09/Depositphotos_31420279_s-2015-e1537267165312.jpg 265 398 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2018-09-18 12:49:242018-09-18 12:49:24Paura di morire, è affrontabile? di Marina Sozzi

L’impermanenza: la morte da una prospettiva buddhista

14 Maggio 2013/3 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

Cari amici, ricevo e pubblico con piacere, a integrazione delle cose pubblicate ieri, questo guest post da Tiziano Casonato della Kagyu Samye Dzong di Venezia: http://www.kagyu.it

Morire, di per sé, è molto semplice: espiriamo e non inspiriamo più. Niente di complicato, niente da modificare. E’ un fatto assolutamente naturale: il buio della notte è seguito dalla luce del giorno, un umore triste viene sostituito da un momento di felicità, il freddo dell’inverno trova il suo complemento nel calore dell’estate. E così come siamo nati, moriamo.
Eppure tanta semplicità, paradossalmente, non viene vissuta con altrettanta facilità. Spesso è difficile venire a termini con la mortalità, nostra e di chi amiamo, come è difficile venire a patti con una caratteristica dell’esistenza, di cui la morte fa parte, che nel buddhismo viene chiamata impermanenza.
Il mondo, l’intero universo e gli esseri che in esso vivono, dipendono da una fitta interrelazione di fattori che portano al sorgere dei fenomeni di cui facciamo esperienza, a livello esteriore e anche a livello interiore. Pensieri, emozioni, stati mentali, sensazioni fisiche, sono per natura transitorie: hanno origine dall’incontro di una serie di cause, che portano a quella specifica manifestazione, che cessa nel momento in cui quelle cause cambiano il loro modo d’essere in relazione tra loro.
Lo stesso avviene a livello fisico: l’incontro di una serie di fattori ha portato al nostro concepimento, ha permesso lo sviluppo del feto, alla nascita, alla sopravvivenza e così via.
La morte non è quindi né “giusta”, né “sbagliata”. Non è un fallimento, né una punizione. E’ un fatto naturale che in uguale misura, senza distinzione di razza, specie animale e ceto sociale, sperimenteremo tutti.
In tutti i suoi approcci, il buddhismo ha come aspetto centrale la consapevolezza: il contatto con la propria esperienza e la relazione che si ha con se stessi e quindi con gli altri e con il mondo in cui viviamo. Vivere la nostra vita pienamente, istante dopo istante, senza seguire fantasie irrealistiche sulle esperienze e senza scappare da ciò che viviamo. Essere presenti quindi, permettersi di sperimentare le nostre emozioni, le nostre gioie, le nostre paure in modo sempre più profondo . Anche la paura di morire e della morte.
La paura della morte è una delle paure fondamentali che, in quanto esseri viventi, condividiamo. Gli insegnamenti del Buddha invitano ad esplorare con grande apertura e profondità la paura della morte. Perché? Una delle ragioni è che sicuramente è una delle paure che più condizionano la nostra esistenza: la paura di un evento incerto nei tempi e nelle modalità, ma sicuro nel suo verificarsi. Soffriamo nel presente per un evento che capiterà solamente in futuro. L’unico evento certo dal momento della nascita.
Quando il momento della morte arriva non possiamo scappare, non possiamo rimandare, dobbiamo lasciare andare questa vita e le esperienze che abbiamo vissuto, quelle belle e anche quelle che non ci sono piaciute. Questa prospettiva presenta due possibilità: lasciare andare forzatamente, accompagnati da tanta sofferenza, panico e magari rimpianti, che al momento della morte risultano evidenti nella loro intensità; oppure arrivare pronti per lasciare andare, avendo vissuto una vita piena e significativa, appagati, senza o con pochi rimpianti e magari curiosità.
Riflettere sulla morte e sentire quali stati d’animo fa emergere è quindi una pratica quotidiana, che accompagna il praticante lungo la sua vita, come sentire quali stati d’animo fa emergere e scoprire la capacità di accoglierli. E di lasciarli andare. In questo modo la paura della morte, che scorre spesso non vista e soprattutto non sperimentata, viene integrata e liberata nell’esperienza del praticante.
Questo dà origine ad un processo molto potente e trasformativo che, tra le varie cose, riconfigura in modo naturale le priorità della vita e fa scoprire un coraggio di investigare in profondità il proprio sentire e le proprie aspirazioni. Che cosa voglio? Cosa è importante per me? Se questo fosse il giorno della mia morte mi sentirei soddisfatto di come ho vissuto? Sento di poter morire appagato, libero da eccessivi attaccamenti quando lasciare andare è l’unica cosa che posso fare?
Affrontare la paura della morte diventa la via d’accesso a una grande libertà interiore che si esprime in due modi: libertà dalla paura della morte; libertà dalla paura di vivere secondo le nostre aspirazioni, pienamente.
All’inizio, trovarsi faccia a faccia con la tristezza, la paura e il senso di impotenza che il pensiero della morte può far emergere è difficile. E’ naturale, non c’è niente di sbagliato in tutto questo. Se ci permettiamo di guardare in faccia questo sentire, con un atteggiamento gentile e accogliente, potremmo riuscire a regalarci una vita appagante, piena, che valorizza le cose che per noi sono veramente importanti, trovando dentro noi il coraggio e la saggezza per farlo.
Quale dono più grande, per noi e per chi ci saluterà in quel momento, di una morte serena e consapevole, senza rimpianti, il risultato di una vita vissuta con pienezza e profondità?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/05/Sri-Lanka-2_0194.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-05-14 08:03:042013-05-14 08:03:04L’impermanenza: la morte da una prospettiva buddhista

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