Consapevolezza? di Marina Sozzi
Chiunque lavori all’assistenza nel fine vita conosce l’importanza della consapevolezza (che ha anche una sua scala di misurazione) che consiste, in ultima istanza, nella capacità di raggiungere un certo grado di accettazione di fronte alla propria morte o alla morte di una persona che amiamo. In cure palliative, la consapevolezza è rilevante perché permette agli operatori di fare un lavoro migliore, e agli psicologi e agli altri operatori di accompagnare i pazienti e i familiari a tollerare l’ineluttabile, pur nella tristezza e nel dolore. In genere, permette ai nuclei familiari di accomiatarsi con maggiore serenità, di parlarsi della morte imminente, di rinsaldare i legami e scambiarsi frasi amorevoli.
Ma proprio chi lavora in cure palliative sa anche quanto rara sia la consapevolezza. Spesso i familiari attendono le équipe fuori dalla porta di casa, per raccomandare di nascondere il logo (in Italia le équipe specialistiche di cure palliative operano generalmente nel Terzo Settore), o per avvertire: «non sa nulla, non gli dite che non ha molto da vivere». Il lavoro delle équipe più avvertite è delicato, lento, e segue la capacità di comprensione e accettazione delle famiglie. Si cerca di dire ai familiari che spesso chi muore sa che sta morendo, e tenerglielo nascosto contribuisce soltanto a creare una barriera di cose indicibili che separano chi se ne va e chi resta.
Talvolta però, per alcuni medici, infermieri e psicologi, il raggiungimento o meno della consapevolezza da parte del paziente assume la valenza di un giudizio implicito sul proprio operato, e diviene così uno degli obiettivi taciti dell’assistenza. E’ corretta questa visione epica della consapevolezza (entrare nella morte ad occhi aperti), o forse dovremmo essere più cauti nel pensarla come obiettivo universalizzabile?
Facciamo un passo indietro. Sappiamo che la mancanza di consapevolezza è spesso dovuta alla reticenza degli specialisti, che pur di non comunicare che la scienza medica ha esaurito le possibilità di contenere la patologia, mentono, o dicono verità parziali. Con la formazione e l’azione culturale, occorre ridurre queste cattive comunicazioni, come peraltro richiede la legge 219/2017.
Tuttavia, sono stata testimone del caso di diverse persone affette da tumore a uno stadio avanzato, non più controllato dalle terapie oncologiche, con metastasi diffuse a tutto il corpo, a cui era stata detta la verità sia dagli specialisti, sia dal medico di famiglia, e che ritenevano che le cure palliative fossero una specie di convalescenza, prima di riprendere le terapie. La consapevolezza non può essere perseguita a oltranza, perché la mente non va dove non vuole andare, e talvolta proprio non vuole incamminarsi a incontrare la morte.
Spesso si pensa che la mancanza di consapevolezza dipenda dalla cultura in cui viviamo, orientata a evitare il discorso sulla morte, così che i nostri concittadini arrivano molto impreparati all’appuntamento con la nera signora, che proprio per questo appare sempre più nera, in un circolo vizioso.
Su questo tema si tende a citare molto Heidegger, che nel suo libro Essere e tempo parla dell’importanza di porsi consapevolmente di fronte all’unica possibilità assolutamente certa della condizione umana, la morte. Pensare alla morte, e metterla in primo piano nella nostra mente, significa comprendere che questo “essere gettato nella morte” è la possibilità più autentica dell’Esserci dell’uomo. Le attività della vita, i progetti realizzabili, perdono il loro valore nel momento in cui si confrontano con la morte, e l’angoscia che deriva dal loro annientamento allenta anche la presa del mondo sull’uomo. Si manifesta così, al cospetto della morte, l’unica libertà possibile. Proprio nella consapevolezza della morte sta, secondo Heidegger, la libertà dell’esistere, che coincide però con la svalutazione di tutto ciò cui l’uomo dà comunemente valore.
Ma davvero per poter essere liberi e consapevoli dobbiamo annichilire il mondo? Sartre si ribella di fronte al pessimismo di Heidegger in L’essere e il nulla. Ben lungi dal vedere nella morte la più autentica possibilità dell’umano, Sartre afferma piuttosto che la morte è la negazione di tutte le altre possibilità, giunge sempre a troncarle, sovente sul più bello. E’ impossibile prepararsi alla morte, perché ignoriamo quando e come ci colpirà: gli uomini somigliano a condannati che si preparano coraggiosamente a essere fucilati, ma vengono invece falciati da un’epidemia di influenza spagnola. Non sappiamo quando e come moriremo. Gli uomini hanno progetti, che costituiscono le possibilità della loro esistenza, e questi progetti vengono interrotti dalla morte.
Questa contrapposizione così netta tra due importanti pensatori del Novecento ci indica la complessità del tema che stiamo trattando, le sue implicazioni filosofiche. Salvare il nostro rapporto con la progettualità mondana è l’obiettivo condivisibile di Sartre. D’altronde, seppure non sia possibile conoscere le circostanze della nostra morte, non è neppure immaginabile rimuoverne l’angoscia. E l’angoscia ci chiede di venire a patti con la mortalità, di trovare un aggiustamento. Questo è un lavorio arduo e mai concluso, che possiamo cercare di fare nel corso della nostra vita. La difficoltà, che solo il saggio riesce a sostenere, sta nel mantenersi in bilico tra un ingaggio e un impegno nelle vicende del mondo e la consapevolezza della nostra provvisorietà.
E quando siamo nei pressi della nostra morte? Cosa accade alla nostra consapevolezza della mortalità? Non è facile esserne certi, forse è uno di quei misteri che si possono scoprire solo ex post, quando siamo morti, da coloro che restano («è stato lucidissimo, presente e consapevole fino alla fine»).
La consapevolezza della morte fa parte di quella opacità della nostra coscienza che non possiamo mai disvelare, finché non accade che davvero ci troviamo lì vicini, accanto alla morte imminente. Riusciremo a stare lì, nella prossimità? Saremo abbastanza saggi e coraggiosi? Saremo abbastanza appagati dalla nostra vita da poterla lasciare senza troppi rimpianti nelle mani di chi viene dopo di noi? Potremo tenere gli occhi aperti di fronte al mistero? Non lo sappiamo, come non sappiamo se ci getteremo in acqua per salvare qualcuno che annega. Non ci conosciamo mai davvero fino a quel punto. Ma possiamo provare a prepararci per questo obiettivo durante la nostra vita, con umiltà.
E allora?
Come scriveva Paolo Vacondio nel suo libro Sediamoci qui, la consapevolezza di malattia o di terminalità non è una questione del tipo “tutto o nulla”. Al contrario “essa si evolve in modo progressivo e influenzato dal vissuto personale”.
Quindi, per concludere il nostro ragionamento, occorre raccomandare a chi opera in cure palliative (o comunque si trova per lavoro o perché amico, compagno, figlio, a fare i conti con il morire) di fare uno sforzo di sospensione critica del proprio giudizio, e di rispettare fino in fondo coloro che arrivano impreparati, che non sono consapevoli e non vogliono neppure esserlo. Sospendere il giudizio e stare accanto, senza mentire sulla verità della morte imminente ma con la giusta gradualità, rispettando la capacità della mente altrui di fare spazio a questa immensamente difficile verità.
Cosa ne pensate? Vi capita di immaginare come sarete nella prossimità della vostra morte? Avete esperienze di accompagnamento in cui la consapevolezza o la sua mancanza hanno avuto un ruolo importante?