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Tag Archivio per: Alzheimer

Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo

13 Dicembre 2019/14 Commenti/in Riflessioni, Vecchiaia/da sipuodiremorte

Quando si parla di Alzheimer, o più in generale di demenza, una serie di immagini e di emozioni negative si affastellano nella nostra mente: una memoria che sbiadisce e progressivamente si perde nell’oblio, un volto smarrito incapace di riconoscersi nello sguardo dei propri familiari, la perdita lenta e inesorabile dell’autonomia e dell’identità, e tanti altri frammenti disturbanti che la nostra coscienza tende a scacciare e a non voler vedere.

Nel mio lavoro di neuropsicologo mi trovo quotidianamente a interagire non solo con i malati di demenza, ma soprattutto con le persone che se ne prendono cura, e che, oltre a lottare quotidianamente con gli spettri di una vita che va pian piano dissolvendosi, si trovano a dover arginare con la sola forza dei propri strumenti il mare di difficoltà e di impotenza che minaccia di travolgerli; queste persone vengono chiamate ‘caregiver’.
Sin dalla prima seduta, che sia di gruppo o individuale, o persino durante un incontro casuale davanti a un caffè, un caregiver mi pone la fatidica domanda che presto o tardi qualunque neuropsicologo si trova a dover fronteggiare: “cosa devo fare”? e poi ancora: “Quali sono le parole, le mosse ed i comportamenti ‘giusti’?”
La verità è che non esiste una risposta univoca; ogni cervello, e ogni storia che esso racchiude scolpita nei suoi neuroni, porta una costellazione e un marchio unici; di conseguenza elaborare delle soluzioni generali che valgano per tutti gli individui è impossibile.
Tuttavia, anche se non è possibile creare un algoritmo, non è detto che non possiamo farci guidare da buone domande che ci aiutino a non smarrirci nella difficile avventura di diventare un caregiver.
Quando mi trovo davanti un caregiver, le domande che devo pormi per cercare di comprenderne il dolore, e che allo stesso tempo devo cercare di rendere il più possibile familiari ed automatiche nella sua mente sono le seguenti:

Qual è il tuo modo di ‘andare in allarme’?

Nel momento in cui viene percepita la presenza di un altro essere umano in difficoltà attraverso uno dei nostri cinque sensi, nel nostro cervello si attiva un meccanismo di allarme antico e potente che ci spinge a dirigere irresistibilmente la nostra attenzione sulla fonte della sofferenza, lasciando sullo sfondo altri stimoli che sino ad un secondo prima ci sembravano interessanti. Tutti noi abbiamo sperimentato, ad esempio, il senso di urgenza di voltarci verso un bambino che scoppia a piangere mentre siamo sull’autobus.
Il senso di urgenza ci guida come un magnete verso i modi migliori per dare aiuto a chi sta soffrendo, ma risente anche delle nostre esperienze precoci; non tutti abbiamo imparato a gestire allo stesso modo quel suono penetrante dell’allarme che ci scatta dentro di quando in quando.
Alcuni di noi hanno imparato negli anni a silenziarlo, per non venire assordati dalle continue richieste di un ambiente familiare colmo di emergenze pressanti; altri hanno dovuto imparare a riconoscerne anche le frequenze più flebili, appena udibili nelle loro case ovattate da finzioni e cautele genitoriali; altri ancora al minimo suono sobbalzano terrorizzati e immaginano scenari terrificanti che li paralizzano e li rendono incapaci anche solo di pensare.
Quando prendo in carico un caregiver, conoscere il suo modo personale -sedimentato negli anni- di fronteggiare l’allarme mi permette di entrare in risonanza in modo autentico con la sua mente e il suo cuore, e di costruire nel tempo quella che chiamo “manopola di regolazione”, ossia una serie di strategie personalizzate utili a gestire l’intensità del suono emotivo.
L’alleato più prezioso che ci viene in soccorso in questo delicato compito è il corpo; attraverso esercizi mirati e ripetuti, è possibile aumentare il senso di sicurezza e di padronanza, partendo dalle sensazioni fisiche, ottenendo risultati duraturi e che non passano attraverso i canali verbali. Maggiore è la padronanza che un caregiver riesce a ottenere sulle proprie reazioni fisiche in caso di allarme, maggiori saranno le possibilità di agire in modo efficace e senza inutile dispendio di energie.

Qual è il tuo modo di dare aiuto?

La fase dell’allarme è solo la prima di un lungo processo: dopo che il suono si è attutito e il nostro caregiver può nuovamente contare su una maggiore presenza di spirito, un nuovo scenario mentale si apre, e si attiva il sistema atto a percepire i bisogni dell’altro e a preparare il proprio armamentario di accudimento a fornire aiuto.
Anche questo sistema è guidato in parte dalla biologia, e in parte è condizionato dalle esperienze apprese sin dalla tenera età; in altre parole, ciascuno di noi ha lo stesso strumento che possiedono gli altri esseri umani, ma ha imparato a suonare una melodia leggermente diversa e personalizzata.
Continuiamo con gli esempi: alcuni di noi, magari abituati a maneggiare con cura le emozioni per non rischiare di scottarsi troppo, preferiranno dare aiuto “con la testa”, magari cercando per ore la carrozzina tecnologicamente più avanzata, o organizzando i referti di visite e esami in ordine cronologico per facilitare al massimo le visite cui –puntualissimi- accompagneranno il proprio caro.
Altri cercheranno di mantenere un tono di voce più alto e si muoveranno un po’ più in fretta del necessario per cercare di mantenere un ritmo sufficiente a sganciarsi da quel suono fastidioso e continuo. L’ansia li aiuterà ad essere efficienti e non fermarsi, e la loro giornata sarà piena di impegni e preoccupazioni, dalla corsa dallo specialista, telefonando lungo la strada ad una decina di amici per informarli della situazione, fino al pomeriggio, in cui cercheranno di somministrare tutti i farmaci nell’ordine giusto, preoccupandosi di ricontrollare più volte.
Altri ancora si sentiranno confusi; la memoria silenziosa di un genitore a sua volta smarrito spegnerà il loro sistema di orientamento nel mondo, facendoli sentire in balia delle proprie sensazioni, e rendendo loro estremamente difficile prendere decisioni.
La conoscenza della personale modalità di accudire è uno strumento insostituibile per cercare di mantenere il caregiver in una zona di sicurezza, ben protetto sia da un eccessivo prosciugarsi di forze sia da una distanza eccessiva.
Anche in questo caso la conoscenza del proprio corpo costituisce un prezioso alleato; imparare a riconoscere e dare spazio alle sensazioni che il nostro corpo ha imparato a comunicarci in tutte le nostre esperienze di accudimento ci aiuta a mantenere saldo il focus sull’obiettivo di fornire cure adeguate e misurate.

Quale può essere un buon modo per tenerti al sicuro? Quali risorse possiedi?

Il sistema di allarme e quello dell’accudimento operano in modo analogo al termostato che regola la temperatura della nostra casa: una volta raggiunta una condizione ottimale, essi semplicemente si spengono.
Anche noi, quando vediamo che i nostri sforzi hanno risolto un problema, e che la fonte di sofferenza che ci ha attivati si è infine placata, smettiamo di affannarci e percepiamo un piacevole sollievo, insieme a un senso di soddisfazione nel vedere che la situazione si evolve verso uno scenario di tranquillità.
Ad esempio, proviamo a pensare alla tiepida emozione che ci pervade dopo aver consolato un amico in difficoltà, o alla pace che sentiamo nel corpo nel vedere che il nostro bambino smette di piangere dopo che l’abbiamo consolato.
Il problema delle demenze risulta purtroppo evidente prima ancora della fine di questa frase: poiché la condizione di un malato di demenza non è curabile e si aggrava progressivamente, il sollievo di assistere alla guarigione non arriverà mai. Fanno ovviamente eccezione quei momenti in cui un caregiver riesce a rendere più piacevole o confortevole un momento della giornata del proprio caro, e possono essercene davvero tanti. Ma la sostanza rimane la stessa; lo sforzo di accudire sembra non avere fine.
Di solito propongo due strategie ai familiari consumati dallo sforzo di accudimento.
La prima è trovare, elencare e imparare ad accendere le nostre risorse, che possono essere di vari tipi: somatiche, emotive, spirituali, naturali e altre ancora. L’esperienza di accesso alle risorse permette di ricaricare le energie e di contattare la nostra parte di autoguarigione.
La seconda, di gran lunga più importante, è smettere di accudire.
Probabilmente questa frase suonerà come un pugno nello stomaco per molti.
Può sembrare un gioco di parole, ma l’accudimento non è affatto l’unico sistema a nostra disposizione per dare cure; esiste anche un’altra opzione, che è quella della cooperazione. Cooperare significa mettere le proprie forze a disposizione di una squadra per raggiungere un obiettivo comune, ma senza dover compiere in prima persona tutto il lavoro.
Troppe volte i caregiver restano incastrati in una logica di accudimento forsennato e si sostituiscono totalmente ai loro cari nelle incombenze, per quanto piccole, della vita quotidiana; troppo spesso le loro energie vengono spese tutte insieme, e al tempo stesso il malato sviluppa il sospetto – che diventa rapidamente convinzione – di non essere in grado di adempiere a nessuno di quei compiti che vede svolgere con tanta solerzia da chi gli sta accanto.
La convinzione del malato di non essere in grado di portare a termine un compito si trasforma nella rinuncia a provare: la psicologia chiama questo fenomeno ‘impotenza appresa’. Ma un malato che “non ci prova nemmeno” diventa rapidamente un peso maggiore, e richiederà una quantità ancora maggiore di sforzi assistenziali da parte del caregiver: il circolo vizioso che si instaura è tristemente evidente.
Un caregiver cooperante è una persona che accetta di abdicare alla pretesa di essere insostituibile (e non sempre tutti gradiscono questo pensiero) e di delegare al malato una parte del carico – proporzionata alle risorse in suo possesso – per lavorare insieme e ottenere un risultato condiviso.
Questo scenario mentale costituisce la base di una pratica quotidiana in grado di distribuire il carico emotivo fra caregiver, malato, e tutte le persone della rete familiare, amicale e medica che potranno e vorranno essere coinvolte nel gioco di squadra.
Potenziando le abitudini cooperative, il caregiver potrà così conservare le sue preziose riserve di cura per tutte quelle situazioni in cui il malato non potrà partecipare al gioco, aumentando i tempi di ricarica e prevenendo così la temibile sindrome da burn out da accudimento.

Come non smetto mai di ripetere, il caregiver è membro attivo e principale dell’equipe curante; riconoscerlo è facilissimo: è quello senza camice.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2019/12/Depositphotos_23935969_s-2019-2-e1576074434883.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2019-12-13 11:30:292019-12-13 11:30:29Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo

I musei aprono le porte a chi ha perso la memoria, di Elisabetta Gatto

23 Ottobre 2017/3 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

images-1Ariosto, Cervantes, Shakespeare hanno narrato la follia come l’altra faccia della mente. Poi il razionalismo illuminista ha voluto isolarla, recintarla, rinchiuderla. Di questa reclusione pagano il fio ancora oggi i malati di Alzheimer, a lungo accomunati alla patologia psichiatrica. E’ così che i malati e i loro caregiver si trovano prigionieri nella propria casa, perché mancano luoghi e competenze per accogliere persone con queste patologie.

Tanto maggior valore hanno quindi le esperienze di inclusione che sono state fatte in vari musei statunitensi ed europei. Si tratta di sperimentazioni di valorizzazione del patrimonio culturale con e per le persone affette da sindrome di Alzheimer e da decadimento cognitivo. Il museo, luogo per eccellenza della conservazione della memoria, apre le porte al pubblico che la memoria l’ha persa. E’ un’opportunità per le persone con demenza, che possono fare esperienza dell’arte e quindi sentirsi maggiormente realizzati nella loro individualità, ed è un’opportunità anche per i musei, che ripensano in tal modo al loro ruolo nella società.

Si tratta di un approccio al museo emotivo e creativo. In arte non ci sono risposte giuste o sbagliate, ma interpretazioni. Questo il presupposto del progetto Meetme al MoMA di New York, che ha proposto di usare le opere d’arte come strumenti per migliorare la qualità di vita e l’umore dei malati e dei loro familiari. I programmi per malati di Alzheimer sono stati pensati in collaborazione con le associazioni che si occupano di Alzheimer, oltre che con gli esperti d’arte, coinvolgendo anche le comunità e gli stessi malati. L’esperienza ha funzionato, tanto che è stata esportata, ad esempio con gli Unforgettable tours offerti a partire dal 2013 dallo Stedelijk Museum di Amsterdam e dal Van Abben Museum di Eindhoven a persone affette da demenza e ai loro caregiver, ora proposti da altri dieci musei nei Paesi Bassi. E sono stati organizzati corsi per insegnare a utilizzare l’arte a operatori sanitari e personale di residenze per anziani.

L’attenzione è posta sulla forza comunicativa dell’arte e su ciò che le persone possono ancora fare: l’esperienza dell’arte non attiva solo la vista e la sfera cognitiva, ma coinvolge il corpo e le emozioni, permette di sperimentare la creatività, sollecita le relazioni tra docenti e partecipanti con demenza, tra gli stessi partecipanti, e tra malati e caregiver (permettendo loro di fruire di piacevoli momenti comuni). L’intento primario di queste iniziative è quello di sollecitare e stimolare i malati, così da rallentare la progressione della malattia e consolidare il mantenimento delle capacità residue. Il museo assume così il ruolo di “dispensatore di cura”, spazio di contenuti ma anche di relazioni: permette infatti la creazione di un contesto di cura non ghettizzato, calato nella comunità, in cui i pazienti non sono più tali, ma persone capaci di allenare abilità sopite e scambiare reciprocamente memorie e narrazioni. La potenzialità della stimolazione delle persone affette da demenza attraverso le opere d’arte è nota da tempo, ma la possibilità di farlo con percorsi appositamente studiati all’interno delle strutture museali è un’acquisizione recente.

In Italia è la regione Toscana a vantare il merito di una reale inclusione di questo pubblico nell’offerta museale: ben quindici musei offrono attività per le persone con demenza e promuovono una cultura dell’accessibilità, che non consiste esclusivamente nell’eliminazione delle barriere architettoniche, ma tiene conto del fatto che anche i danni cognitivi impediscono di fare esperienza del patrimonio culturale in modo tradizionale. Viceversa, mettere la persona al centro (e non l’opera) attiva risorse che trascendono la categoria della malattia. L’interazione con l’opera d’arte permette di restituire alle persone con demenza dignità e ruolo sociale, favorendo lo sviluppo di buone pratiche anche in altri contesti.

Il museo acquista dunque un nuovo valore: non è più solo luogo deputato alla conservazione e all’esposizione, ma diviene dimora che accoglie e include, teatro di sperimentazioni progettuali, serbatoio di arte quale vera risorsa in grado di incidere positivamente sulla qualità della vita di tutti i cittadini.
Che cosa ne pensate? Ritenete importanti queste esperienze? Aderireste con un vostro caro malato di demenza?

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Cosa fare per i caregiver? di Marina Sozzi

11 Gennaio 2017/7 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

Supportive elderly man giving the cup of tea to his sick wife tucked with blanketDi fronte al dilagare della malattia d’Alzheimer, e alle frequenti svariate forme di non autosufficienza che colpiscono i nostri vecchi, non possiamo non interrogarci su cosa possiamo fare. Cosa possiamo fare, innanzitutto, per evitare che l’ultimo tratto di strada della nostra vita si trasformi in una distruzione sistematica della dignità e del significato dell’esistenza di ciascuno di noi, oltre che di ogni piacevolezza del vivere. Dignità e significato che tutti cerchiamo di costruire nel corso degli anni, più o meno consapevolmente, e più o meno efficacemente: ma che sono e restano esposti all’estrema fragilità delle umane cose. Ci chiediamo cosa possiamo fare per evitare, per usare le parole dello psicanalista Secondo Giacobbe, di essere “fetalizzati”, di tornare cioè a essere feti alla fine della vita: l’aspettativa di vita, infatti, non coincide con l’aspettativa di salute, e molti di noi chiudono la propria esistenza di nuovo confinati in un letto, come quando eravamo neonati, privi di potere decisionale e in balia di scelte mediche.

Cosa possiamo fare, inoltre, perché la vita delle persone che amiamo, e che ci amano, non deflagrino, a un certo punto, vuotate di contenuto e di energia, nel tentativo di prendersi cura di genitori, suoceri, zii, coniugi fetalizzati. Oggi la vita dei “caregiver” – come li chiamiamo in inglese, perché in italiano non abbiamo trovato una parola – è a rischio: rischio di infelicità e depressione, ma anche di contrarre, a loro volta, malattie invalidanti o letali. Questi caregiver sono donne, soprattutto. La ricerca Censis 2016 sull’Alzheimer dice che hanno mediamente sessant’anni. Ne ho incontrate molte: donne malate di cancro che curano mariti o genitori con demenza, e che non sanno come fare quando devono affrontare un’operazione chirurgica, o la chemioterapia. Donne che hanno perso il lavoro, le amicizie, il tempo per vivere, e sono confinate, disperate, nelle stesse quattro mura del malato.

Che cosa possiamo fare, allora, posto che è intollerabile lasciare le cose così come sono, abbandonando intere famiglie a solitudini sconfinate, a un tasso di stress che manda in frantumi anche le relazioni familiari che un tempo funzionavano?

Quale modello di cura è possibile, sostenibile, attuabile in tempi brevi?

Si è parlato molto di domiciliarità: curare a casa i malati anziani, che non hanno prospettive di guarigione, ha senso: sia perché è il luogo naturale in cui gli anziani desiderano stare, sia perché contribuisce a tenerli lontani dall’accanimento terapeutico: l’ultima, inutile, operazione chirurgica, che aggiunge sofferenza alla sofferenza, l’ultimo tentativo terapeutico invasivo, assurde alimentazioni artificiali, la ventilazione di un novantenne che sta morendo di Alzheimer. Tuttavia, l’opzione “casa” non deve ricadere interamente sulle famiglie, soprattutto non nell’attuale dimensione di solitudine e indifferenza sociale.

E allora, a quale modello di cura dobbiamo ispirarci?

Abbiamo bisogno di una modalità di cura che sappia fare i conti con il processo del declinare e del morire. E lo abbiamo, non occorre inventare nulla. La medicina, esaminando i propri limiti, ha prodotto la cultura delle cure palliative. I punti di forza delle cure palliative sono in primo luogo il senso del limite e la consapevolezza che occorre lasciar andare chi non può essere salvato, o guarito, e neppure cronicizzato con una qualità di vita per lui accettabile. Oggi le cure palliative hanno circa trent’anni di esperienza, anche in Italia, e un unico problema: sono state applicate quasi unicamente ai pazienti terminali di cancro. Occorre potenziarle, pensarle come modello non unicamente per la fase terminale, estenderle alla vita declinante dei nostri vecchi.

Cosa ci dicono le cure palliative per quanto riguarda i caregiver? I familiari che curano il paziente devono essere essi stessi considerati malati. Malato non è l’individuo – dicono le cure palliative – malata è la famiglia: e se questo è vero per il tumore, figuriamoci per le demenze, che richiedono una mobilitazione familiare lunghissima, e priva di gratificazione per chi cura, che spesso non viene neppure riconosciuto da chi è curato.

Se la consapevolezza di questa dimensione familiare della malattia prevale, ci si rende conto che l’intervento richiesto non è tanto medico in senso stretto, ma multidisciplinare: infermieri, operatori socio-sanitari, psicologi, volontari, ma anche filosofi, avvocati e assistenti sociali, che devono lavorare di concerto con la famiglia per rendere praticabile l’esperienza della malattia invalidante di un congiunto. Renderla praticabile non significa che sia immaginabile privarla della sua difficoltà, del dolore. Tuttavia, significa darle le caratteristiche di un’esperienza, possibile da attraversare, per quanto dura, e non di uno tsunami devastante per la vita di ciascuno, che lasci solo macerie e assenza di vita dopo essere passato. Affinché ciò accada, i familiari devono avere le informazioni e il sostegno necessario per occuparsi di un loro caro malato. Molta formazione e sostegno, niente medicalizzazione eccessiva e futile. Se si operasse questo cambiamento di mentalità, i fondi basterebbero. Lo spreco della sanità in operazioni e trattamenti che vengono attuati nell’ultimo anno di vita di pazienti molto anziani, con l’unico risultato di farli soffrire, è incalcolabile.

Sarebbe allora possibile dare un sostegno alle famiglie, sia pratico sia emotivo. E’ il modello delle cure palliative, occorre adattarlo, organizzarlo per malati la cui malattia, nella fase invalidante e declinante, dura un tempo più lungo e meno facilmente quantificabile.

Anche dal punto di vista economico, le cure palliative hanno dato buona prova di sé, dimostrando di essere sostenibili, soprattutto se gestite da associazioni non profit, in grado di sollecitare, accanto al contributo pubblico del SSN (che deve esserci), anche la consapevolezza dei cittadini, che contribuiscono a garantire il proprio welfare, e la qualità alta delle proprie cure.

Cosa ne pensate? Vi convince l’estensione del modello delle cure palliative al declinare della vita degli anziani? E soprattutto l’adozione di questo modello come sostegno per i familiari? Avete esperienze da raccontare in merito?

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2017/01/Depositphotos_24559953_s-2015-e1484059960229.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2017-01-11 09:02:212018-10-23 18:42:13Cosa fare per i caregiver? di Marina Sozzi

La nuova frontiera delle cure palliative, la quarta età, di Marina Sozzi

21 Novembre 2016/11 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

imgres-1Si è appena concluso il XXIII Congresso della Società Italiana di Cure Palliative, a Roma, e vorrei condividere su questo blog alcune riflessioni che mi sono apparse urgenti e importanti, e che non sono per addetti ai lavori.

Si tratta del dovere che abbiamo, nel rispetto della legge 38 del 2010 (che garantisce le cure palliative a tutti i cittadini, definendole come un diritto) di estendere le cure palliative a chi muore in tarda età, non per cancro. Ricordo che solo il 5% delle cure palliative erogate in Italia riguardano persone che non hanno malattie oncologiche.

La medicina ha saputo aumentare molto l’aspettativa di vita degli individui, ma non sempre, purtroppo, l’attesa di anni di vita coincide con la salute, o con una qualità di vita accettabile per il soggetto in questione. L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di ultraottantenni, che muoiono per cause diverse dal cancro (solo il 12/14% delle persone con più di 80 anni muore a causa di un tumore): in genere, a quell’età i pazienti convivono con un alto numero di patologie che la biomedicina ha saputo cronicizzare, permettendo loro di continuare a vivere, ma che rendono questi anziani estremamente fragili. Purtroppo, come ha ben evidenziato il professor Giovanni Gambassi, del Policlinico Gemelli di Roma, il modello di medicina incentrato sul disease è fallimentare in questi casi. Ancora il 60% di questi vecchi non muore a casa sua, l’aggressività del trattamento continua dopo l’85esimo anno di età (senza intercettare il bisogno della persona), si ventilano a volte pazienti con demenza e polmonite, il 30% degli anziani che muore ha subito un inutile intervento chirurgico nell’ultimo anno di vita. E mentre accade tutto questo, i sintomi disturbanti e il disagio vengono ignorati, sottovalutati, non trattati.

Si è di fronte a un curioso paradosso: è stata la medicina ad allungare la vita e cronicizzare la malattia, ed è la prima a non essere in grado di gestire la nuova situazione creata. Si è trattato di una mancanza di lungimiranza e immaginazione sulle conseguenze del proprio operare, che spesso accompagna gli uomini molto concentrati su un obiettivo.

Occorre – oggi ci appare evidente – modificare il modello d’intervento, costruendo un approccio palliativo progressivo, consapevoli dell’era della cronicità in cui siamo entrati, e dell’esigenza di personalizzare le cure per tutti, ma a maggior ragione per gli anziani. Ciò non significa abbandonare terapeuticamente pazienti che possano ancora trarre un beneficio significativo da un intervento anche invasivo, ma non infliggerlo a persone che non hanno possibilità di sopravvivere ad esso un tempo congruo, con una qualità di vita compatibile con la loro visione della propria dignità. Occorre per questo fare un altro passo verso il coinvolgimento del paziente nel percorso di cura, grande sfida per la medicina di questo secolo. Un passo che comporta: a) di partire da una corretta informazione, che prospetti rischi e benefici per la salute fisica e mentale di ciascuno; b) di concertare le cure con il paziente, con rispetto per il suo mondo interiore e le sue possibilità di comprensione, c) di dargli la possibilità di esprimere le proprie preferenze (anche con un po’ di anticipo rispetto alla situazione concreta della scelta terapeutica, soprattutto in considerazione dell’incidenza delle demenze senili oggi).

Le cure palliative progressive devono essere scelte insieme al medico di medicina generale, o con l’equipe di riferimento. Devono diventare, quindi, competenza diffusa, non riservata ai professionisti della palliazione.

E i cittadini, che cosa possono fare per facilitare questo processo di adeguamento della medicina ai suoi stessi risultati? Affinché sia possibile morire in tarda età senza accanimento terapeutico e accompagnati da cure palliative? Dobbiamo, a mio modo di vedere, smettere di sollecitare la medicina difensiva, e di illuderci che il medico sia onnipotente (non lo è); imparare che c’è il limite e che siamo mortali; non sostituirci ai nostri anziani malati nelle decisioni terapeutiche (e neppure nelle decisioni di fine vita); smettere di dire agli anziani che guariranno quando sappiamo che moriranno; rispettare chi ha molto vissuto e ha esperienza, anche se ha meno sapere di noi; pretendere di essere coinvolti nella cura della nostra malattia.

Vi sembra poco? Io credo che si tratti di un’importante rivoluzione culturale, che i medici non potranno fare da soli, senza i pazienti, i familiari, i cittadini, insomma…noi. Che ne pensate?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/11/Fotolia_117799805_XS-e1479590114140.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-11-21 09:37:022016-11-21 09:37:02La nuova frontiera delle cure palliative, la quarta età, di Marina Sozzi

L’Alzheimer e le Direttive Anticipate di Trattamento, di Marina Sozzi

29 Settembre 2016/9 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

imagesL’Alzheimer e le altre forme di demenza senili sono tra le patologie che pongono più problemi di ordine etico, per via della perdita della competenza cognitiva da parte dei pazienti, e della lunga durata della malattia stessa (da tre a dieci anni circa). Oggi, con l’impennata epidemiologica di questa malattia (malattia del benessere per eccellenza, legata com’è all’allungamento dell’aspettativa di vita, oltre che a numerosi fattori relativi agli stili di vita e all’ambiente), non ci si può più esimere dal rifletterci: cosa vogliamo che accada di noi qualora dovessimo perdere le competenze cognitive, alterare i nostri comportamenti consueti, perdere la memoria e il senso dell’orientamento spaziale e temporale? Non dovessimo più riconoscere i nostri cari, saper gestire le nostre quotidiane incombenze?

E’ il tipico caso in cui aver dato direttive anticipate di trattamento può essere dirimente, per sé e per i propri familiari: non si tratta di un incidente stradale o di un’emergenza, casi in cui i rianimatori agiscono d’ufficio (per così dire), senza avere il tempo di informarsi su ciò che avrebbe desiderato il paziente, e spesso senza poter esattamente prevedere gli esiti del loro intervento sanitario, né nel bene, né nel male.

Si tratta, invece, di una patologia che procede lentamente, erodendo poco per volta la consapevolezza e le abilità, ma lasciando intatta la percezione delle emozioni, con tutto il disorientamento, la sofferenza, la depressione, la paura, che possono insorgere sentendosi venir meno le consuete competenze mentali.

Nella demenza e nell’Alzheimer siamo costretti ad affidarci completamente ad altri, a dipendere dal loro affetto e dalle loro cure, dalla loro capacità empatica nel comprendere i nostri bisogni, poiché non sappiamo più a esprimerci verbalmente e razionalmente. Non è facile rappresentarsi cosa vorremmo in una situazione del genere, ma se riusciamo ad andare oltre alle resistenze interiori, per immaginarci malati, potremo comprendere il valore della comunicazione familiare e amicale su temi come questi. E anche il valore che potrebbero avere le Dichiarazioni Anticipate, stilate in collaborazione con il proprio medico di medicina generale (deputato a tirare le fila della nostra salute) e condivise con la famiglia. Questa sarebbe infatti, secondo me, la modalità migliore e più saggia per raccogliere il testamento biologico, l’unica davvero efficace. Promosse e raccolte in tal modo, le DAT potrebbero anche servire a far maturare una nuova generazione di medici di base, capaci di fare davvero il mestiere che oggi, nel nuovo sviluppo della biomedicina, è pensato come loro proprio: ricomporre i vari specialismi, restando aderenti al proprio paziente, che è persona e non insieme di organi funzionanti o da riparare. Persona con desideri, progetti, paure e limiti.

Personalmente, se mi dovessi ammalare di demenza, vorrei rifiutare le cure (anche quelle salvavita) per ogni altra patologia dovesse insorgere, più o meno annessa e connessa, e essere accompagnata da cure palliative. Ho provato a chiedermi come mai desidero questo, e la domanda è servita anche a chiarirmi il valore fondante che attribuisco alla mia vita: la crescita personale, l’arricchimento dell’esperienza e dell’eticità, della saggezza e del sapere. In mancanza della possibilità di sviluppare la mia vita in questa direzione, l’esistenza perderebbe per me il suo fascino. Ma, attenzione, questi sono i valori fondanti per me, e sarebbe impensabile volerli estendere a chiunque altro, che può trovare la propria gratificazione in aspetti completamente diversi della vita.

In questo senso, quindi, credo che riflettere sull’Alzheimer possa aiutare ciascuno a comprendere quali siano le condizioni compatibili con l’attribuzione di senso alla propria esistenza: condizioni, peraltro, che dobbiamo immaginare come interiormente negoziabili, non date una volta per tutte: perché questo è l’umano, complesso, sfaccettato, mutevole. Per questo occorre che le DAT siano un discorso aperto con un interlocutore, facilmente modificabili, aggiustabili, come e più di un documento testamentario notarile.

Parlarne con il proprio medico, inoltre, può aiutare lui a capire chi siamo, e quindi a consigliarci nel modo migliore sulle scelte riguardanti la nostra salute: scelte che non sono sempre necessariamente morire o vivere, ma operarsi o no in certe circostanze, fare o no una terapia oncologica invasiva, magari “cautelativa”, e moltissime altre. Credo sia bene riflettere su un fatto, che dovrebbe essere l’unico assioma della laicità, quella vera e profonda, praticabile da credenti e non, religiosi e non: non esistono modelli esistenziali assoluti, e quindi non esistono scelte etiche universalmente valide.

Cosa ne pensate? Vedete il rapporto tra “epidemia” di Alzheimer (un milione e duecentomila persone in Italia) e l’esigenza di lasciare Dichiarazioni Anticipate di Trattamento? Siete d’accordo che a raccogliere le DAT siano i medici di medicina generale?

 

 

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/09/Fotolia_114699119_S-e1475136826598.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-09-29 10:15:342018-10-23 18:42:14L’Alzheimer e le Direttive Anticipate di Trattamento, di Marina Sozzi

Alzheimer e demenze: tragedie e buone prassi, di Marina Sozzi

19 Luglio 2016/2 Commenti/in Vecchiaia/da sipuodiremorte

La mia prima esperienza con l’Alzheimer risale, ormai, a più di venti anni fa. Mia suocera viveva con noi alcuni mesi l’anno, e le volevo bene. Era una donna napoletana con un’innata nobiltà, alta e dritta nonostante l’artrite. Cucinava per noi meravigliose teglie di verdure, e invitavamo quasi ogni giorno qualcuno a cena. Una sera arrivarono i nostri più cari amici, con i quali condividevamo quotidianità e bambini da crescere, oltre che le teglie della “nonna”: erano a casa nostra almeno tre volte la settimana. Lei li accolse dicendo: «E chi sono questi bei ragazzi?». Restammo senza parole ma la prendemmo sul ridere. Non sapevamo nulla dell’Alzheimer, e ci vollero altri mesi e altri episodi prima di arrivare a una diagnosi. Dal neurologo la portammo dopo che la trovammo una notte, col cappotto indosso, accanto alla porta, seduta con la schiena eretta, il suo bastone da passeggio, che ci chiedeva di accompagnarla dal parrucchiere. Fu una rapida discesa agli inferi verso il nulla, che si impossessava della sua mente e che ci riempiva di tristezza e ansia. Nessuno ci aveva parlato dei sintomi, di ciò che avremmo dovuto aspettarci, di come sarebbe stato bene comportarci. Avevamo la fortuna di poter pagare una badante. Ma nulla poteva proteggere mio marito dal dolore di non essere più riconosciuto da sua madre. Ho letto recentemente l’osservazione di uno scrittore, la cui madre è stata colpita dalla malattia. Se mia madre non mi riconosce, scrive, chi sono io? Qual è la mia identità? Probabilmente è stata questa la sua percezione di allora, vista con gli occhi più consapevoli di oggi.

Le fu risparmiato il peggio, la perdita completa del controllo del corpo. Una sera la sentii scottare, aveva una polmonite, complicazione frequente. Convinsi mio marito a lasciarla andare, non la portammo in ospedale, veniva un infermiere a farle un’inutile flebo di liquidi e antibiotici: lui non riusciva più a entrare nella camera di sua madre, e passò interi giorni a misurare a passi incerti il corridoio. Lei soffrì, credo, era molto agitata, ma di cure palliative sapevamo ancora poco, ed erano previste solo per i malati di cancro. Poi entrò in coma, e un giorno dopo morì.

Sono passati quindici anni e la malattia d’Alzheimer si è diffusa, con l’ulteriore invecchiamento della popolazione. Oggi, se non ricordiamo un nome, diciamo scherzosi “ho l’Alzheimer!”. E’ noto che si fa spesso dell’umorismo su ciò che ci fa più paura: e infatti sulle demenze senili vi è ancora un pesante stigma, e le diagnosi continuano a essere tardive, perché i sintomi vengono spesso ricondotti al semplice fatto di essere vecchi.

Abbiamo nel frattempo capito che le demenze sono l’ultimo flagello della nostra civiltà, ne parliamo in libri e film, e speriamo nell’onnipotenza che attribuiamo alla medicina, affinché produca un vaccino, una cura, qualcosa che possa evitare o fermare lo sgretolarsi del cervello. Sappiamo anche che chi cura un malato di Alzheimer ha a sua volta un terribile bisogno di cure, perché la sua integrità psicofisica è a rischio: isolamento, depressione e malattie organiche sono frequenti. Il rapporto Censis sull’Alzheimer del 2016 ci dice che i caregiver hanno in media sessant’anni: ci sono, tra questi quasi-anziani, figli non più giovanissimi, ma anche vecchi di ottant’anni che trascorrono l’ultimo periodo della loro vita in un lago di dolore, senza molti aiuti, impegnati in un lavoro di cura al di sopra delle loro forze. Ogni tanto accade una tragedia, un ottantenne così disperato da uccidere il coniuge, un figlio che soffoca la madre. Allora tutti diciamo: che sia l’ultima volta!

Nel frattempo la crisi economica ha provato le famiglie, primo nucleo della cura nel nostro paese. Molte devono aiutare i figli disoccupati o con un lavoro che non permette loro di mantenersi. La badante non ci sta, anche unendo le forze di più nuclei, e nemmeno la retta dell’RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale). E dal sistema sanitario e dai servizi sociale il sostegno arriva col contagocce, nonostante la buona volontà di molti funzionari: pochi e insufficienti i centri diurni, dove è possibile lasciare i propri cari malati durante il giorno, a fare terapia occupazionale o stimolazione cognitiva, per rallentare la malattia. Il terzo settore (di cui Infine Onlus fa parte), con il finanziamento delle fondazioni di erogazione, propone Alzheimer caffè e gruppi di sostegno per i familiari, ma riesce a fare interventi puntiformi in una distesa di disagio: un po’ per la mancanza di coordinamento, e di denaro, e un po’ per la scarsa collaborazione delle amministrazioni. Ma anche perché le famiglie al cui interno c’è un malato tendono a richiudersi su se stesse, esauste, e a ritirarsi dal mondo. Non è semplice far arrivare loro l’informazione che l’aiuto è disponibile, e talvolta sono così abituate a far da sole che sono diffidenti con chi vorrebbe dare una mano.

So di aver dipinto uno scenario a tinte molto fosche. Voglio chiudere con una nota di ottimismo: da settembre, a Torino, dieci volontari di Infine Onlus, che hanno seguito un lungo corso di formazione, saranno disponibili a sostituire chi cura un malato di demenza a domicilio per alcune ore la settimana, dandogli un po’ di sollievo (grazie al finanziamento di Fondazione Specchio dei Tempi). Avete altre esperienze di buone prassi? Credo sarebbe molto positivo condividerle, per portare alla luce tutto il supporto che esiste.

(L’immagine in primo piano è di Pier Luigi Fagioli uno dei vincitori del contest fotografico “Immagini di vita” organizzato  da Infine Onlus http://www.infine.it/news/infine-onlus-proclama-i-vincitori-del-contest-fotografico-immagini-di-vita/)

 

 

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2016/07/Fagioli-Pier-Luigi-alzheimer-4-copia.jpg 1852 2480 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2016-07-19 15:54:332018-10-23 18:42:14Alzheimer e demenze: tragedie e buone prassi, di Marina Sozzi

La giornata dell’Alzheimer e i media

14 Settembre 2015/6 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Forse perché il 21 settembre è la giornata mondiale dedicata all’Alzheimer, nelle ultime settimane abbiamo assistito a un infittirsi, su quotidiani, testate online e agenzie, di notizie riguardanti questa e altre forme di demenza.
Ottimo, direte voi. Purtroppo (con alcune pregevoli eccezioni), non si può fare a meno di commentare la qualità, a essere generosi scadente, di queste notizie. Facciamo un breve itinerario attraverso titoli e sottotitoli, tanto per darvi l’idea, nel caso in cui non vi fossero capitati sotto gli occhi.
La Gazzetta dello Sport: “Fitness, l’Alzheimer si può prevenire con l’attività fisica”. Adnkronos: “La prevenzione dell’Alzheimer comincia a tavola, se si segue la dieta mediterranea” (di questo pare si sia parlato all’Expo di Milano). Online-News: “L’obesità over 50 accelera l’Alzheimer”, e qui val la pena leggere anche la prima frase dell’articolo: “Ogni punto in più dell’indice di massa corporea corrisponde ad un anticipo dell’insorgenza della demenza di circa 7 mesi” (la notizia si trova anche su Affari Italiani). Humanitas Salute: “Alzheimer, dal caffè un aiuto contro demenza e declino cognitivo?” L’articolo poi dice che una tazzina al giorno riduce il rischio di deterioramento cognitivo lieve, mentre chi ne beve troppo corre più pericoli. Chissà qual è il giusto mezzo?
La Stampa salute: “Le noci contro la malattia di Alzheimer” e, sempre sullo stesso giornale, ecco in sintesi i consigli per la prevenzione (dato che, come è noto, la cura ancora non c’è): 1. Esercizio fisico, 2. Seguire la dieta mediterranea, 3. Gestire altre condizioni di salute, in particolare il diabete, 4. Evitare di fumare, 5. Usare il cervello. Non mancano notizie sulla minore incidenza dell’Alzheimer nelle classi sociali superiori e più istruite (sarà, ma come dimenticare Ronald Reagan e la Margaret Thatcher?).
Ora, vi ricordate le raccomandazioni per prevenire il cancro? Se si esclude l’uso del cervello, sono esattamente le stesse. E’ senz’altro lodevole che si voglia indurre la popolazione ad adottare uno stile di vita sano, anche se il metodo risulta essere un maldestro tentativo di risparmiare sulla sanità, con poca attenzione al reale benessere degli individui. Non credo infatti sia lecito farlo spargendo il panico sulle malattie che fanno più paura: Il Sole 24ore ci parla di una diagnosi di demenza (nel mondo) ogni 3 secondi, di una vera e propria epidemia. Un caso ogni tre secondi su una popolazione mondiale di 7,36 miliardi, significa lo 0,00014% circa. Scritto così, inquieta certo molto meno: il modo in cui vengono date le notizie è senz’altro scandalistico.
Curioso, peraltro, che l’Italia non faccia per nulla eccezione nell’incidenza dell’Alzheimer. La dieta mediterranea non era decisiva per la prevenzione?
Tutte queste notizie fanno naturalmente riferimento a ricerche o a ipotesi di ricerche sfuggite agli studiosi, studi sovente non ben impostati, non sufficientemente sperimentati o confermati dalla comunità scientifica internazionale. Così gli articoli, invece di fare informazione, aumentano la confusione. Un esempio particolarmente opportuno? La recente ipotesi di una trasmissibilità della malattia, dovuta alla scoperta di depositi di proteina beta-amiloide (tipici dell’Alzheimer) in pazienti che avevano contratto la malattia in seguito a somministrazione di ormone della crescita tratto dalla ghiandola pituitaria di cadaveri.
Mentre scrivo di questa ipotesi, io, che non sono un ricercatore né un medico, fatico a capire bene. Mi è chiaro, però, che se ne sa ancora molto poco, e che c’è polemica intorno a questa presunta scoperta (peraltro si parla di otto casi su 30.000 esaminati).
Perché allora decine di giornali in tutto il mondo hanno titolato L’Alzheimer è contagioso? (contagioso è tutt’altra cosa che trasmissibile attraverso materiale contaminato), facendo crescere il panico in coloro che accudiscono un malato di demenza?
Sappiamo che le malattie che sono ancora poco chiare, come il cancro e l’Alzheimer, spaventano. Sappiamo anche che i cittadini sono spesso pronti ad accogliere notizie improbabili, pur di non restare nel dubbio. Proprio per questo è riprovevole che le testate giornalistiche, per creare la “notizia”, cerchino di colmare le lacune della scienza, producendo illusioni o terrori.
Inoltre, sfogliando i giornali in questi giorni, sorge un’ultima ma centrale domanda: perché così pochi articoli su chi si occupa di assistenza? Sulle difficoltà delle famiglie che hanno un malato tra i loro congiunti? Sui problemi della sanità pubblica e delle amministrazioni nel sostenere i malati e i loro caregiver? Sul fatto che esistono numerose situazioni in cui i malati di demenza vivono soli, costituendo un enorme pericolo non solo per sé, ma anche per i loro vicini?
Perché non si parla delle associazioni che compiono un importante lavoro di sostegno? Perché non si danno informazioni alle famiglie sui loro diritti e sulle opportunità di aiuto?
Facciamolo noi, insieme, cari amici.
Se avete avuto esperienze di aiuto efficace nell’assistere un malato di demenza, raccontatela, così come vi chiedo di narrare le vostre difficoltà.
Io mi impegno, in una serie di articoli che seguiranno questo, a dare indicazioni sulle risorse presenti sul territorio della provincia di Torino.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/09/Alzhei-e1442156665374.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-09-14 18:10:022015-09-14 18:10:02La giornata dell’Alzheimer e i media

La demenza e la paura di dipendere dal prossimo

16 Giugno 2015/15 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Vorrei oggi provare a guardare la malattia d’Alzheimer da un punto di vista inconsueto, che definirei culturale.
Mettiamo per un breve periodo tra parentesi la paura che succeda ai nostri cari o a noi stessi. Facciamo cadere in un momentaneo oblio le immagini che abbiamo dei malati che ci è accaduto di andare a trovare o di curare a casa: le loro parole per noi prive di senso, il loro errare senza sapere dove, le loro fughe, la loro confusione, e la rabbia, lo sguardo perduto, l’immobilità vuota, l’impossibilità di riconoscerci, il loro perdere progressivamente l’abilità di vestirsi, lavarsi, alzarsi, mangiare. Dimentichiamo anche la nostra sconsolata disperazione, il nostro sentimento di solitudine, se si è trattato di una persona per la quale abbiamo nutrito affetto. E i molteplici problemi pratici ed economici che l’assistenza ha creato o crea.

Vi sto chiedendo molto? Avete ragione… “a che pro?” vi domanderete.
Vorrei riflettere su un timore diffuso, quello di PERDERE L’AUTONOMIA e di DIPENDERE DA ALTRI. Si tratta forse della “Paura” per antonomasia, che ci destabilizza almeno quanto quella di soffrire o di morire. Anche se dipendere da altri è una necessità in molte patologie, il malato di demenza rappresenta l’incarnazione di questo terrore, poiché il decorso della malattia è una progressiva scomparsa della memoria e delle abilità acquisite.
Così, a volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “se mi ammalo di demenza, mi uccido”. “Stare al mondo con la demenza è vegetare, non vivere”. “Nel mio testamento biologico ho scritto che non voglio mi si diano antibiotici se avrò una complicazione polmonare, frequente nei malati di Alzheimer” (questo è quello che ho detto io).

Perché ci fa tanta paura dipendere da altri? Che timore nascondiamo, esattamente, dietro quel senso di disagio intollerabile, al solo pensiero di non essere autonomi? C’è qualcosa che possiamo fare per mitigare la nostra paura?
Vi ricordate quando eravamo bambini e avevamo la febbre? Era una pacchia mangiare sul vassoio che la mamma portava a letto, la spremuta d’arancia, i giornalini nuovi, papà che tornato dal lavoro si fermava in camera nostra… da piccoli non avevamo paura di non essere autonomi, di essere di peso, di dipendere dalle cure altrui. Cosa ci è successo dopo, quando siamo entrati nel mondo adulto?
Nella nostra cultura vige l’idea che fare da soli sia un valore (“si è fatto tutto da sé”), e che l’individuo costituisca l’unità minima della società (non la famiglia, non la stirpe). E cosa intendiamo per “individuo”? Un uomo con una personalità definita e stabile, razionale, padrone del proprio destino, in grado di dominare le proprie emozioni e di scegliere per sé, facendo riferimento solo alla propria volontà (senza ledere l’altrui libertà) in qualunque circostanza.

Ma siamo proprio sicuri che l’individuo autonomo, slegato dagli altri e indipendente sia il primo tassello su cui si fonda la nostra società? Non potrebbe essere il contrario? A me pare che sussista una dimensione collettiva, un “noi” che permette all’”io” di esistere: la visione dell’individuo vincente nel pensiero occidentale non pare realistica. Non nasciamo nell’iperuranio, ma in una certa porzione del pianeta Terra, in un determinato paese, in una certa epoca storica, in una famiglia, che ha reti di relazioni amicali e lavorative: siamo, quindi, dipendenti da mille fili invisibili che contribuiscono a costituire e legittimare le nostre emozioni, le nostre opinioni, le nostre scelte. Non siamo soli al mondo, apparteniamo a molti insiemi umani, a molti “noi”, che non sono immutabili (perché evolvono nel tempo) ma che ci condizionano in diversi modi, nel corpo ancor prima che nella mente. E corpo e mente, contrariamente alla tendenza occidentale a tenerli distinti, sono tutt’uno. Già Lévi-Strauss aveva messo in luce l’insistenza tematica, quasi la fissazione della cultura occidentale sull’io a discapito del noi. Il grande sociologo Baumann ci ha mostrato, più recentemente, il prezzo che paghiamo all’individualismo imperante, alla frammentazione, all’oblio della fragilità umana e della solidarietà: una solitudine senza fine.

In virtù di questo insieme di idee mitologiche sull’individuo autonomo e indipendente, da adulti tendiamo a dimenticare che la fragilità, l’impotenza, il bisogno d’aiuto che sono evidenti nel bambino, nell’anziano, e ancor più nell’anziano malato di demenza, sono universali, fanno parte dell’essere uomini. Dipendiamo dagli altri per tutto il corso della nostra vita, senza accorgercene. Poi, se ci ammaliamo, la dipendenza si manifesta, con tutti i tormenti, legati al sistema di valori nel quale viviamo, che si aggiungono al dolore di essere malati. E cominciamo a ruminare pensieri nella nostra mente affannata: “se non sono autonomo, se rischio di “dipendere” dall’altrui solidarietà, rischio di “essere di peso” per i miei figli, di frenarne la corsa, di obbligarli a dedicarmi del tempo, di distoglierli dalla professione, dal guadagno, dalla carriera. E certamente mi ameranno di meno, saranno insofferenti per queste limitazioni, anzi non mi ameranno più. Ma soprattutto, se il mio valore di persona è legato all’indipendenza, ora sono costretto a chiedere aiuto, a gravare su altri, e quindi non valgo, la mia vita perde di significato e di dignità”. Ecco i nodi principali della paura di dipendere da altri.

E la demenza? Fa una grande paura perché il malato neppure si rende conto di gravare sul suo prossimo. E questo appare oggi il culmine della mancanza di dignità. Rimando a un post successivo le complesse considerazioni etiche che l’assistenza a un malato di Alzheimer solleva.
La malattia, con il suo carico di sofferenza per malati e caregiver, ci insegna, piuttosto brutalmente, che dipendiamo reciprocamente gli uni dagli altri molto di più di quanto non ci faccia piacere ammettere. Il demente perde i ricordi, la sua memoria autobiografica se ne va, non riesce a recuperare il ricordo degli avvenimenti della sua vita, e neppure l’identità delle persone con cui ha costruito rapporti affettivi. Ha pertanto bisogno d’aiuto in ogni momento, per costruire la sua quotidianità, perché gli mancano i riferimenti necessari. E’ come se vivesse in un eterno qui e ora, sempre di volta in volta da reinventare.

Vi va di condividere come vi siete sentiti nei casi in cui avete dovuto dipendere da altri, nel corso di una malattia, in seguito a un’operazione, o per altre ragioni? E’ stato difficile? Avete provato disagio? E quando siete stati caregiver? Siete stati insofferenti o avete pensato fosse possibile dedicare tempo alla cura traendone un arricchimento personale?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/06/matisse-dance.jpg 1071 1600 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-06-16 11:51:272015-06-16 11:51:27La demenza e la paura di dipendere dal prossimo

Prendiamo per mano l’Alzheimer

28 Aprile 2015/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Cari amici,
quanti di voi hanno avuto un familiare malato di Alzheimer o di un altro tipo di demenza, e hanno attraversato la lunga tristezza di vederlo ogni giorno perdere abilità, estraniarsi un po’ di più dal mondo, deperire? Quanti hanno sperimentato l’improvvisa mancanza di libertà, per l’impegno di accudire il familiare malato, che non può essere lasciato solo? Quanti hanno dovuto misurarsi con le spese spesso insostenibili che l’assistenza di questi pazienti richiede? Quanti hanno provato senso di colpa perché hanno rinunciato a curare in casa il loro caro?
Se avete fatto queste esperienze, non siete gli unici. L’incidenza dell’Alzheimer e delle altre demenze è in costante aumento.
La convivenza con un malato di Alzheimer è tutt’altro che facile. A seconda del grado di progressione della patologia, il malato può perdere gradualmente le sue capacità mentali e soprattutto di gestione del quotidiano. Tali limitazioni, in particolare nelle fasi precoci, possono anche non richiedere un ricovero o un’assistenza continuativa. In queste situazioni “grigie” la sanità pubblica offre interventi che spesso si rivelano insufficienti sia nel fornire competenze minime per gestire la malattia, sia nell’offrire sostegno emotivo.

Proprio per aiutare i caregiver dei malati con demenza Infine Onlus offre gratuitamente la partecipazione a gruppi condotti da un neuropsicologo, il dottor Andrea Raviolo,
che hanno un duplice scopo:
1. Innanzitutto informativo, così che i familiari possano comprendere meglio ciò che accade al loro congiunto malato (Che cos’è la demenza? Quanti tipi di demenza esistono? Cosa significa prendersi cura di una persona con demenza? Quali sono le cose fondamentali da sapere? Esistono modi efficaci per rendere più semplice la quotidianità? Se ne può parlare? Ci sono altre persone che affrontano quotidianamente le nostre stesse difficoltà?)
2.In secondo luogo, di supporto, condividendo la propria esperienza di caregiver con chi vive la stessa esperienza, e imparando a conoscere e rafforzare le risorse che ciascuno possiede per affrontare questa difficile avventura.

Parallelamente all’attivazione dei gruppi, Infine Onlus intende costituire un Osservatorio permanente sulle demenze, composto da alcuni esperti della materia (un geriatra, un neurologo, un neuropsicologo, un palliativista, un medico di famiglia, un dirigente di Asl, un dirigente dei centri di valutazione dell’Alzheimer, un infermiere, un dirigente di RSA) per progettare nel tempo nuovi interventi che vadano ad affiancare i gruppi.

Ecco il link per donare per il progetto, su Rete del dono:
http://www.retedeldono.it/progetti/associazione-infine-onlus/prendiamo-lalzheimer-per-mano

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2015/04/InfineArt_Mole_pagine-web1-e1430219298990.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2015-04-28 17:06:492015-04-28 17:11:12Prendiamo per mano l’Alzheimer

Come muoiono i nostri vecchi?

19 Febbraio 2013/109 Commenti/in La fine della vita/da sipuodiremorte

Oggi viviamo a lungo, e spesso godiamo di un certo numero di buoni anni, più liberi dagli impegni e ancora in buona salute. Purtroppo c’è un rovescio della medaglia: molto più frequentemente che in passato, siamo colpiti da malattie degenerative, in particolare da demenze, che trasformano il vivere, o se vogliamo il lento morire, in un calvario, per noi e per gli altri. La demenza costituisce una delle emergenze sanitarie che i paesi con più alto tenore di vita si trovano ad affrontare, ed è molto probabile che in futuro questo fenomeno assumerà dimensioni ancor più drammatiche a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e dell’aumento ulteriore dell’aspettativa di vita dei cittadini. Fra pochi anni, addirittura, la principale causa di morte sarà la demenza. L’incremento mondiale di ultrasessantenni previsto tra il 1990 e il 2030 è del 180%, con un aumento in valore assoluto da 488 milioni a 1,3 miliardi, e riguarda, sebbene in minor misura, anche i paesi in via di sviluppo.
La demenza è, in generale, una malattia lunga e invalidante. Per via di questo decorso, si stenta a considerarla una malattia terminale: tuttavia è noto che, per gradi, il paziente passa dall’autosufficienza alla completa assenza di competenza cognitiva, e poi al deperimento fisico e alla morte. Assistere un malato di demenza è impresa ardua e frustrante, perché spesso il paziente non riconosce i familiari e ha manifestazioni di aggressività. La maggior parte di questi vecchi muore nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA), pensate per gli anziani disabili, dove è ancora raro il personale competente in cure di fine vita, e dove spesso il dolore (anche fisico) è sottovalutato e trascurato (non dimentichiamo la legge n. 38 del 2010, che stabilisce che l’accesso alle cure palliative sia un diritto per tutti). A volte, per poter far accedere un vecchio a un programma palliativo, si va cercando nel suo corpo un tumore che gli dia la possibilità di rientrare nella categoria dei malati oncologici e di avere un posto in hospice.
Credo che non possiamo lasciar andare le cose in questo modo, senza fare pressioni, anche politiche, per migliorare questa inquietante realtà, e senza trovare alternative, per la morte degli anziani, meno deprimenti della reclusione in RSA. Qualcuno di voi ha fatto esperienze che può condividere? E anche chi non ne ha fatte, cosa ne pensa?

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2013/02/donna-demente.png 262 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2013-02-19 22:42:002013-02-19 22:42:00Come muoiono i nostri vecchi?

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